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Autore: Un_Known    06/09/2015    1 recensioni
«Questa ti servirà per prendere gli appunti per la tua prossima storia. Però devi promettermi che sarà incentrata su di me e che io sarò l’eroina del libro» le disse divertita la ragazza, con un enorme sorriso dipinto sul volto.
«Aaliyah, le mie sono storie dell’orrore» le fece notare Kim, come se l’amica non avesse ben chiaro il gene-re di racconti di cui si occupava: chi avrebbe mai voluto essere il protagonista di una storia Horror?
«E allora?» ribatté l’altra. «Io sarò quella che non viene uccisa dallo psicopatico con la motosega».

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Kimberly Allen ha appena compiuto ventitre anni. È una ragazza nella norma cui piace scrivere e si cimenta in storie dell’orrore. Ha un ragazzo amorevole, una famiglia tranquilla e una normalissima vita da studen-tessa del college. O almeno è così finché non riceve in regalo un’antica macchina da scrivere il giorno del suo compleanno. Da allora la vita le tirerà strani scherzi, fino a condurla al punto di non ritorno.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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"LA MACCHINA MALEDETTA"
Kimberly
 
Kimberly era di ritorno dalla mensa, dopo cena. Anche quella sera avrebbe avuto la camera tutta per sé, poiché Aaliyah sarebbe andata a dormire da Evan per la terza notte di fila; non doveva neanche preoccuparsi di Jordan, impegnato a studiare con degli amici per un progetto da presentare a lezione l’indomani. Si sarebbe, dunque, goduta il silenzio e la pace della solitudine per continuare la stesura della sua storia e utilizzare la macchina da scrivere che le avevano regalato i genitori pochi giorni prima.
Era stata molto contenta di quel regalo: a parte il fatto che non se lo aspettava – non avrebbe mai immaginato che suo fratello si sarebbe ricordato una cosa simile – aveva sempre desiderato poter scrivere con una di quelle vecchie macchine, forse per la consapevolezza di non poter cancellare un errore di battitura e, di conseguenza, dover stare molto attenta a come scriveva. Era un modo per mettere alla prova la propria concentrazione, le piaceva. E poi voleva avere una macchina da scrivere solo per poterla chiamare “Christine”, come la macchina infernale dell’omonimo libro di Stephen King – aveva quel chiodo fisso da quando aveva letto il romanzo.
Fu quindi con un fremito che abbandonò la borsa e la felpa sul letto, impostò la modalità silenziosa al cellulare e prese posto alla scrivania. Quattro o cinque fogli erano impilati sotto un fermacarte a forma di pietra, souvenir di Aaliyah da un viaggio in Europa di due estati prima, e contenevano i primi capitoli del racconto che si apprestava a proseguire; un altro, invece, era sistemato nel carrello della macchina, già pieno per metà delle parole che così facilmente riusciva a battere sui tasti.
Rilesse ciò che aveva scritto fino a quel momento, per ricordare il punto in cui si era interrotta. Il protagonista della storia, un ragazzo di età imprecisata, aveva scoperto di essere stato adottato e di aver ricevuto in eredità un hotel; si sarebbe trattato di un bel colpo di fortuna se non fosse stato per le leggende macabre che correvano su di esso e che spaziavano dal motivo per cui era bruciato a quello per cui nessuno aveva mai più voluto metterci piede. Ma Geoffrey non era un tipo superstizioso, così aveva deciso di andare a fare un sopralluogo.
«Bene, caro Geoffrey: adesso non ti tocca che raggiungere la tua meta» disse Kim, parlando a bassa voce al personaggio come se potesse sentirla. Posizionò le dita sulla tastiera e iniziò a battere.
 
L’albergo messicano si trovava su un’altura e gettava la sua inquietante ombra su tutta la città. Era impossibile non notarlo, in qualsiasi strada ci si trovasse. Chi per sbaglio si trovava ad alzare lo sguardo e posarlo su quelle rovine marcescenti si faceva il segno della croce e si affrettava a mettersi al riparo di qualche abitazione per togliersi di dosso la sgradevole sensazione di avere un paio di occhi puntati addosso. Gli occhi del demonio secondo i più anziani, gli occhi dei fantasmi secondo i più giovani. Neanche la notte portava sollievo agli animi degli abitanti: la luna sembrava avere qualcosa contro di loro quando, con la sua luce fredda e distante, illuminava ogni singola tegola scura del tetto e faceva brillare i vetri delle finestre di un bagliore sinistro, dando l’impressione che una brutta faccia ghignante vegliasse sugli incubi dei bambini, togliendo loro il sonno.
I più arditi avevano provato ad abbatterlo, riportando solo una serie d’insuccessi. Ogni volta che qualcuno aveva provato ad avvicinarsi con qualche macchinario da demolizione, puntualmente aveva incontrato difficoltà nella manovra dello stesso. Si era anche tentato con la dinamite, ma l’esplosione dei candelotti non aveva fatto altro che produrre un profondo squarcio sulla facciata, creando quella che aveva tutta l’aria di essere una bocca sorridente di malvagità.
La paura provata per quell’albergo era così profonda e radicata nei cittadini, che Geoffrey non riuscì a trovare un solo tassista disposto ad accompagnarlo fino all’ingresso della sua proprietà; il massimo che riuscì ad ottenere fu l’essere condotto ai piedi dell’altura su cui sorgeva la causa di tutti quei timori, e dovette percorrere a piedi la distanza che lo separava dalla cima. Il sentiero era abbandonato a sé stesso, con la natura che aveva ormai preso il sopravvento sul resto: l’asfalto era crepato in più punti e addirittura mancante lì dove le radici degli alberi erano uscite dal terreno e lo avevano divelto. Impiegò un quarto d’ora a raggiungere la vetta e la prima cosa che pensò nel vedere l’albergo fu che avrebbe dovuto sborsare un sacco di soldi se davvero fosse rimasto dell’intenzione di rimetterlo in sesto.

 
La tarda ora serale e il buio oltre la finestra la aiutarono a immedesimarsi nella scrittura. Le parve quasi naturale provare gli stessi brividi di paura che scuotevano gli abitanti di quella città messicana nel guardare l’albergo, o agitarsi sulla sedia al pensiero degli incubi che tormentavano le notti insonni dei bambini.
Le dita volavano sui tasti mentre le immagini che descriveva le passavano vivide davanti agli occhi. Vedeva con chiarezza il legno grigio e spezzato delle scale d’ingresso…
 
...e del portico che correva tutto attorno all’albergo, con ciuffi di erba che spuntavano qua e là e i segni inequivocabili della presenza di animali sotto l’assito; le sottili colonnine chiare recavano i graffi dei gatti randagi.
 
Le pareva quasi di poter toccare con mano i mattoni rosso borgogna che ricoprivano la facciata, scheggiati e scoloriti dal tempo, ma che nessun giovane aveva avuto il coraggio di coprire con graffiti o scritte…
 
...troppo intimorito anche solo di superare l’effimera sicurezza data dalla linea ultima delle abitazioni di periferia. Le finestre dai vetri rotti del primo piano riflettevano alla perfezione le immagini del grande giardino che circondava la proprietà.
 
Kim quasi poteva vedere i dettagli del grande olmo alla sinistra della porta principale o dei platani ai lati del sentiero alle spalle di…
 
...Geoffrey, fermo tra le due alte colonne dell’ampio cancello d’ingresso, su cui svettavano i resti di due strutture di pietra ora distrutte. Dalle fondamenta, un folto rampicante saliva fino al tetto e si attorcigliava attorno alla torretta, muovendosi alla leggera brezza del vento e coprendo in parte le finestre dell’ultimo piano.
 
Dietro le quali scorse il passaggio veloce di un’ombra.
A Kimberly il sangue gelò nelle vene e il fiato le si bloccò in gola. Staccò le mani dalla macchina da scrivere come se fosse stata attraversata da un’improvvisa scossa elettrica.
«Woo…» Che cos’era stata quell’ombra? Di certo non era opera della sua fantasia: Geoffrey avrebbe incontrato gli spettri solo molto più avanti, e nella sua mente non assomigliavano per niente a ciò che aveva visto.
«Ok» si disse, sentendo il cuore batterle all’impazzata nel petto. «Tranquilla, ti sei solo immedesimata troppo. Quell’albergo era troppo realistico» cercò di tranquillizzarsi. Una strana sensazione le creava un vuoto nello stomaco e un senso di gelo alle gambe. Si era spaventata. Erano anni che scriveva storie di paura, ma quella era la prima volta che le accadeva una cosa del genere.
«È stato solo un incubo. Ti sei fatta condizionare dalla storia».
Tolse il foglio dal carrello e rilesse: aveva descritto tutto nei minimi dettagli – l’albergo, il giardino, le sensazioni del protagonista – ma non aveva battuto una sola parola dell’ombra che aveva visto dietro i vetri.
«Mi sono fatta prendere dalla paura… Stephen King sarebbe orgoglioso di me» si tirò su di morale, lasciandosi andare ad una risatina. Aggiunse il foglio alla pila sulla scrivania e andò in bagno. Voleva sciacquarsi la faccia e cacciare via quel brutto sentore che ancora non l’aveva abbandonata, lo stesso che si prova al risveglio da un brutto sogno. Aprì l’acqua e la lasciò scorrere nel lavandino finché non divenne ghiacciata, poi si riempì le mani messe a coppa e se le passò sul viso.
Rimase con i polsi sotto il getto freddo ancora qualche minuto, fino a quando il tremore non fu cessato del tutto e il cuore ebbe riacquistato un battito regolare. Poi tornò in camera, posizionò un altro foglio nella macchina da scrivere e riprese il racconto.
La serata trascorse senza altri inconvenienti, e il giorno seguente la visione di quell’ombra era ormai solo un ricordo.
«Come è andata ieri notte? Ho visto che i fogli sulla tua scrivania sono triplicati» le disse Aaliyah, mentre entrambe erano in fila per il pranzo.
«Sì, in effetti ho scritto fin dopo mezzanotte» confermò Kimberly «E non sai che spavento mi sono presa!» aggiunse con una risata, servendosi di fagiolini e carne.
La compagna posò nel piatto una pagnotta di pane e la guardò con aria interrogativa. «Cosa vuoi dire? Che è successo?» domandò «Jordan ti è arrivato alle spalle di soppiatto?» ammiccò, dandole una gomitata scherzosa. La bionda rise.
«No, lui era a casa sua a studiare con degli amici» rispose Kim divertita, prendendo una bottiglietta d’acqua e girandosi per cercare due posti liberi. Aaliyah le rivolse un’occhiata per incitarla a continuare. «Mi sono praticamente addormentata davanti alla tastiera» riprese la ragazza «Ero talmente presa ad immaginare cosa stesse accadendo al mio personaggio, che la mia mente è partita da sola: ho visto qualcosa muoversi dietro le finestre del palazzo. Ti giuro, è stato orribile! Mi sono svegliata di colpo, perché quella non era una scena inventata da me» rise.
«Tu fantastichi troppo, ragazza» la prese in giro Aaliyah, mentre adocchiavano due sedie vuote a un tavolo nell’angolo più lontano della mensa. «Scrivere storie dovrebbe essere un modo per rilassarsi, non per morire d’infarto».
Kimberly rise. «Fino a prova contraria sono ancora viva».
Aaliyah roteò gli occhi. «Sì, va bene. Invece la storia di cui io sono la stella come procede?» le domandò, spostando il discorso su ciò che più le interessava. Kim aprì la sua tracolla e ne trasse fuori l’agenda che la compagna di stanza le aveva regalato al suo compleanno.
«Leggi tu stessa» le disse nel passargliela.
Gli occhi di Aaliyah brillarono nel vedere l’agenda. La prese in mano e sciolse il nodo che la teneva chiusa, poi iniziò a leggere. La trama riguardava una ragazza con la passione per l’archeologia impegnata in una spedizione in Francia per partecipare ad alcuni scavi nei pressi di un antico castello medievale. Kimberly aveva riempito solo poche pagine, perlopiù di appunti generici, ma aveva intenzione di lavorarci in contemporanea al racconto di Geoffrey.
«Wow. Che bello! Dimmi che quegli scavi risveglieranno tanti morti e la protagonista salverà un’intera città da un attacco di zombie!»
Kimberly non poté trattenere una risata. «Se te lo dicessi poi non avresti più il piacere della lettura» ribatté, riprendendo il quadernino che l’amica le porgeva.
Aaliyah roteò gli occhi, mimando uno sbuffo. «Ok, aspetterò che tu la scriva per bene. Ma non metterci troppo, o sbircerò i tuoi appunti mentre dormi. Oh, ecco che arriva il tuo principe azzurro». Kim si voltò in tempo per veder sopraggiungere Jordan con il vassoio in mano.
«Buongiorno signorine!» esclamò tutto pimpante, prendendo posto alla sinistra di Kimberly. Le diede un fugace bacio sulle labbra. «Come è andata la giornata?» domandò.
«Quella roba ti farà scoppiare il fegato» lo rimproverò la ragazza, senza rispondere al quesito e guardando con aria imbronciata il doppio cheeseburger e la coca-cola che il giovane aveva come pranzo. Jordan non si lasciò abbattere da quella tirata d’orecchie e addentò il panino. La bionda si lasciò andare ad un sospiro e scosse il capo.
«Rinunciaci: non smetterò di mangiare ciò che mi piace» le disse il ragazzo. Kim non rispose: anche lei mangiava hamburger e beveva coca-cola, ma non una volta ogni due settimane come invece faceva lo studente seduto accanto a lei.
«Ma lei non vuole farti smettere, solo sottolineare che ti farai scoppiare il fegato» intervenne Aaliyah, che si divertiva a dare man forte alla compagna nella battaglia contro il sesso opposto.
«Non ho intenzione di starvi a sentire» disse Jordan, posando il cheeseburger nel piatto «No. Non vi sento!» si tappò le orecchie con i palmi delle mani «Non vi sento!»
Kimberly rise e gli staccò una mano dal viso. «Mangia, prima che si raffreddi» gli disse, prendendo poi la bottiglia di coca-cola e bevendone un sorso.
«Non avevi detto che questa roba fa male allo stomaco?»
«Al fegato» lo corresse «E intendevo il tuo, non il mio» lo prese in giro. Jordan scosse la testa e continuò a mangiare.
 
Quella sera, come promesso alla sua compagna di stanza, Kimberly si dedicò a battere a macchina il racconto che aveva deciso di dedicarle. Aaliyah non sapeva, però, che Kimberly in realtà aveva già iniziato la storia qualche giorno prima, arrivando al punto in cui la protagonista giungeva sul luogo degli scavi. In quelle ore prima di andare a dormire, Kim prevedeva di scrivere almeno il capitolo d’introduzione alla nuova vita che si prospettava all’alter ego della sua amica; in particolare, voleva riuscire a rendere al meglio la descrizione del castello in cui si sarebbe svolta la maggior parte della vicenda.
Caricò il foglio nel carrello, ruotò la manopola per impostare la prima riga. Aaliyah non le avrebbe dato fastidio: era sdraiata sul letto, auricolari nelle orecchie, intenta a seguire una serie TV dal portatile, così Kim poté dare il via alla battitura senza ulteriori indugi.
 
Il sole splendeva alto nel cielo, e la sua luce si rifletteva sui vetri lucidi dei palazzi di Valenciennes. Serenity era a bordo del taxi che l’avrebbe condotta nel piccolo appartamento affittato per lei dalla compagnia per cui avrebbe svolto quel lavoro di archeologia e si godeva il tepore dei primi caldi della primavera: a Endmonton le temperature erano fredde per la maggior parte dell’anno e per la ragazza era un sollievo poter sentire il vento tra i capelli attraverso il finestrino aperto.
Il viaggio fino a destinazione fu breve e comodo. Serenity prese le valigie dal baule, pagò il tassista e si diresse verso casa. L’appartamento era al terzo piano del palazzo, ma fortunatamente poté usufruire del piccolo ascensore per il trasporto dei bagagli. Con quattro fratelli maschi, Serenity non era quasi mai riuscita ad avere un po’ di privacy in casa, se non durante gli anni di college lontano dalla famiglia – e anche allora aveva condiviso gli spazi con altre coinquiline – quindi fu con trepidazione che prese le chiavi dell’appartamento e le infilò nella toppa: stava per entrare in quello che sarebbe stato il suo nido privato fino alla fine della sua permanenza in Francia. Quasi non ci credeva!

 
Dopo un’ora, Kimberly era ancora presa dal battere a macchina, inconsapevole del fatto che, nel frattempo, Aaliyah aveva smesso di guardare la serie TV per farsi una doccia. Era come in trance, tutta presa dal suo racconto per badare al resto: i suoni attorno a sé erano solo un lieve rumore di fondo che passava del tutto inosservato, così come i passi degli altri ragazzi fuori dalla porta della camera diretti a qualche festa in città o in qualche locale.
Le sue dita volavano sulla tastiera mentre raccontava delle impressioni di Serenity riguardo i suoi colleghi francesi e, ancora, il clima molto diverso tra quello Stato e il Canada. Poi, finalmente, giunse alla parte che desiderava descrivere più di tutte. Drizzò inconsciamente la schiena, allargò lievemente le gambe e prestò più attenzione ad ogni singolo dettaglio che dalla sua mente veniva trascritto sulla carta. I rumori di fondo scomparvero del tutto.
 
Il castello si ergeva in tutta la sua maestosità al centro di quello che, secoli prima, doveva essere stato il giardino del maniero ma che adesso era diventato un bosco. Le pietre con cui era stato costruito erano grigie, un po’ rovinate, ma ancora perfettamente lisce. Il legno del portone d’ingresso era scrostato e rovinato in diversi punti, ma solido, e sulle pietre dell’arco in cui era incassato erano incisi alcuni segni che però, da quella distanza, non erano ben distinguibili. Pur sapendo che la sua destinazione attuale non era quella fortezza ma il piccolo cimitero poco distante, Serenity non riuscì a trattenere la curiosità e vi si avvicinò.
I discendenti dei primi proprietari non dovevano aver provato molto interesse per quella residenza estiva, poiché sembrava abbandonata a sé stessa da centinaia di anni. Serenity dovette procedere ad ampie falcate, stando attenta a non rimanere impigliata con i piedi nell’erba alta che ricopriva il suolo dal punto in cui erano state parcheggiate le auto fino alla scalinata principale. Più di una volta rischiò di cadere a causa dello sguardo che spaziava da un punto all’altro del castello, dovunque tranne che sui suoi piedi. Le aiuole sparse qua e là si erano infoltite e inselvatichite e i fiori avevano preso possesso del terreno attorno alle loro delimitazioni, ora inesistenti; cespugli di rose rosse correvano tutto intorno al perimetro della struttura e si arrampicavano fino alle finestre più basse, formando strani ghirigori sulle mura. I rovi avevano creato delle cornici attorno ad alcune di quelle finestre, e la visione era suggestiva: sembrava il castello incantato di una fiaba per bambini. Gli infissi delle finestre stesse erano molto belli anche senza l’ausilio della natura: il ferro era decorato con sottili scanalature poi riempite con colate d’oro e il sole vi si rifletteva mettendo in mostra gli arabeschi sofisticati creati da mani esperte anni e anni addietro. Tutte le finestre rilucevano di quel bagliore dorato, e Serenity notò che erano almeno una ventina, per non parlare di quelle nascoste alla sua visuale, sul retro e i lati del castello. Man mano che si avvicinava, la ragazza notò che anche sugli archi attorno ai vetri erano presenti delle incisioni nella pietra. Non sembravano parole, anzi, non lo erano affatto. Erano disegni fini e delicati identici a quelli riportati sul ferro e davano un fascino tutto particolare all’edificio dimenticato. Un’aria davvero fiabesca. In quel momento, la giovane si accorse del canto degli uccelli che proveniva dal bosco, suono cui, fino ad allora, non aveva badato; e notò anche un piccolo cardellino attraversare in volo il giardino e andare a posarsi sulla cima di una torre sulla sinistra, l’unica il cui tetto era in parte distrutto. Con un mezzo sorriso, Serenity proseguì ancora, fino a giungere alla base delle scale. Ciuffi di erba spuntavano negli angoli tra un gradino e l'altro. Il grosso corrimano di pietra, punteggiato da macchie di muschio, si sviluppava da due colonnine su cui le rose avevano preso il sopravvento, nascondendo sotto i voluttuosi petali rossi le due sfere poste su di esse come decorazione.
Serenity salì i gradini – tredici in tutto, notò – e alzò lo sguardo verso il portone. Una margherita faceva capolino al centro esatto dei due battenti, mossa dal debole alito di vento che proveniva da sotto l’uscio. E, sopra di essa, sopra il portone, le pietre dell’arco incise. L’archeologa rimase delusa nel constatare che, anche a quella distanza, la frase non era decifrabile. Solo alcune lettere erano ancora visibili, altre erano in parte nascoste dal muschio, in parte cancellate dal tempo.
«Signorina Hudson» un richiamo alle sue spalle ruppe la magia del momento. Serenity si voltò e vide il capo della spedizione farle cenno di avvicinarsi al limitare del boschetto, dove la stava aspettando per condurla al luogo degli scavi. Si incamminò.

 
Mentre si muoveva per raggiungere l’uomo, il suo sguardo fu attratto da qualcosa poco distante da lui, alle sue spalle. Era un’ombra. Strizzò gli occhi per metterla a fuoco, ma riuscì solo a percepire una forma vagamente umana. Il gelo si impossessò di lei: quell’ombra la stava fissando. Non aveva occhi, i lineamenti del volto non erano distinguibili, ma lei sapeva di essere fissata. Una sensazione orribile le attorcigliò lo stomaco, bloccandola sul posto. Più la guardava, più le cresceva dentro una paura irrazionale, un vero e proprio terrore. Aveva la pelle d’oca, voleva scappare, ma era immobilizzata. Il gelo le si spandeva dentro, prendendole gli arti, bloccandole il respiro…
«Kim?» la voce di Aaliyah e la sua mano sulla spalla la fecero saltare sulla sedia. L’amica la guardò «Tutto bene? Sono due minuti buoni che stai immobile a guardare il foglio» le disse, preoccupata.
Kimberly deglutì, riuscendo poco a poco a respirare di nuovo in modo normale. Annuì, per niente convinta di stare bene sul serio. «Sì, tranquilla. Stavo pensando…» rispose. Aaliyah non si mosse di un passo. «Davvero. Mi sono lasciata prendere la mano e ho sognato a occhi aperti» si trovò a dover aggiungere per tranquillizzare la compagna di stanza. La moretta scrollò le spalle, fingendo di crederle. «Se lo dici tu…» disse, e si allontanò per tornare alla sua serie TV interrotta sul pc.
Kimberly attese qualche secondo, finché non fu sicura che Aaliyah avesse indossato gli auricolari e avviato il video. Poi tornò a guardare il foglio nel carrello. La sua storia era lì, nero su bianco, e riportava parola per parola ciò che lei aveva nella mente riguardo lo svolgersi degli avvenimenti. Tutto. Ogni virgola. Ogni punto. Fino al momento in cui il capo della spedizione richiamava la protagonista. Un sudore freddo imperlò la fronte di Kim. Era successo di nuovo. Aveva di nuovo visto qualcosa che poi non aveva scritto. “Ho immaginato tutto. È tardi e sono stanca. Mi sono fatta influenzare da quello che è successo ieri sera” si disse. Il cuore, però, le batteva forte. Sulla pelle avvertiva ancora lo sguardo di quell’ombra senza viso. “Ho sognato” si ripeté, spegnendo la lampada da tavolo. “Anche Aaliyah ha detto che sono rimasta immobile. Ho dormito a occhi aperti”. Con quei pensieri agitati si infilò sotto le coperte.





*Il titolo del capitolo, come accennato anche nella storia stessa, si rifà al libro "Christine, la macchina infernale" di Stephen King.
  
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