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Autore: Sea    06/09/2015    3 recensioni
Il ragazzo della biblioteca è il classico esempio di ragazzo emarginato, lontano dalla società e dai contatti amichevoli, ma dietro il suo aspetto e i suoi modi c'è una storia complessa, una grave perdita. La vita sembra essersi stancata di lui, ma Ed continua ad andare al lavoro e a combattere contro il suo patrigno e il suo fratellastro per non perdere l'eredità di suo nonno: la sua casa. Sua nonna e la sua chitarra sono le uniche cose che gli restano, ma gli eventi prenderanno una piega inaspettata e tra un lavoro e l'altro, Marina entrerà prepotentemente nella sua vita.
Ecco una nuova storia dopo Afire Love! Spero di non deludere le aspettative. :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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VII


 
 
  • Cosa cazzo stavi facendo?
Ben era incazzato nero. Quando arrivava in ritardo succedeva sempre così e qualche volta finiva male, se aveva bevuto qualche cicchetto. Chiuse la porta e lo vide avvicinarsi, già con le spalle al muro e gli occhi chiusi per ricevere il primo colpo della serata, ma la voce di Jeffry arrivò nitida dalla cima delle scale.
  • Papà, mi serve.
Ben si voltò verso suo figlio con uno sguardo di rimprovero, come se lo avesse privato del suo divertimento quotidiano. Abbassò le braccia che aveva eretto come protezione e si ricordò del piccolo favore che doveva fare a suo “fratello”. Guardò il ragazzo smilzo in cima alle scale e lesse nei suoi occhi il nulla più totale: lo stava difendendo solo perché gli serviva e per nessun’altra ragione. Come se fosse stato un oggetto. Non romperlo, mi è ancora utile.
Ben tornò a guardarlo dalla sua altezza, dritto negli occhi.
  • Ho fame.
Pur di non sentire il suo alito sul viso avrebbe cucinato anche per un esercito, quindi scivolò lontano da lui per dirigersi nella vecchia cucina con i mobili bianchi, ma prima di sparirvi guardò Jef, che lo fissava di passo in passo. Cosa voleva, una statua?
Si scrollò il cappotto di dosso e per un attimo risentì il profumo di Marina. Rimase interdetto e si fermò al centro della cucina, credendo di avere le allucinazioni. Si annusò il maglione, il cappotto, ma non c’era più traccia di quel profumo. Posò una mano sul tavolo, stanco e con l’altra si massaggiò gli occhi. Gli sembrava di aver perso di nuovo la rotta, di aver scommesso senza aver guardato le carte, ma ormai c’era dentro, gli restava solo da scoprire se avesse vinto.
Il brontolio del suo stomaco lo risvegliò e lo portò dritto ai fornelli. Per quella sera, c’erano hamburger e patatine, con tanto di anelli di cipolla precotti: una classica cena all’inglese.
Mangiò la sua porzione mentre il resto del cibo finiva di cuocere, di modo da avere il tempo della loro cena per riposare. Quando Ben e Jef si sedettero a tavola, si dileguò di sopra prima che potessero ordinargli altro e saltò sulle scale percorrendole a due a due. Quando si chiuse la porta alle spalle, continuò a non sentirsi al sicuro.
Si sedette sul materasso e osservò il disordine della sua stanza buia: la scrivania accanto alla porta era sommersa di vestiti da lavare, il letto disfatto, l’accappatoio abbandonato a terra, vicino al finestrone che dava sul viale. Si avvicinò per prenderlo, sospirando nell’alzarsi ancora e quando fu davanti alla finestra, vide un’auto rallentare. Per un attimo era tornato a guardare l’accappatoio, ma tornò subito a scrutare fuori quando sentì il sibilo dei freni.
Un’auto nera si era fermata fuori al suo cancello, senza spegnere il motore. Era troppo buio per riuscire a vedere chi vi fosse all’interno, riuscì soltanto a distinguere la luce di una sigaretta accesa. Istintivamente si scostò dal finestrone, osservando quella macchina dalla penombra delle pareti e cercando di distinguere la targa. Era troppo lontano.
Credette che a momenti qualcuno sarebbe sceso o che Jef sarebbe uscito dalla porta, ma non accadde nulla di tutto ciò e la macchina ripartì.
In quel momento aveva una tale agitazione in corpo che persino il suo respiro gli sembrò troppo rumoroso, mentre si poggiava con la schiena al muro. Guardò il soffitto ed ebbe paura per se stesso al pensiero che quella notte sarebbe andato in quella bettola al posto di Jef.
Con l’inquietudine che gli faceva martellare il cuore, guardò l’orologio: aveva giusto il tempo di lavare i piatti e poi sarebbe dovuto uscire. Sperò soltanto che non nevicasse.
Quando mezz’ora dopo la cucina fu in ordine, risalì le scale per riprendere il cappotto e proprio sul culmine, Jef lo fermò.
  • Mi raccomando, idiota. Prendi tutto, dagli i soldi e torna qui. È tutto chiaro?
I suoi occhi freddi e calcolatori brillavano persino nel buio del corridoio, mentre si sistemava le collane al collo. Non attese nemmeno che rispondesse.
  • Se ti azzardi a tornare a casa senza la mia roba, sai cosa ti aspetta.
Lo guardò dritto negli occhi, con disprezzo. Era facile per lui, minacciare, suo padre non gli aveva mai messo una mano addosso, non sapeva cosa significasse essere picchiato da un ex lottatore. Con la gola secca e l’espressione immobile, riuscì a superarlo e a tornare nella sua stanza. Prese l’ultimo maglione pulito e lo infilò al di sopra di quello che già indossava, spettinandosi tutti i capelli nell’infilarci la testa. Ultimamente era così stanco che non resisteva neanche al freddo.
Prese dei soldi dal cassetto, dal suo posto segreto e prima di chiuderlo vide di nuovo la collanina dorata. L’aveva proprio dimenticata. La prese, sentendola fredda tra le dita e la guardò. Magari era davvero di Marina o magari no, ma quella ‘M’ gli piaceva. Era davvero infantile da parte sua cercare di illudersi che quella lettera gli piacesse soltanto per l’aspetto e non per il significato che la sua mente gli attribuiva. Se la infilò al collo e la nascose sotto il maglione e si sentì meglio. Come se a quell’appuntamento non ci stesse andando da solo.
Senza guanti e senza cappello, riprese la bici dal portico e si avviò fuori. Il cielo era limpido, si vedeva persino qualche stella, ma faceva un freddo boia. Ad ogni pedalata si lasciava alle spalle scie di vapore e sentiva già la pelle delle mani frantumarsi. Si tirò giù le maniche del maglione, provando un leggero sollievo, ma aveva ancora molta strada da fare, senza contare che avrebbe dovuto tornare indietro.
Guardò le strade illuminate dalla luce gialla dei lampioni, non c’era nessuno in giro, i locali erano tutti chiusi in quella notte senza luna. Capì molto presto che le sue scarpe non bastavano a proteggerlo e che l’olio della catena stava per congelarsi, ma non poteva permettersi imprevisti. Forzò la marcia per i successivi chilometri, addentrandosi nella periferia dai vicoli stretti e sporchi, le case degradate e arrangiate con qualsiasi tipo di materiale avevano un aspetto spettrale e gli mettevano addosso una strana ansia.
Da quando era bambino, la sua più grande paura era quella di perdersi e quando ci pensava, gli affioravano alla mente immagini di città grandi e sconosciute, quasi sempre coperte dal buio della notte. Esattamente come in quel momento. Spaesato.
In lontananza vide una vecchia lampada gialla, che illuminava una scritta. Rallentò e lesse “The Lanthern”: già, che nome originale, ma era proprio il posto che cercava ed era già molto che fosse riuscito a trovarlo così in fretta.
Sentì delle grosse voci provenire dall’interno, che già davano l’idea dell’ubriachezza che assoggettava chiunque stesse parlando. Posò la bici accanto al muro, sperando di ritrovarla quando sarebbe uscito e spinse la porta d’ingresso, troppo infreddolito per pensare al motivo della sua visita. Immediatamente, lo presero tre sensazioni: la prima fu quella del calore che bruciava sulle sue guancie gelate; la seconda fu quella di essere del tutto fuori luogo, come una principessa in mezzo ad un branco di ladroni; la terza fu il calore al petto che sentì ripensando al ciondolo che portava al collo. Quel buco puzzolente, cadeva a pezzi: il bancone era mezzo distrutto, il soffitto gocciolava, ogni cosa era marcia e putrida. I due uomini che aveva sentito dall’esterno stavano ancora discutendo e non erano una bella vista, sembravano due vecchi pirati. Deglutì, un po’ per trattenere il rigurgito che sentiva risalirgli alla gola, un po’ per la ritrovata agitazione, nel ricordare le parole di Jeffry. Fece il primo passo verso il barista, un uomo di mezza età che dimostrava il doppio dei suoi anni, sperando che le sue sensazioni non fossero leggibili sul suo viso. Con le mani in tasca, ostentò sicurezza e chiese di un certo Tyler. L’uomo prima lo guardò, probabilmente chiedendosi chi fosse quel tipino così pulito, poi indicò l’unico tavolo occupato, da una sola persona.
Un uomo fumava, osservando il fondo del suo bicchiere vuoto. Quando raggiunse il tavolo, quello alzò lo sguardo, ma la sua non fu un’espressione felice. Il vecchio cappello che indossava e il colletto alzato, gli impedivano di tracciarne un quadro generale.
  • Tu non sei Jef. – la sua voce era fioca, ma non c’era insicurezza nel suo tono.
  • Sono venuto al suo posto.
  • Che codardo. – e senza guardarlo negli occhi, prese uno scatolino dalla tasca e glielo mostrò. – Per questo sono 300 sterline.
Quanto?!
Non potette esternare il suo disappunto e si concentrò per non variare di una virgola la sua espressione fredda. Prese i soldi dalla tasca e glieli mostrò, ma il cuore stava per bucargli il petto. Jef aveva scelto la persona sbagliata per quel lavoro.
Ovviamente, non si fidava di quell’uomo e mise i soldi sul tavolo soltanto quando sentì lo scatolino ruvido sfiorargli le dita. Quando lo prese, l’uomo intascò i soldi e si alzò, facendolo vacillare per un attimo.
  • Dì a Jeffry che può mandare chi vuole al suo posto, le cose non cambiano.
Prese un tiro dalla sigaretta ed uscì dal locale nel giro di pochi secondi. Non desiderava restare lì dentro un minuto di più, così prese a camminare verso l’uscita, ma la voce del barista tuonò alle sue spalle.
  • Qualunque cosa tu abbia in tasca, nascondila. – si voltò a guardarlo, senza capire. – Qui, di notte, gira la polizia.
Stirò l’espressione, improvvisamente grato che quell’uomo l’avesse fermato. Alzò la mano per ringraziarlo e tornò nel gelo e nel buio.
Dove avrebbe potuto nascondere quell’affare? Il solo pensiero che lì dentro potesse esserci della droga, gli faceva rivoltare lo stomaco. Quando guardò la bici ebbe un’idea: si abbassò all’altezza della ruota anteriore e smontò il coperchio della vecchia dinamo ormai rotta, mettendo al posto della lampadina il pacchettino di Jef. Richiuse il fanale e rimontò in sella, ripercorrendo la stessa strada a ritroso.
Il buio lo avvolse nuovamente e il suo pensiero andò a Marina, che poche ore prima era stata in grado di fargli dimenticare ogni cosa.
Quando nel pieno della notte diede a Jeffry la sua consegna e riferì il messaggio di Tyler, per fortuna Ben stava dormendo e lui potè chiudersi la porta alle spalle più sereno, ma chiedendosi come avrebbero fatto quel mese, con 300 sterline in meno.
Si era addormentato con i vestiti addosso, senza neanche accorgersene e zittì la sveglia più nervoso del solito. Tre ore di riposo non sarebbero state abbastanza per nessuno, ma era già molto se quella notte non aveva avuto qualche colpo di troppo.
La sua meccanica routine, gli permetteva di non guardarsi nemmeno allo specchio, evitandogli così di vedere quanto fossero profonde le sue occhiaie o quanto fossero ancora visibili i segni sul suo viso.
Cosa poteva fare per svegliarsi? Il freddo sembrava non bastare e non poteva permettersi di prendere un caffè, voleva soltanto dormire.
Gli studenti invasero la biblioteca, senza badare troppo alla sua stessa presenza, ma la fila al banco dei prestiti gli sembrava comunque troppo lunga.
Il rombo dei tuoni gli ricordò improvvisamente che mancavano poco più di 10 giorni a Natale e ciò significava meno lavoro e meno soldi: si portò una mano sugli occhi, senza riuscire a contenere la sua angoscia.
Quello era uno di quei giorni in cui avrebbe voluto mollare tutto e scappare, senza pensare all’eredità o alla casa, ma poi il pensiero di sua nonna, sola, lo faceva impietrire. Non poteva lasciarla sola, suo nonno lo avrebbe odiato per sempre. Avrebbe voluto credere almeno in Dio, per chiedere un miracolo, anche uno piccolo piccolo.
Doveva cominciare a cercare un lavoro part-time in qualche bar del centro.
Stava ricercando un libro di architettura in una delle zone più buie della biblioteca, quando all’improvviso qualcuno gli rivolse la parola.
  • Scusa, - era uno dei ragazzi assidui – dov’è la sezione narrativa?
  • In fondo alla sala, dall’altra parte. – e gli indicò la direzione con un dito, cercando di concentrarsi.
  • Ok. Senti – riprese quello – dopo pranzo, cerca di aprire in orario, noi abbiamo da fare.
Forse era la sua immaginazione, forse si era addormentato sullo scaffale. Aggrottò lo sguardo, riflettendo seriamente sulle parole che aveva udito, poi lo guardò e si rese conto di essere sveglissimo. Lo sguardo beffardo di quel belloccio aveva proprio l’aria reale. Probabilmente avrebbe optato per il silenzio e l’indifferenza, ma sentì i suoi pensieri materializzarsi attraverso la voce di Marina, accompagnata da un profumo di caffè davvero invitante.
  • Philip, perché non torni col culo sulla sedia e cerchi di dare un senso alla tua esistenza?
Il signor spalle larghe probabilmente era furbo quanto suo fratello, perché sembrò interpretare quelle parole come un complimento.
  • Oh, Mar! Stavo solo-
  • Non mi interessa. – fece lei, col viso privo di qualsiasi maschera.
Quello, come se lei lo avesse appena elogiato, si voltò per andar via, lasciandole un buffetto sulla guancia e uno sguardo carico di egocentrismo.
Ed era rimasto incantato ad osservare quella scena, avendo cura di restare in piedi e sveglio per godersi lo spettacolo fino alla fine. In realtà non gli interessava il fatto che quel tipo avesse voluto fare il gradasso con lui, era più colpito da quella Marina - scaricatrice di porto. Una creatura così piccola eppure così sveglia.
  • Lascialo perdere, – e tornò alla realtà. – è solo un idiota.
Nella penombra, guardò il suo sorriso e si chiese se fosse cambiato qualcosa in lei. La vedeva diversa: forse erano i capelli mossi o la luce soffusa, ma gli era chiaro che Marina avesse qualcosa nella pelle di più luminoso. Più sicuro. Non si era accorto di non averle ancora risposto.
  • Parlerai o hai intenzione di ignorarmi? – disse, ironizzando sul suo stato di trance.
  • Oh! – rinvenne. – Non fa niente.
  • Ti ho portato un caffè.
Non appena disse quella parola, il profumo della bevanda tornò chiaro alle sue narici e lo portò a guardare la tazza stretta tra le sue mani.
  • Non dovevi disturbarti. – disse, prendendola.
  • Mi eri sembrato stanco. – osservò lei, mentre guardava le sue occhiaie.
  • Già.
Abbassò gli occhi, tornando a pensare ai suoi problemi. Il vapore risplendeva sotto il fascio di luce che illuminò momentaneamente entrambi. Quando rialzò lo sguardo su di lei, gli sembrò più vicina di quanto avesse creduto.
  • Come sta la tua amica? – chiese, per cortesia e per distrarsi dal fatto di sentirsi come un ubriaco.
  • Per fortuna sta bene, è tenuta sotto controllo, ma è fuori pericolo. – sorrise. – Grazie ancora per il tuo aiuto.
  • Figurati. Grazie a te per il caffè. – ed alzò la tazza verso di lei.
  • È a questo che servono gli amici, no?
Il suo sorriso radioso in quel momento illuminava un pensiero poco chiaro.
Amici? Era palese che lei leggesse qualcosa di anomalo sul suo volto, ma non sapeva che per lui quella parola aveva lo stesso peso di uno dei cazzotti di Ben. Amici. Significava avere uno stretto legame con qualcuno, una persona che ti aiuta e ti sostiene, che ti conosce abbastanza bene da sapere che ti piace l’Earl Grey e non il the verde.
Era confuso come un bambino quando scopre che Babbo Natale non esiste.
Ed non sapeva se volesse essere suo amico, ma gli sembrò che lei invece volesse aiutarlo, mentre lo guardava senza lasciarsi turbare da quel suo sguardo perso. Non aveva paura della sua “inesperienza”? Cosa aveva da guadagnarci? Lui, non aveva niente da offrire in cambio.
  • Edward.
Battè le palpebre istintivamente, prendendo coscienza del fatto che lei fosse ancora lì e questo lo turbava più della solitudine, a cui ormai era abituato.
  • A cosa stai pensando? – chiese, guardandolo negli occhi.
  • Uhm… - si guardò i piedi, stringendo la tazza calda tra le mani. – N-noi siamo amici?
Sembrò sorpresa da quella domanda. In effetti, lei non lo conosceva affatto, non aveva idea di quanti nodi ci fossero da sciogliere nella sua testa.
  • Beh…se ti va. – disse poi, con naturalezza.
  • Scusa, io – non voleva sembrarle scortese, non aveva niente contro di lei.  – sono strano, lo so-
  • Non fa niente.
D’improvviso il suo maglione divenne una serra, facendogli salire il sangue alle guance come sale il mercurio in un termometro, quando hai la febbre a 40°C. Sentì un lieve sorriso fuggirgli dalle labbra e poi nascondersi di nuovo sul suo viso troppo serio.
Lei ricambiò quel suo sforzo e tese una mano verso di lui: eccolo, quel terrore del contatto, della vicinanza di qualcuno che poteva sparire da un momento all’altro. Fremette nel vedere la sua mano avvicinarsi al suo viso, ma lei ignorò la sua agitazione, volontariamente. Continuava a guardarlo negli occhi come se volesse tranquillizzarlo. Si limitò a poggiare i polpastrelli sul suo zigomo ancora dolorante. Il dolore provocato da quel contatto aveva un duplice significato: rendeva reale la sua paura dei sentimenti e la paura della realtà stessa.
Si allontanò quasi subito.
  • Forse è presto per chiedertelo. Se hai bisogno di parlare, io ci sono.
Il suo viso era serio, ma presto le sue labbra si incurvarono, arrossandole le gote, senza che lui ne capisse il motivo. In piedi nella sua camicia a quadroni e nel suo maglione, sentì il corpo pesante mentre lei lo salutava con un cenno e tornava al banco.
Si portò una mano al viso, sentendo la barba sotto le dita. Si rendeva conto che avere paura della felicità era assurdo, ma la vita lo aveva addestrato ad aspettasi il male dalle cose più belle.
Per questo, Marina, era diventata una sfida.
Era entrata nella sua vita.
 
Quel pomeriggio, quando andò a trovare sua nonna, non poté fare a meno di aprirgli il suo cuore e confidarle il suo stato d’animo.
  • Nonna, lei è così gentile, ma ho paura che questa cosa dell’amicizia finisca male.
  • Edward, non essere fifone. Tuo nonno ha affrontato una guerra ed è tornato a casa sano e salvo e tu hai paura di una ragazza?
Quasi lo prendeva in giro, ma era benevola. Evangeline lo guardava con la saggezza di chi ha visto già tutto nella vita e vedeva negli occhi di suo nipote lo sguardo di suo marito, negli anni in cui era ancora un giovane soldato: spaventato dalla guerra, ma pronto a combatterla. Non vedeva quella scintilla da quando sua madre era morta. Lui stava davvero pensando di correre un tale rischio e ciò le dava la speranza di vedere suo nipote rinascere e vivere finalmente la sua vita.
  • Perché non le dai una possibilità? Da quello che mi dici, sembra una brava persona.
Si distese sulla sedia accanto al camino, lasciando cadere la testa all’indietro, riflettendo sulla seria possibilità di tornare a fare l’umano come tutti. Lui era Ed, si conosceva, sentiva che gli sarebbe costato un grande sforzo.
  • Io credo che lo sia.
  • Sei disposto a rischiare?
Sbuffò pesantemente a quelle parole e si portò le mani al viso, come un bambino capriccioso.
  • Sei un uomo grande e grosso e prima che io muoia, voglio conoscere la tua fidanzata, quindi vedi di darti una mossa! E comunque cosa avresti intenzione di fare, di ignorarla di punto in bianco? Ormai ci sei dentro, tanto vale tentare.
Sua nonna gesticolava animatamente, facendo voltare tutti i presenti nella stanza azzurra.
  • Ma nonna-
  • Scegli.
Lo interruppe e lui la fissò.
  • Meglio un’eterna solitudine o il rischio della felicità?






Angolo autrice:

Salve gente! Ecco un altro capitolo.
Ho scritto abbastanza per poter pubblicare almeno una volta la settimana, quindi sarò puntuale negli aggiornamenti. :)
Non c'è molto da dire su questo capitolo, piuttosto, fatemi sapere cosa ne pensate e cosa credete che accadrà. Grazie per l'alto numero di visite!
A presto!

S.
  
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