Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: coniglio_tossico    01/09/2015    0 recensioni
Sapeva di essere un grazioso uccellino rinchiuso in più ordini di gabbie; la sua personale gabbia dorata, il Giardino delle Rose, che le dava un ruolo e da vivere; la società malata che la circondava, con le sue storture sociali e politiche; Le Mura, al di fuori delle quali esseri giganteschi e pressoché sconosciuti disponevano dell’esistenza della razza umana.
Genere: Avventura, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Berthold, Huber, Irvin, Smith, Nuovo, personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nell’anno 847 Trost aveva ritrovato una sorta di equilibrio, pagato a costo delle vite di persone che avevano sognato di poter riconquistare il territorio tra il Muro Rose e Il Muro Maria: carovane di gente disperata, che a fronte di una vita da profughi all’interno dei distretti aveva preferito rischiare la morte per un sogno.  Quel sogno si era miseramente infranto contro la fumante carne dei Giganti. Il risultato fu una tragedia con perdite colossali tra militari e civili. Triste a dirsi, il calo della popolazione fu una manna per quelli che erano rimasti. La carestia aveva lievemente allentato la sua stretta.
Le azioni militari erano ridotte a quelle dell’Arma Ricognitiva e la gente aveva di quest’ultima solo l’immagine di squadre che uscivano a cavallo dalle mura e ne ritornavano decimate. In pochi ricordavano di aver visto un Gigante, in molti non riuscivano a rendersi conto dell’effettivo pericolo che il genere umano correva. In molti erano addirittura scontenti dell’impegno economico imposto alla popolazione per sostenere tali escursioni.
“A volte troppa tranquillità distorce la mente delle persone.”
Così le diceva James, il garzone dell’emporio, quando Juliette si recava a fare delle commissioni per la Casa.
Lei concordava con lui.
E’ vero, era facile lasciarsi andare al comodo pensiero che quella che conducevano era una vita normale, se pur non priva di sacrifici e disagi. 
Come faceva la gente a non ricordare o a non capire?
La caduta del Muro Maria era così recente e aveva causato danni di proporzioni talmente elevate in termini economici e di perdita di vite umane. Lei aveva seguito con apprensione le ondate di profughi che si erano riversate a Trost e aveva cercato con lo sguardo la sua famiglia tra le persone in fila per un pasto. Per mesi.  Finché un giorno aveva riconosciuto almeno lui, il piccolo Bertholdt ormai tredicenne.
Juliette non poteva recarsi tutti i giorni nel quartiere dove venivano distribuiti i pasti per i profughi.
In ogni caso, in quelle occasioni in cui le veniva affidata una commissione da quelle parti, non aveva mai scorto il fratello o un familiare tra la folla. Cominciava ormai a perdere le speranze.
Dal giorno in cui Juliette aveva lasciato la sua casa erano passati ormai otto anni. Allora Bertholdt aveva cinque anni, lei sedici. Si era chiesta se, vedendolo, lo avrebbe riconosciuto.
I giorni in cui si recava in quella zona di Trost erano sempre gli stessi nell’arco della settimana. Era capitato per caso che questa consuetudine non venisse rispettata e questo le aveva permesso di rivedere suo fratello.
Bertholdt si era salvato dalla catastrofe abbattutasi sul proprio paese insieme a un minuscolo gruppo di superstiti che si erano poi rifugiati a Trost dopo una rocambolesca fuga.
Un ragazzo poco più grande di lui gli si era avvicinato. Bertholdt era molto timido e aveva parlato poco da quando era giunto nel distretto. In realtà non ricordava bene nemmeno come ci era arrivato, A Trost. Il ricordo si faceva confuso ogni volta che cercava di fissarvi la mente. I suoi attuali compagni pensavano fosse dovuto allo shock subito. Il nome del ragazzo che aveva tentato di approcciare un contatto con lui era Reiner e condivideva con Bertholdt la perdita di entrambi i genitori nel massacro dei paesi all’interno del Muro Maria. Era alto poco meno dell’allampanato tredicenne ma molto più prestante e muscoloso. Era biondo, aveva lineamenti netti e volitivi, il volto e la fronte ampi e quadrati e gli occhi sottili e penetranti. A fronte della giovane età infondeva un senso di sicurezza a chi lo conosceva. Gli era venuto naturale cercare la compagnia di Bertholdt e a quest’ultimo era venuto naturale cercare in Reiner un punto di riferimento.
Bertholdt era magro e non particolarmente muscoloso. Aveva capelli neri spioventi sul volto e grandi occhi che parevano sempre domandarsi qualcosa, senza darsi mai la risposta. I suoi lineamenti erano morbidi nonostante la forma del volto affilata. Allora il ragazzo aveva dodici anni e l’età giustificava la delicatezza che presentavano i tratti del viso, ma qualcosa nel suo aspetto lasciava presagire che anche crescendo avrebbe mantenuto quell’aria infantile. Reiner, al contrario, nonostante fosse più vecchio di lui di solo un anno, aveva l’aria di non esser mai stato veramente bambino.
I due ragazzi si erano uniti all’enorme quantità di persone che per sopravvivere si affidavano alla carità offerta dal Governo Centrale e per il resto avevano vissuto per strada, di espedienti.
Il motivo per il quale Juliette per mesi non era riuscita a vedere il fratello in fila per i pasti era che lui e Reiner si erano divisi i giorni. Ogni profugo che volesse godere della solidarietà accordata dal governo aveva dovuto, nei giorni successivi all’ingresso nel distretto, farsi registrare dalla milizia cittadina e aveva ricevuto un documento identificativo che gli riconosceva il diritto al sussidio in qualità di reduce del disastro. Questo impediva tutti gli indigenti della città di presentarsi a scroccare pasti gratis, la dove già era difficile rimediarne per quelli che ne avevano diritto.
Per evitare che si creassero file interminabili, che finivano immancabilmente per intasare le vie oltre la piazza dove erano distribuite le vettovaglie, era consentito che un'unica persona potesse ritirare il pasto previsto per una o due persone in più, presentando i loro documenti. Ovviamente c’era il rischio che fossero riutilizzati documenti di persone decedute, ma il problema dell’assembramento eccessivo era divenuto talmente poco gestibile che questa eventualità era stata considerata come un effetto collaterale trascurabile.
Così Reiner e Bertholdt ritiravano i pasti l’uno per l’altro a turno.
I giorni in cui Juliette si recava in quel quartiere semplicemente non corrispondevano con i giorni in cui Bertholdt ritirava i pasti.
Quella volta Juliette si era recata all’emporio in un giorno diverso dal solito.
Era appena uscita dalla bottega con in mano un grosso pacco che le era stato raccomandato di prelevare e stava percorrendo il marciapiede sotto l’ampio loggiato che si affacciava sulla piazza in cui si riunivano i profughi,  sempre alla stessa ora.
Mancava qualche minuto e Juliette attendeva al riparo delle colonne del loggiato, come era solita fare. Osservava la gente che si metteva in fila, persone spente,  prive di speranza per il futuro. Ogni volta che assisteva a quella scena, all’apprensione per la ricerca dei suoi familiari si univa un senso di angoscia profonda. Le mancava il respiro, si rendeva conto che la situazione, per quella gente, poteva solo peggiorare e pochi avrebbero potuto svoltare, se non arruolandosi o andando a nutrire le fila della criminalità.
Improvvisamente, in mezzo al piccolo fiume di persone che andava formando una fila ordinata, Juliette aveva scorto un ragazzino alto e magro.
Aveva i capelli corvini come i suoi, la stessa pelle, le stesse lentiggini. E aveva gli occhi di suo fratello. Quegli occhi che anche a cinque anni erano pieni di domande. Gli occhi del piccolo Bertholdt, quei laghi verdi che lei ricordava, adesso erano tristi e la luce che li contraddistingueva era smorzata, rifletteva una fitta nebbia di ricordi che nessuno avrebbe voluto avere.
Ma era Bertholdt.
Juliette non aveva dubbi.
Ed era vivo.
La ragazza era rimasta immobile, il cuore che le rimbalzava dolorosamente contro le stecche del corsetto, il volto pallido, bianco come la camicetta che indossava sotto il rigido indumento, la lunga gonna di fresco di lana grigio mossa da una lieve brezza.
Avrebbe voluto mollare quel pacco, correre sgomitando tra la folla e abbracciare quella figura alta eppure così fragile. Avrebbe voluto stringere suo fratello e dirgli quanto gli voleva bene. Avrebbe voluto piangere.
Non aveva fatto niente di tutto questo.
Era vivo, stava bene, tanto doveva bastarle.
Non poteva fare di più. Che gli avrebbe detto?
Vieni tesoro, tua sorella fa la puttana, ma non preoccuparti, puoi dare via il tuo corpo anche tu insieme  a me d’ora in poi…
Non poteva farsi vedere e dirgli semplicemente come erano andate le cose. Non sarebbe servito a nessuno, tanto meno a lui. Lo avrebbe aiutato, ovviamente, ma doveva trovare il modo di farlo in maniera discreta. Avrebbe pagato James, il garzone dell’emporio, perché gli facesse avere in maniera anonima ciò di cui aveva bisogno. Doveva studiare bene i dettagli, ma era l’unica cosa sensata da fare.
Juliette aveva lasciato un ultimo sguardo sulla scena e nascondendo il volto dietro il grosso pacco della signora Cornelia, se ne era andata in silenzio, ma non aveva potuto impedire a una lacrima di rigarle il volto.
Da quel giorno Juliette aveva spiato suo fratello a distanza per tre anni, assicurandosi che avesse di che sfamarsi e vestirsi, finché un giorno James non le aveva detto che Bertholdt e il suo amico biondo si erano arruolati.
Quel giorno Juliette era quasi svenuta.
Sul marciapiede davanti all’emporio, intorno a lei, le persone continuavano a passare affrettate e prese dalle loro attività quotidiane, dallo scorrere della vita che consideravano normale.
Lei era ben conscia che non era così.
Non c’era niente di normale
Suo fratello si era appena arruolato, probabilmente spinto dalla necessità di trovare un posto nel mondo o dalla follia per il dolore della perdita della propria famiglia e del proprio futuro.
Cinque anni prima il suo villaggio era stato devastato dai Giganti, una minaccia che era viva e reale dietro quelle Mura. Da un momento all’altro tutto poteva volgere al peggio e lei non poteva farci niente.
Non c’era davvero niente di normale.
E lei sapeva di essere un grazioso uccellino rinchiuso in più ordini di gabbie: la sua personale gabbia dorata, il Giardino delle Rose, che le dava un ruolo e da vivere;
la società malata che la circondava, con le sue storture sociali e politiche; le Mura, al di fuori delle quali esseri giganteschi e pressoché sconosciuti disponevano dell’esistenza dalla razza umana.
James, dopo averle la notizia si era preoccupato per la reazione di Juliette.
Era come pietrificata.
Il ragazzo l’aveva scossa dalla sua catatonia, le aveva stretto forte le mani, le aveva offerto dell’acqua.
Lei era tornata dai suoi pensieri come da molto lontano. Di colpo l’ansia e la rabbia per la propria impotenza l’avevano abbandonata. Tutta la situazione le appariva lontana, ora, la osservava con freddo distacco, la sua mente usava come arma di difesa la razionalizzazione, portava la realtà sotto la lente di un microscopio.
Una volta ripreso colore, Juliette, aveva ringraziato James per le premure e per tutto quello che aveva fatto per aiutarla a provvedere al fratello. Quindi si era congedata con un sorriso.
Quel sorriso che faceva innamorare tanti e che aveva in se tutta la tristezza del mondo.
 
 
 
 
 
Si vestì, Juliette, in quella calda giornata primaverile.
Era affamata. Rassettò in fretta la sua stanza.
Aveva una camera sua. Poche l’avevano: le altre la condividevano e alcune dormivano nelle stesse stanze nelle quali lavoravano. Uscì nel corridoio, scese le scale di legno e si diresse verso la sala comune, dove le ragazze consumavano un’abbondante colazione in tarda mattinata. Il Giardino delle Rose poteva permettersi un’ ampia cucina e del personale che provvedesse ai pasti e alle pulizie. Niente di principesco, ma molto di più di quello che molte famiglie potevano permettersi a Trost allo stato attuale dell’economia. Avevano pane, latte, burro, miele, uova e una volta alla settimana potevano addirittura permettersi della carne.
“ Buongiorno alla principessa delle rose!”
Una ragazzetta dal viso furbo, vispo e pallido, incorniciato da una cascata di boccoli di un biondo quasi bianco ammiccò verso Juliette. Con una smorfia divertita, esagerò un inchino.
“ Sta zitta Fabiola! “ Juliette sbadigliò. Acchiappò un piccolo panino dolce dal cesto sul tavolo e lo infilò in bocca alla biondina, ridendo.
La fatina bionda non si scompose e masticando rispose solo “Gwrazie!”
“Com’ è andata stanotte, dolcetto?” chiese Juliette versandosi del latte.
“ Tutto bene…” l’espressione della ragazzina si fece annoiata e professionale.  “Solite cose, Persone a posto, nessuno da cui doversi difendere…qualcuno era pure un bel tipo”
Diede un altro morso al panino e strizzò un occhio.
“Mi fa piacere” ammise Juliette sorridendo. Adorava la vivacità irriverente di Fabiola: era così giovane, la vedeva come una sorella minore, anche se probabilmente quella bambina avrebbe potuto difendere tranquillamente tutte le ragazze della casa da sola. Coltelli. Fabiola era nata e cresciuta in un circo. I circhi erano una di quelle attività pesantemente penalizzate dalla caduta di Shingashina .
Il suo aveva ammainato il tendone dopo pochi mesi, e le persone che ci lavoravano si erano sparpagliate alla ricerca di fortuna in giro per i distretti. Alcuni addirittura si erano uniti alle fila di quelli che erano andati a morire fuori dalle Mura e lei non aveva parenti in vita. Il circo era la sua famiglia. Una volta sciolta questa, ognuno per sé.
Così una graziosa ragazzina di tredici anni era riuscita e a cavarsela nei vicoli. A coltellate. Letteralmente. E rubacchiando nelle taverne. Adescava e rubava. Ma dopo un po’ il gioco si era fatto pericoloso, la gente l’aveva inquadrata, non c’era quasi più taverna dove non la guardassero con sospetto. Così si era presentata al “Giardino delle Rose”, colma della sua sfrontatezza gioviale e prodiga di risposte pronte e acute, in aggiunta al suo bel faccino e al suo fascino acerbo . La signora Cornelia l’aveva assunta con piacere.
“Nel pomeriggio esco a fare delle commissioni per la signora Cornelia, mi accompagni?“ Chiese Juliette.
Gli acquisti di merci particolari o le commissioni delicate riguardanti la Casa venivano affidate alle ragazze più anziane, di cui la signora Cornelia si fidava.
“ Mmmmm…fammi pensare…”
In risposta all’aria di ostentata sufficienza di Fabiola, Juliette sollevò un altro panino e fece il gesto di tirarglielo dietro, fingendosi minacciosa.
“ Va bene sorellona, ti delizierò con la mia presenza….”
Juliette la guardò con aria di estrema stanchezza, gli occhi a mezz’asta.
“ Ma smettila di darti arie, e finisci di vestirti piuttosto, sei….indecente”. Lo disse ridendo, ma lo aveva pensato davvero. Questo la fece arrossire, per la contraddizione che portava in sé. Si sentì sciocca, Juliette: quanta premura materna per l’abbigliamento di una bambina che vendeva il proprio corpo ogni notte. Eppure le era venuto spontaneo preoccuparsi del fatto che Fabiola, uscendo, potesse essere giudicata una sgualdrina, perché lei la vedeva come una bambina, anche se alcune ragazzine della sua età a Trost già si fidanzavano. E invece lei era una sgualdrina, e lo era anche Juliette. Che differenza avrebbe fato un corsetto più severo? Un bottone allacciato in più?
Persa in questi pensieri finì di bere il suo latte e di sbocconcellare pane burro e miele. Attese Fabiola, che prendendola in giro si era davvero recata in camera per avvolgersi in un più casto scialle che le copriva la profonda scollatura.
“Eccomi madre badessa, ora possiamo uscire”
Il pomeriggio era mite e piacevole, la luce tagliava gli edifici con diafane lame dorate che si riflettevano sulle superfici di ottone delle insegne delle botteghe.
Le due ragazze camminavano lentamente chiacchierando di frivolezze.
“Ma dove dobbiamo andare?” domandò Fabiola
“All’ufficio postale … e si, possiamo anche fermarci a guardare qualche vetrina” Juliette le rispose facendole l’occhiolino.
“Evviva! Entriamo anche in profumeria, mi piace tanto annusare le ciprie! “
“D’accordo, ma mi raccomando, vorrei riuscire ad arrivare all’ufficio postale senza che tu ci abbia fatto portare via dal corpo di guarnigione”
Juliette cercò di essere seria finché parlava così. Portarla via. Se l’avessero fatto, non l’avrebbero condotta certo in carcere, se la sarebbero tenuta per loro, almeno finché lei non avesse tirato fuori il coltello. Al pensiero non riuscì a restare seria e fece una faccia buffa. Scoppiarono a ridere entrambe.
Le due ragazze entrarono nella profumeria. Più di uno sguardo si posò su di loro: sguardi femminili, invidiosi e ostili. Non che Juliette e Fabiola avessero scritto in fronte da dove venissero, ma nel quartiere molte persone le conoscevano e quelle che non le conoscevano avevano comunque motivo di avercela anche solo con la loro avvenenza. L’aroma di cipria e sandalo era inebriante, mescolato al legno di rovere delle scaffalature. Il proprietario del negozio, impettito e vestito con una certa cura, se non eleganza, le osservava da dietro il bancone con attenzione.
Incuranti, le ragazze si misero a guardare ed a annusare tra gli scaffali pieni di boccette invitanti e flaconi colorati. Intanto conversavano.
“ Ma il tuo biondo comandante? E’ più tornato a trovarti? ” Chiese Fabiola con voce querula.
“ Il comandante Smith?” Juliette rispose con una domanda, con aria assente.
Si avvicinò alla vetrina del negozio sbirciando fuori.
La sua attenzione era stata attratta da una carrozza che passava in quel momento. Dovevano essere militari di alto rango; a seguito della carrozza c’erano diversi soldati della milizia cittadina. Tra le tendine le parve di scorgere proprio lui, il comandante Erwin….ma in un attimo la carrozza scomparve dietro l’edificio.
Poco dopo il passaggio della carrozza transitò un manipolo di membri dell’Armata di Ricognizione a cavallo. Circondava tre figure ammantate e dai mantelli di queste spuntavano abiti civili.  A Juliette parve di scorgere delle manette ai loro polsi, ma erano coperte dalle maniche delle camicie, non si vedeva bene. Una cosa curiosa.
I tre non sembravano di buon umore, anzi: apparivano piuttosto cupi e contrariati e non avevano l’atteggiamento impalato e composto dei membri della milizia. Uno di loro sembrava piuttosto piccolo di statura, un altro più alto e sottile, la corporatura dell’ultima figura sembrava quella di una bambina.
Il ragazzo basso e asciutto, quasi avesse sentito gli occhi curiosi di Juliette su di sé, aveva impercettibilmente girato il volto verso di lei. L’unica cosa che sbucò fuori da sotto il cappuccio fu uno sguardo straordinariamente ostile e tagliente. Un lampo grigio che fece sentire la ragazza profondamente a disagio: improvvisamente si era sentita nuda e frivola per quella curiosità infantile, quel suo posare gli occhi sulle catene, quel soffermarsi su quelle mani, mani…belle. Non si vedevano molti uomini con belle mani da quelle parti.
Non si era neanche accorta di essere uscita dal negozio.
Fu un attimo: lo strano corteo passò in fretta. Avevano l’aria di voler raggiungere velocemente il Quartier Generale e di non voler troppo dare nell’occhio, per quanto possibile.
“ Juliette!” sbuffò Fabiola, che l’aveva seguita fuori “sto parlando con te”
“Scusa piccola, mi ero distratta a guardare…”
“Ah, i militari… quelli vanno sempre di corsa, e in qualche caso…la velocità è un vantaggio!” Scoppiò in una risatina.
“ Fabiola! Come fai ad essere sempre così oscena!”
“ Mi scusi madre badessa, se ferisco la sua sensibilità!”
Juliette alzò bonariamente gli occhi al cielo e rise di cuore. Continuarono le loro commissioni nelle botteghe e spedirono la lettera per la signora Cornelia, ma la mente di Juliette continuava a tornare su quella milizia affrettata, quel trotto nervoso imposto ai cavalli, che sembrava non diventare galoppo solo perché una galoppata in mezzo alle case avrebbe forse destato più interesse…quanta fretta, però.
“Juliette, prima non mi hai risposto. Quanto tempo è che non vedi il bel comandante?”
In realtà, pochi minuti, pensò la ragazza e le passò un’ ombra negli occhi, di nuovo quel lampo grigio e tagliente sotto il cappuccio verde. Ostentando leggerezza, rispose:
“ Lo sai come sono i militari di rango, sempre impegnati. Non lo vedo da un bel po’. Torniamo alla Casa adesso; siamo state via a lungo e si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto. Soprattutto, Liana voleva le portassi del filo per rammendare le sottovesti, se non glielo porto in fretta non farà in tempo a ricucirle per stasera.”
“Oh, ma tutte lei li trova quelli che strappano le mutande….”
“Fabiola….” Il tono di Juliette era esasperato, ma non molto serio. Varcarono il grazioso cancello in ferro battuto del Giardino delle Rose. I motivi floreali si intrecciavano e si aprivano su un piccolo spazio verde molto curato e un breve vialetto contornato da cespugli, ovviamente di rose. La luce del pomeriggio andava affievolendosi, preannunciando l’aria fresca della sera.
 
 
***
 
La sera arrivò.
Nella casa tutto era pronto per affrontare una notte di lavoro, la povera Liana si era punta più di un dito ricucendo in fretta le vesti di Juliette. Le stanze erano pronte e molte candele profumate erano state sparse nei corridoi e nella saletta adibita all’intrattenimento dei clienti, dove questi potevano rifocillarsi, bere vino e attendere la propria ragazza.
La signora Cornelia era come sempre l’emblema dell’affabilità e della cortesia. Riservava qualche parola per tutti gli avventori senza apparire mai invadente ma sempre premurosa. Quello che Juliette apprezzava di lei era la sua aria sempre dignitosa.
Aveva un’ eleganza discreta. Indossava abiti aderenti che le fasciavano la snella figura ancora gradevole, nonostante la sua età avanzata, ma che non risultavano volgari. Non portava colori sgargianti e la sua acconciatura era elaborata ma composta e decorosa. Si concedeva solo alcuni particolari ammiccanti, coerenti con il suo ruolo, come dei vistosi orecchini, un grosso anello con granato,un fiore ,rigorosamente rosso, nei capelli.
Sui morbidi cuscini rivestiti di broccato rosso già si erano accomodati diversi membri della milizia cittadina e qualche avventore civile. Alcuni erano ragazzini giovanissimi ai quali soldati più anziani davano di gomito ridendo. Reclute, probabilmente. Non sarebbe stato legale, ma qualche militare di alto rango riusciva a far avere permessi speciali per fratelli o cugini. Il battesimo del fuoco.
Una figura alta ed ammantata fece il suo ingresso nella stanza. La luce soffusa delle candele non permetteva di scorgere il volto sotto il cappuccio. Indossava pantaloni aderenti e stivali. Un militare, molto probabilmente, che non amava mettersi in mostra. L’uomo si diresse verso la signora Cornelia, impegnata in una conversazione con alcuni dei presenti.
La donna si congedò in fretta dagli uomini, dirigendosi verso il nuovo arrivato. Doveva trattarsi di una persona di riguardo. Si scambiarono poche parole, dopodiché l’uomo lasciò la sala .
Scostò le ampie tende di velluto rosso e salì le scale che portavano al piano superiore dove si trovano le stanze del piacere. Percorse a lunghi passi rapidi il corridoio e si fermò davanti alla porta in fondo. Bussò educatamente.
"Avanti, entra pure"
Juliette accoglieva tutti con modi accoglienti e familiari, come si trattasse sempre di amici; questa era una caratteristica gradita a molti uomini. Era di spalle, seduta ad una specchiera. Ostentava il gesto noncurante di ravviarsi i capelli, non che ci riuscisse davvero, i suoi capelli rimanevano comunque ribelli, ma era un gesto ipnotico che affascinava.
"Juliette…."
L'uomo si tolse il cappuccio e al suono della sua voce familiare la ragazza si voltò con una punta di sorpresa negli occhi.
"Erwin!" L'uomo le fece un inchino, fin troppo formale per la situazione.
Era il tipo di uomo che non contravveniva mai all'etichetta, seppur in presenza di una prostituta. Per lui era comunque una signora. Juliette, in contrasto con la rigidità di lui, volò verso l'uomo alto con un ampio sorriso e lo abbracciò con calore.
Erwin Smith, comandante della squadra speciale dell’Armata Ricognitiva, nonché noto per le sue capacità diplomatiche e politiche, si irrigidì lievemente in quell'abbraccio così spontaneo, così lontano dalle dinamiche che contraddistinguevano la sua non facile vita. L'attimo dopo tutto il suo corpo, il volto severo, le ampie spalle, le lunghe gambe, sembrarono attraversati da una corrente benefica, come se un balsamo avesse lenito la sua anima gonfia di preoccupazioni e dolore.
La ragazza si sciolse dall'abbraccio; le braccia dell'uomo erano rimaste lungo il busto, come quelle di qualcuno che non è abituato a gesti affettuosi o spontanei, ma solo a quelli imposti dalla legge militare o dalla cortesia. Lei non si scompose, non si turbò, offese o irrigidì.
Lo guardò nei grandi occhi azzurri, che per lei erano quelli di un bambino, le lunghe ciglia ricurve che le davano morbidezza allo sguardo.
Gli tolse il mantello e lo appese su un attaccapanni. Non disse una parola ma sorrise ancora e gli tolse la giacca, dolcemente. Quindi passò alla camicia, la sbottonò con cura guardando a volte il suo petto, a volte sollevando lo sguardo sereno verso gli occhi dell’uomo.
Erwin rimaneva lì, immobile, pervaso solo del piacere di non dover fare niente, di non dover decidere niente, di lasciare a qualcun altro l'azione. Solo il suo respiro si faceva sempre più profondo.
Lei indossava soltanto una leggera vestaglia di seta bianca. Semplice, ma preziosa quanto lo erano per Erwin le sue carezze.
Seta a Trost .
Davvero raramente se ne vedeva, tantomeno indosso a una puttana. Quella vestaglia era arrivata un giorno come pacco postale, quasi anonimo, riportava solo le iniziali: E.S.
Nessuna ragazza né la signora Cornelia avevano avuto dubbi su a chi fosse destinata.
Nessuno dei due, Juliette o Erwin, aveva mai fatto parola riguardo l’argomento, ma Juliette non aveva mai smesso di indossarla e aveva per essa una cura che non era solita avere per gli indumenti.
Juliette prese Erwin per mano e lo accompagnò verso il letto. Lo fece sedere e lo aiutò con gli stivali. Gesti rapidi, sapienti, gentili. Non è così scontato saper svestire una persona con naturalezza, senza che si creino momenti di impaccio o imbarazzo. Una brava prostituta è maestra anche in questo. Lo stese sul letto, nudo e si sedette su di lui mentre i lembi della vestaglia sembravano ali piegate sulla sua schiena.
Perché questo era Juliette per il comandante. Un angelo. Un angelo che riusciva, con il sesso, ad allontanarlo per un breve momento dalla sua vita.
Non era uno sfogo o solo ricerca di conforto, era qualcosa di più quello che lei trasmetteva, qualcosa di più profondo, come colmasse vuoti che erano rimasti tali per tutta la sua vita. Lei lo accompagnava nella sfera della sua emotività senza spaventarlo, senza farlo cadere. Quando Juliette scivolò con le labbra lungo il petto e l'addome di Erwin Smith, le ali dell’angelo scivolarono sul pavimento e ormai lui non era più comandante, fuori dalle mura non c'erano esseri mostruosi e gli esseri umani non erano quasi più terrificanti dei giganti.
 
 
 
   
 
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