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Autore: Feynman    03/09/2015    1 recensioni
Gallipoli.
Marina vive a Roma, ma a Gallipoli c'è sua madre.
Serena vive a Firenze, e anche sua madre è a Gallipoli - come tutta la sua vita, d'altronde.
Serena e Marina erano Schiele perché avevano colore.
***
Finchè l'uomo avrà occhi, avrà respiro,
vive la mia parola, e in lei sei vivo.
***
[Prequel di "Siamo Soutine e partecipante al Contest “V’è un piacere nello scrivere”, bandito da Chloe R. Pendragon e AmahyP sul Forum di efp]
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Note d'autrice:
Ed eccomi, di ritorno, con il secondo capitolo di "Eravamo Schiele". 
Spero possa piacervi! 
Alla prossima, 
Feynman
 


II.
 
 
«Posso?».
Si muoveva sinuosa, con le mani fra i capelli e ondeggiando i fianchi.
Era sale, menta e fumo.
Era birra, brace e sesso.
La sua pelle era calda, il suo respiro era vita, i suoi occhi erano perdizione.
Non attese un cenno, le si gettò contro comunque, iniziò a ballarle contro ma si astenne dal toccarla. Le sue dita percorrevano la linea della spina dorsale rimanendo a distanza eppure se la sentiva ovunque: sopra, sotto, intorno, dentro.
«Posso?».
Ovvio che poteva, ma non glielo aveva detto.
C’era la sua lingua che le percorreva la linea del collo, il suo respiro che si infrangeva contro la sua pelle e la bocca che iniziò a concentrarsi sul lobo dell’orecchio, in un percorso di fiamme e calore bruciante. Asfissiante.
«Posso?».
«…».
NO!
 
Si era svegliata in un bagno di sudore.
Dalla finestra aperta, arrivava una leggera brezza fresca che proveniva direttamente dal mare, che si infiltrava fra le viuzze di Gallipoli vecchia e correva via, disperdendosi al ponte. Si alzò di scatto dal letto con le lenzuola zuppe, provando a non fare troppo rumore per non svegliare Carlotta e Maria che, al letto affianco al suo, dormivano abbracciate e ancora vestite.
I ricordi della notte precedente l’avevano accompagnata anche nel mondo onirico. Sembravano solo più realistici: c’erano tutti gli odori della notte, le luci delle fiaccole e il calore del corpo dell’altra ragazza, così vicino al suo. Sentì immediatamente il suo cuore prendere a battere forsennato, come se dovesse sopportare una corsa lunga chilometri. Il suo respiro si fece sempre più rumoroso e l’ultima immagine, quella di lei che fuggiva dall’odore di fumo dell’altra, dai suoi capelli color brace e gli occhi scintillanti, la convinsero ad uscire dalla stanza che si era fatta tremendamente calda.
La porta di casa era aperta.
La leggera luce di un mattino imminente la investì e, vedendo sua madre seduta sulle scale bianche con una tazza fumante in mano e avvolta in un leggero scialle, decise di avvicinarvisi, sedendosi accanto a lei.
«Chi è rientrata prima?».
«Io».
«Perché hai lasciato tua sorella da sola?» le chiese, guardando dritta davanti a lei, verso la congiunzione con via De Pace. La madre aveva parlato piano, quasi temendo che l’altra figlia potesse sentirla.
«È grande abbastanza per-».
«Non c’entra. E se le fosse successo qualcosa?».
E se fosse successo qualcosa a me, una volta tanto?
La donna sbuffò. «Io mi preoccupo per voi, anche se vostro padre sostiene il contrario».
«Non… non dovresti dar retta a quello che dice papà».
«Questo pomeriggio verranno una mia amica e sua figlia. Vorrei che tu e Carlotta rimaneste, per conoscerle» le disse, voltandosi a guardarla.
«Non sono io che ho l’ossessione per il mare».
Germana rimase in silenzio, guardando di sottecchi la figlia. Riprese a sorseggiare il caffè e guardava, distrattamente, le persone passeggiare sulla strada e riflettendo su quello che le aveva detto Marina. Era in momenti come quello che Germana si rimproverava e si diceva che se fosse rimasta vicina alle figlie, forse Marina non sarebbe cresciuta così consapevole e che le avrebbe risparmiato tutta quell’empatia nei confronti degli altri. Le carezzò i lunghi capelli biondi e la guardò negli occhi, che aveva ereditato da lei e si accorse solo in quel momento, Germana, di quanto la figlia le assomigliasse e di quanto si rimproverasse, per questo.
«Prenditi un po’ di caffè, Marina. E tra un’ora sveglia tua sorella».
Marina aveva sostenuto lo sguardo della madre, affondando negli occhi che erano come i suoi, annuì e si alzò dalle scale bianche di pietra e rientrò in casa.
 
 
Un paio d’ore dopo, sua madre l’aveva costretta a svegliare Carlotta e Maria che, per tutta risposta, le lanciarono contro un paio di cuscini e qualche oggetto non meglio identificato. Rientrare alle cinque della mattina, sbronze, puzzolenti e bagnate non era il massimo per nessuno. Carlotta aveva passato una buona mezzora sulla tazza del water per espellere tutto quello che aveva ingurgitato la sera precedente e si era dovuta far raccontare gran parte della serata, si era subita una ramanzina da parte di sua madre e una sessione di schizzi veloci e inconsapevoli da parte di sua sorella.
«Manca gran parte della serata, Mar!» le fece notare, con tono lamentoso.
«Sono andata via presto e-».
«Mi hai lasciata da sola?!» gridò la sorella, improvvisamente, brandendo un bicchiere di cristallo come una spada. «Ero ubriaca, Marina! Come hai potuto?».
La sorella strabuzzò gli occhi, posizionando le posate ai lati del piatto di porcellana. «Ho fatto come qualsiasi altra persona: non mi sono ubriacata! È stata la prima cosa che ti ho insegnato, quando ti ho portata fuori per la tua prima bevuta, Lot! Prima regola: mangiare abbastanza» le disse, girando attorno al tavolo e affiancandola. Le tolse i bicchieri dalle mani e li appoggiò sul tavolo. «Il cibo ti permette di assorbire parte dell’alcol ed è importante anche vomitare, per non sentirsi troppo male il mattino dopo».
Carlotta la guardò brevemente poi abbassò lo sguardo, appoggiando le mani sul tavolo e stringendo la stoffa della tovaglia tra le dita. «Perché te ne sei andata?».
«Non… non mi piaceva la gente che c’era».
«Non era una buona scusa per lasciarmi sola».
«Ti stavi divertendo e non volevo rovinarti la serata».
Carlotta la guardò di sottecchi e alzò un sopracciglio come a dirle “non mi freghi, ragazza” e Marina si ritrovò a sospirare, riprendendo ad apparecchiare la tavola per il pranzo: aspettavano ospiti e la madre voleva far bella figura con la “sua cara amica di Firenze che è venuta a Gallipoli solo per me” e tante altre cazzate che Marina non aveva registrato per non sovraccaricare il cervello. Il succo del discorso era stato “mettetevi un bel vestito e non mi fate fare una figura di merda, con i vostri vestiti da barbone”; Carlotta aveva borbottato qualcosa, con la testa ancora infilata nel water e Marina non aveva aperto bocca, iniziando a contare le ore che la separavano dalla fine della giornata.
«Qualcuno ti ha dato fastidio, Mar?» le chiese, aggirando a sua volta il tavolo e distogliendola dall’importante compito del posizionare le posate.
«No, Lot. Non mi ha dato fastidio nessuno» le rispose Marina guardandola negli occhi. Leggeva la poca convinzione nello sguardo della sorella ma non poteva farci niente: già aveva le sue domande esistenziali alle quali pensare.
Marina era fidanzata.
Era fidanzata con Gianpaolo.
Di base, Gianpaolo Moreschi era una testa di cazzo, un figlio di papà e un pariolino. Lo aveva pensato lei stessa, la prima volta che lo aveva visto con i suoi capelli pettinati all’indietro, le Clark ai piedi e la camicia ben stirata mentre, dall’altro lato della classe, le sorrideva e ammiccava. Mettersi assieme, a metà anno, prima dei pagellini di aprile, era stato talmente naturale da essere anche noioso al solo ripensarci.
Gianpaolo Moreschi piaceva a suo padre.
Gianpaolo Moreschi era il ragazzo normale, quello con cui mettere su famiglia e sfornare tanti bambini.
Gianpaolo Moreschi era uguale a suo padre e Marina Sperilli si sentiva sempre più come Germana Forleni, quando era in sua compagnia.
Per Gianpaolo, l’arte era inutile, i libri una perdita di tempo, la cultura un mero specchietto per le allodole. A Gianpaolo non piaceva che Marina disegnasse e passasse il tempo con la testa fra le nuvole a scarabocchiare il libro di matematica.
Gianpaolo era cieco.
Gianpaolo era normale.
Niente capelli di brace. Niente occhi scintillanti. Niente odore di sale, menta e fumo. Niente fianchi morbidi e ondeggianti. Niente voce flautata e graffiante. Niente pelle calda.
Gianpaolo era un ragazzo.
Lei era… una lei.
Marina non era… lesbica.
 
«…oro? Tesoro? Marina!».
«Eh? Scusa, mamma. Volevi qualcosa?».
«Hanno suonato alla porta, potresti andare ad aprire? Devono essere Margherita e Serena».
Marina annuì, finì di sistemare le posate e diede una leggera stirata, con le mani, alla gonna dell’abito. Aveva racchiuso i capelli in una grossa treccia bionda che le arrivava fino al seno e aveva fermato il resto dei capelli con un paio di forcine. Sua madre l’aveva voluta perfetta per quell’occasione e lei l’aveva accontentata come ogni buona figlia.
Si diresse con passo sicuro alla porta di casa, sfoggiò il suo miglior sorriso e aprì la porta.
«Oh! Tu devi essere Marina, giusto?».
«Sì, signora! È un piacere conoscerla. Vi stavamo aspettando… se vuole accomodarsi, intanto».
«Oh cara, non c’è bisogno di tanto formalismo, sai? Io e tua…».
Il resto del discorso si disperse.
Marina vide un paio di occhi scintillanti e grigi come la cenere.
Una cascata di capelli ribelli e dello stesso colore della brace bruciante.
Indossava una maglietta a maniche corte e un paio di pantaloncini di jeans che mettevano in mostra le cosce tornite e i polpacci scattanti.
Era bella, pur non essendolo.
Marina sentì il fiato mancarle, la gola bruciarle e lo stomaco dolerle.
La ragazza le sorrise, scoprì i denti e le disse: «Posso?».
Marina deglutì e lasciò che entrasse in casa.
La ragazza, Serena, le sorrise nuovamente quando le passò accanto, sfiorandole la gonna del vestito. Le labbra, aprendosi, misero in mostra i canini appuntiti e bianchi e il neo si distese. La sua pelle non sapeva più di sale. Aveva un forte sentore di menta, limone e sempre quel retrogusto bruciato, come se avesse spento una sigaretta nel momento in cui stava aprendo la porta e l’aveva buttata per non farsi vedere.
Il tuo cervello corre troppo, Marina.
La madre aveva già accolto la sua amica all’interno della casa, Carlotta si era presentata con un leggero cenno della mano e Germana aveva presentato lei, per ultima: la figlia artista, quella che disegnava, come lei, quella che non aveva niente a che fare con i numeri, al contrario della sorella che era un genio nelle materie scientifiche e che… oddio, la quiche si brucia!
Marina aveva sorriso ed era rimasta appoggiata allo stipite della porta del soggiorno. Serena era esattamente dall’altro lato, contro l’infisso della finestra che dava sulla strada, e la stava guardando. O meglio, la stava studiando. Marina, in un attimo di semi-incoscienza, pensò che Serena avesse gli occhi più belli che avesse mai visto: luminosi, grigi come la cenere che tendevano al nero, verso la pupilla che si era mangiata l’intera iride, quasi. Aveva smesso di sorridere e di mostrare i canini da predatore. Adesso la stava studiando da lontano, la stava misurando.
Germana fece il suo ingresso nel soggiorno, portando il vassoio con la quiche e tutte presero posto. Serena aspettò che Marina si sedesse e prese posto davanti a lei, accanto a Carlotta, prese il tovagliolo di lino e se lo pose sulle gambe, rimanendo in silenzio e facendo finta di ascoltare Germana e Margherita che ciarlavano sugli affari del circolo. Marina non vide nemmeno sua sorella lanciarle un paio di occhiate, prima di iniziare a mangiare.
«Marina, tua madre mi ha detto che ti piace molto disegnare» iniziò Margherita, rivolgendole l’attenzione. Vide Serena, davanti a lei, con la coda dell’occhio, farsi più attenta e addentare il pezzo di quiche che la madre le aveva servito.
«Sì, è una delle mie passioni».
«Marina è molto umile e-».
«Gli artisti non lo sono mai» disse Serena, piantando i suoi occhi color cenere in quelli nocciola di Marina. Si sentì esposta. Si sentì come se la sua anima, la sua parte più nascosta, fosse stata messa sotto una lampada da dentista. L’altra ragazza stringeva fra le mani un bisturi e Marina vedeva solo un sorriso deturparle il viso e assottigliarle le labbra in modo innaturale. «Non potrebbe passare neanche per timidezza. Gli artisti non sono nessuna delle due cose. L’umiltà non fa parte degli artisti e la timidezza, poi, gli è solo d’impiccio».
«Scusala, Marina. La mia Serena ha il vizio di parlare senza pensarci troppo».
«Ha ragione, invece» s’intromise Carlotta, poggiando la forchetta sul lato del piatto. «Marina non è umile per niente. Dovreste sentirla quando un disegno le riesce particolarmente bene e come si difende davanti a nostro padre… no, Marina non è né umile né, tantomeno, timida».
Serena sorrise e girò la testa verso Marina, tornando a guardarla. «Dipingi?».
Marina bevve un generoso sorso d’acqua: «Non molto. Dipingere mi porterebbe via molto tempo che devo dedicare allo studio».
«Quanti anni hai?» le chiese.
Marina rispose: «Diciassette» e vide l’altra rabbuiarsi brevemente e si sbrigò ad aggiungere: «Tra non molto ne farò diciotto».
«Sei giovanissima» sussurrò, quasi. «Ma non devi perdere tempo. Hai intenzione di frequentare un istituto d’arte?».
«Io… non credo che mio padre me lo permetterebbe».
«’Fanculo tuo padre» le disse, quando vide che Marina aveva abbassato la testa verso il bordo del tavolo e la rialzò all’istante, quando sentì le parole di Serena. «Te ne devi fottere di tuo padre. Se ti ritieni un’artista, arrabbiati e fatti sentire».
Marina spalancò gli occhi. Serena le aveva preso la mano che teneva sulla tavola e aveva intrecciato le sue dita a quelle di Marina. La pelle di Serena era più scura della sua, caramellata e la sua mano era calda. Soffocante.
Marina riuscì a dimenticarsi degli altri che erano nel soggiorno. Della fame. Delle domande. Delle paranoie. Possibile che si fosse innamorata di una ragazza? Possibile che le bastassero, davvero, le parole giuste per sentire il cuore allargarsi e la pelle delle braccia riempirsi di piacevoli brividi?
Cazzate, Marina.
Ritrasse la mano velocemente e si sforzò di ignorare il freddo improvviso che sentiva sui polpastrelli. Avrebbe voluto toccarla di nuovo: il suo corpo lo esigeva, lo sentiva. Era una morsa all’altezza del petto. Era il sudore gelido sulla nuca. Era l’assenza della saliva all’interno della bocca. Era quel fastidioso calore al livello del suo inguine e un desiderio estraneo che, con Gianpaolo, non aveva mai sperimentato.
«Serena, non sei qui per dare lezioni di vita» la rimproverò Margherita. Marina sentì un leggero movimento sotto il tavolo come se la donna, seduta accanto a lei, avesse allungato il piede e avesse dato un calcio alla figlia ma Serena non diede impressione di aver sentito qualcosa.
Marina le sorrise, come se si sentisse in dovere di ringraziarla e cercò di dimenticare le sue parole. Sapeva che avrebbe dovuto arrabbiarsi e fare quello che desiderava ma erano già troppi le cose che suo padre le rimproverava e gettare carne sul fuoco non sarebbe stato il massimo, né per lei né per Carlotta che doveva sopportare le sue continue lamentele.
Il resto del pranzo si svolse tranquillamente.
Marina sparecchiò la tavola, Carlotta portò la frutta, sua madre e Margherita andarono in cucina per preparare il caffè per tutte e Serena uscì di fuori. Marina la vide sedersi sulle scale bianche, con la schiena appoggiata all’intonaco, si stava accendendo una sigaretta e si stava godendo, con gli occhi chiusi, la piacevole brezza che veniva dal mare e stemperava il caldo del primo pomeriggio. Marina rimase ad osservarla, mezza nascosta dallo stipite finché l’altra, ancora con gli occhi chiusi le disse: «Non mordo mica, sai?».
Marina sussultò. Era sicura che Serena non l’avesse vista, almeno non subito, ma il suo respiro accelerato doveva essere più rumoroso del previsto.
«Vieni a sederti» la invitò Serena, battendo sulle scale polverose. Marina uscì e si sedette, accanto all’altra, stando attenta alla gonna.
«Scusa se prima sono stata… indiscreta».
Abbassò lo sguardo, Marina, e si scostò una ciocca di capelli dal viso portandola dietro l’orecchio. «No, tranquilla. So che dovrei… fottermene, come dici tu».
«Mi dà fastidio quando, ragazze giovani come te, sprecano il talento che hanno».
«Non sai se ce l’ho davvero. Non hai visto nessuno dei miei disegni…».
Serena si voltò e Marina sentì le sue guance avvampare. I tratti del viso dell’altra erano irregolari: aveva il naso un po’ all’insù, la bocca ben disegnata e dalle labbra carnose, un neo e gli occhi non troppo vicini fra loro. Era una miscela di dettagli discordanti che, insieme, creavano l’armonia sul viso della ragazza. Le sopracciglia spesse le davano l’aria di una bambina seria, perennemente corrucciata così come il mento che era un po’ sporgente.
«L’artista è un creatore di cose bellissime» sussurrò, Serena, accostandosi al suo orecchio e prendendole in mano una ciocca bionda. Marina la vide, con la coda dell’occhio, passarsela fra le dita e iniziare a giocarci, attorcigliandola e srotolandola. Alla fine, se la portò al naso e le sorrise, famelica.
«Mi ricordo di te, sai?» le disse, avvicinandosi con il resto del corpo e facendo sfiorare le loro spalle. «Mi sono chiesta se, davvero, fosse stato solo ieri sera. Perché te ne sei andata?».
Marina deglutì a secco: non aveva saliva e aveva iniziato a respirare a bocca aperta, per inghiottire più aria possibile: «Mi… mi dispiace…».
Serena rise e lasciò andare la ciocca. «Non devi dispiacerti. Insomma, anche se sei stata tu, ad approcciarmi per prima».
Si portò le ginocchia al petto, stando attenta che la gonna non le lasciasse le cosce scoperte; fortunatamente aveva optato per un vestito che non aveva la gonna eccessivamente corta, ma avrebbe preferito indossare un paio di pantaloni, in quel momento… come poteva pensare all’abbigliamento, quando Serena stava continuando a parlarle di qualcosa? Sentiva la sua spalla premere contro la pelle dell’altra, così calda e asfissiante eppure piacevole, in un certo modo. Serena, di profilo, era ancora più particolare: la punta del naso tendeva verso l’alto e il profilo dello zigomo era ben disegnato. Le ciglia non erano lunghe, ma erano folte e tendevano al rosso, nonostante la ragazza avesse i capelli quasi castani.
«Ti stai godendo lo spettacolo?» le chiese Serena, continuando a guardare davanti a sé, spegnendo la sigaretta sul gradino.
Marina, colta sul fatto, arrossì leggermente e si grattò la nuca lasciata scoperta. «Hai… hai solo un profilo molto particolare».
«Hai intenzione di farmi un disegno, Marina?».
La voce di Serena era bassa, sensuale e Marina ci sentì dentro così tanti sottintesi da chiedersi se non fosse malata, sbagliata, impazzita. Serena era una di quelle ragazze che potevano anche solo star bevendo un bicchiere d’acqua, sbucciando una mela o comprando della carne e sprigionavano la loro carica sessuale con naturalezza e sfacciataggine. Marina si sentì accaldata, a un certo punto: aveva le mani sudate e lo stomaco le doleva, come se fosse in attesa di qualcosa.
«Sere», la voce della madre di Serena fece sobbalzare Marina che, come se si fosse bruciata, si scostò velocemente dalla pelle dell’altra. «Serena, io e Germana dobbiamo andare al circolo».
Serena si alzò dal gradino e si pulì i pantaloni, guardò verso Marina e la scavalcò, per scendere l’altro gradino e finire in strada. «Vengo con voi. Francesca mi ha chiesto di uscire e non le ho potuto dire di no».
«Non vi eravate lasciate?».
Serena lanciò un’occhiata eloquente alla madre e aggiunse, a denti stretti: «Non qui, mamma».
«Va bene, va bene!» disse la donna, alzando le mani in aria e rientrando in casa.
Marina vide Serena abbassare lo sguardo a terra, imbarazzata e spostarlo verso la congiunzione con la strada principale di Gallipoli vecchia.
Marina si sentiva quasi in dovere di aggiungere qualcosa, qualsiasi cosa. Una frase che tranquillizzasse l’altra perché, per Marina, non c’era problema se Serena…
Insomma, se anche Serena fosse stata…
«Non pensare troppo: ti si sovraccaricherà il cervello» le disse Serena, interrompendo la scia di pensieri confusi che aveva colto l’altra ragazza. «Per te è un problema?».
Marina scosse velocemente la testa: «No, assolutamente! Insomma… non sono affari miei».
«Tu sei…».
«Ho un ragazzo».
La spada di Damocle calò sulla nuca di Serena e Marina vide la testa della ragazza rotolarle tra i piedi, spargere sangue sulla strada. Il corpo cadde a terra, senza vita, come un fantoccio di paglia e segatura. Marina vide il viso di Serena indurirsi, iniziò ad annuire ma rimase in silenzio – come se dovesse dire qualcosa.
«Credo che… dovrei andare, adesso» concluse Serena, infilando le mani nelle tasche dei jeans. Marina annuì. Voleva chiederle il numero di telefono, avrebbe voluto stringerla o sentirla per un altro attimo vicina, come prima. L’odore dell’altra le sembrava già un sogno, come il calore asfissiante della sua pelle.
«Ci vediamo in giro».
«Già, in giro».
 
   
 
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