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Autore: _Lady di inchiostro_    07/09/2015    3 recensioni
Manca davvero pochissimo alla battaglia che i due neo alleati dovranno affrontare, e di certo nessun momento è adatto per lasciarsi andare alle debolezze.
Eppure lo fanno, Law e Rufy passano comunque la notte insieme.
Perché entrambi sanno che, in seguito, non ci sarà un’altra occasione. E questa consapevolezza sembra preoccupare soprattutto Rufy, Law lo intuisce immediatamente.
Che sia costretto a dover raccontare l’ennesima bugia, l’ennesima falsa promessa, pur di vederlo sorridere?
*
Stette a guardare Rufy che, pur senza dire niente, stava parlando più di un oratore con i suoi gesti, prima di rompere quello strano silenzio che, durante il discorso di Rufy, aveva accompagnato il velo bianco come una pellicola trasparente.
«Capisco…» Distolse lo sguardo. «Ehi, Mugiwara-ya…»
Rufy aprì gli occhi a fatica, le palpebre fattesi a un tratto pesanti, mantenendole semi aperte e alzando lo sguardo verso l’altro, che fissava un punto imprecisato davanti a sé.
«Che cosa faresti se io morissi?»

*
{LawLu}{Pre-Dressrosa}{Accenni al capitolo 724}{Missing Moments/What if?} {Doujinshi style ♥}
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Trafalgar, Law/Rufy
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Make me a promise
{What would you do if I died?}




Il cielo notturno non era mai stato di un blu così scuro, così denso: sembrava quasi dipinto, della semplice vernice vischiosa cosparsa sulla tela bianca. Forse era anche la mancanza di nuvole che rendeva il tutto ancora più suggestivo; curioso che, proprio nell’ultima notte di pace che potevano permettersi, il cielo fosse così limpido.
Trafalgar Law sbatté le palpebre, ancora intento a osservare il cielo dalla piccola finestrella cui aveva fatto caso solo ora, un braccio sotto la testa.
Era incredibile. Tutto era successo con un’incredibile velocità, senza che lui potesse analizzare i pezzi di quel puzzle che, oramai, aveva completato a occhi chiusi, dimostrando che non sempre bisogna fare tutto un passo alla volta, che per certe cose bisogna lasciarsi trasportare e basta.
Non che ne fosse contento: in una circostanza come quella, di assoluta delicatezza, non era di certo il momento di lasciarsi prendere dalla paura, dalla passione, o semplicemente dal desiderio di avere un contatto ben più approfondito con qualcun altro. Era il tempo delle strategie, del riposo mentale e fisico, in modo da catalizzare al meglio il putiferio che, di lì a qualche ora, si sarebbe scatenato; anche se, a dirla tutta, Law non era poi così sicuro che la ciurma di Cappello di Paglia ci sarebbe stata mentre Dressrosa, inevitabilmente, entrava nel panico. Magari avrebbe fatto sì che loro proseguissero senza di lui.
Il che sarebbe stato piuttosto complicato, col capitano che quella ciurma sgangherata si ritrovava. E con l’interesse che quel ragazzino nutriva per lui.
Interesse decisamente ricambiato e che era cresciuto pian piano in Law, come uno di quei parassiti che si insinuavano fino a non voler più lasciare il corpo dell’ospite, destinandolo ad essere spacciato. 
E Law lo era. Era spacciato.
Lo era già due anni fa, ma la cosa sembrava essersi assopita in una piccola parte dentro di lui, quella parte dove teneva tutti quei sentimenti stupidi, per deboli e che – sempre, sempre, sempre – rischiavano di fargli perdere qualcuno. Mai si sarebbe aspettato di ritrovare la causa della sua condanna in piedi davanti a lui, con la neve che sferzava contro vento. E si sa, combattere un parassita fino a sopprimerlo non è per niente una cosa facile: Law aveva tentato in tutti i modi di mantenere la calma, di sfruttare l’impulsività di chi gli stava difronte per i suoi scopi – insomma, quando gli sarebbe ricapitato di incontrare un pirata che non ha paura di andare contro i Quattro Imperatori, la personificazione della potenza e della morte certa? –, e credeva di esserci riuscito, di non essersi piegato a quella sensazione che, maledetta, si era annidata all’altezza del petto.
Quella sera, però, i dolori causati da quella sorta di piaga erano tornati, e lo avevano bruciato, sgretolando lo sterno, la bocca dello stomaco, fino ad arrivare ai nervi. E la cosa peggiore era che quel dolore non fu vero, non stava effettivamente morendo di chissà quale malattia, fu solo il frutto della sua testa. Quando si trattava di tenere a freno tutto questo, Law poteva riuscirci un paio di volte, diciamo per l’intera permanenza su un’isola, ma non quando era certo che sarebbe morto.
Ci aveva pensato fino a un’ora prima, appoggiato alla balaustra di quella colorata quanto strampalata nave, la visiera del cappello che nascondeva sempre il suo viso. Quella sarebbe stata l’ultima notte, l’ultima notte di pace, l’ultima notte da vivere.
Ne era certo, sarebbe morto pur di portare a termine la sua missione con Doflamingo. Ma c’erano delle cose, diamine, che doveva fare, che voleva fare. 
Quei pensieri, quel desiderio che, alla fine, non era altro che un desiderio di un qualunque essere umano, percorrevano tortuosi lo schema mentale che, da anni, si era costruito per rimanere sempre così rigido. 
Perciò, no, non doveva lasciarsi sottomettere; però voleva. 
Ed è qui che sta la caratteristica di quello di cui fu vittima Law, che nessuno riesce mai a essere coerente con se stesso, con le due metà in perenne contrasto. Non importava quale delle due avrebbe scelto, tanto sapeva che non avrebbe avuto importanza, che se ne sarebbe pentito comunque, che sarebbe incappato in una strada senza uscita. Eppure aveva esitato, aveva esitato nel fissare quel ragazzino pirata di cui si era affezionato – sì, provava un affetto vero per quel moccioso, dannazione! –, mentre questo se ne stava seduto sull’erba sintetica della nave a strafogarsi di cibo, afferrando una fetta di pizza dopo l’altra e sventolandogliela sotto il naso nella speranza di farlo mangiare, nonostante Law gli avesse ripetuto che non era salutare per l’organismo a quell’ora della notte. 
Il Chirurgo della Morte voleva scegliere quella parte che, per una volta, gli diceva di seguire quello che provava, che se non l’avesse fatto sarebbe stato l’errore più grande della sua esistenza, un rimpianto che l’avrebbe tormentato anche nell’aldilà, come lo tormentava la morte di Cora, il rivedere lui che rideva e gli accarezzava la testa senza tener conto delle ferite come un’immagine sbiadita nei suoi ricordi.
Così, ancora titubante, si era accostato all’orecchio di Rufy e gli aveva sussurrato di venire a letto con lui quella sera. Non era sicuro che il ragazzo avrebbe capito a cosa alludesse, né se fosse giusto comportarsi in quel modo data la sua ingenuità – per Rufy quella frase poteva significare qualsiasi cosa, anche che Torao volesse piantare una tenda nella stanza a simulare un campeggio, tutto era possibile con lui!
Il ragazzo di gomma aveva sbattuto gli occhi, la punta della pizza tenuta per i denti. Non rispose a Law, non subito almeno, più preoccupato di finire il suo spuntino e di sussurrare qualcosa allo spadaccino. Gli aveva chiesto qualcosa di veramente grosso, perché Zoro lo aveva fissato da capo a piedi, inizialmente grugnendo e poi rivolgendogli un sorrisetto furbo. Law non aveva cambiato atteggiamento, era ancora rimasto in attesa, in piedi come uno stoccafisso e senza la sua katana posata sulla spalla, il che lo faceva sembrare ancora di più uno sciocco.
Rufy non gli aveva dato una risposta precisa, si era limitato a sorridergli radioso, a prenderlo per il polso, con Zoro che gli indicava col pollice la direzione da seguire – approssimativamente, non era mica detto che fosse giusta!
Avevano attraversato una zona che Law non conosceva, ma del resto era lì solo da un giorno circa. Avevano salito delle scalette, avevano aperto una porta a vetri che dava su una stanza spoglia e con un letto a due piazze, il tutto con Rufy che non aveva smesso di cantilenare che nessuno li avrebbe disturbati e che Zoro fosse di pattuglia quella sera.
Law stava sospettando che non avesse capito un tubo della sua richiesta e lo aveva frenato ancora prima di entrare nella stanza, allo stesso modo di come l’aveva fermato quella mattina mentre parlava con Doflamingo al lumacofono, facendo sembrare entrambi dei perfetti cretini.
Quegli occhietti avevano sbattuto ancora le palpebre, perplessi sotto le parole di Law.
«Certo che ho capito quello cui ti riferivi» aveva sbottato non appena Law aveva finito di formulare la domanda, sorridendo come un bambino che deve nascondere l’ennesima monelleria ai genitori. «Vuoi fare sesso con me, no?»
Era quasi pronto a rinunciare a tutto, sicuro che Rufy non ci avesse capito una fava, rimanendo invece col dito alzato a mezz’aria e le orecchie tappate, non riuscendo neanche a sentire l’aneddoto che l’altro gli stava raccontando su Shanks, su come avesse saputo queste cose, e su come quella fosse stata l’unica volta che Makino aveva dato una padellata in testa al capitano, imbarazzatissima.
E aveva riso, aveva riso di lui, del rossore che gli aveva colorato le guance, le braccia portate dietro la nuca.
Law gli aveva urlato contro di tacere, ma Rufy non lo aveva ascoltato: fu preso da un’euforia tutta nuova, diversa da quella che provava prima di fare a cazzotti con qualcuno.
Non sentiva il bisogno di sgranchire i muscoli, le ossa, le altre parti del corpo, avvertiva solo il sangue affluire più velocemente, pompato da quell’organo che, in quei minuti, rischiava di esplodere talmente batteva forte. Era come un bambino che stava per varcare una soglia tutta nuova, che non aveva paura di gettarsi da un burrone perché voleva volare, che non aveva paura di solcare mari sconosciuti, lo stesso spirito bambinesco che, in fondo, non l’aveva mai lasciato.
Aveva sorriso, le labbra premute su quelle di Torao; aveva riso, posando la fronte sul suo petto per riprendere fiato.
In quell’istante, qualche attimo prima di compiere un gesto che, in seguito, avrebbero potuto considerare avventato, Law si era chiesto se fosse giusto. Se fosse giusto che, con l’infantilità di Rufy, lui lo toccasse, che quelle sue mani tastassero quella carne che, nonostante i vestiti, aveva trovato calda sotto i polpastrelli.
Quelle mani che avevano già lavorato su quella pelle, su quegli organi, per ricucire quel corpo, per renderlo di nuovo elastico, il corpo di una persona viva. Le stesse mani che si erano macchiate col suo sangue e che, nonostante tutto, aveva posato su quel viso contratto dal dolore, dalla disperazione, dalla voce incrinata che aveva richiamato il fratello.  
Law si era sentito sporco, si era sentito sbagliato, e voleva solo girare i tacchi e andarsene, spiegargli il malinteso. Poi, la bocca di Rufy si era posata ancora sulla sua, sempre timidamente, sempre insicuro di quanto Torao lo volesse quel rapporto. E, cavoli, Law lo voleva davvero. Lo aveva bramato da tempo, oramai. Non aveva più avuto contatti di questo tipo da anni, secoli forse, e adesso non poteva più farne a meno. Lo aveva preteso, voleva farlo suo. 
Aveva desiderato Rufy in un modo con cui, buon Dio, non aveva mai desiderato nessuno.
E lo aveva fatto suo. 
Aveva toccato quella carne, percependola morbida a calda, sempre più, sempre più, toccando il confine del piacere. Aveva passato le sue lunghe e magre dita sui segni lasciati dal tempo, una prerogativa di cui solo Rufy poteva vantarsi. Aveva premuto la mano sulla cicatrice che quel ragazzino si portava da due anni sul petto, lui che si sentiva i polmoni svuotati dal palmo di quella mano. Rufy aveva ansimato, aveva emesso gemiti, e per la maggior parte del tempo non sapeva dove mettere mano; tuttavia, quando l’altro gli aveva rivolto lunghi sguardi, cercando nei suoi occhi un motivo per fermarsi, lui gli aveva sorriso, aveva ricominciato a baciarlo e aveva tentato di lasciargli dei morsi con fare sensuale, causando solo dei sorrisi da povero pazzo maniaco da parte di Law.
Il tempo era passato, volato quasi, e non sapevano da quanto, ora, se ne stessero schiena contro schiena, a pensare.
O almeno, ci provavano.
A dirla tutta, Law non sentiva mai la sua mente così vuota dopo un qualsiasi atto sessuale – “Forse perché quelli non erano sinceri, eh Law?”, gli venne da pensare – e lo stesso valeva per mille altre questioni che richiedevano, di solito, una visione a ritroso di quanto accaduto. Era come se l’encefalogramma fosse diventato improvvisamente piatto, come quello di un qualsiasi animale, privato della ragione. In altre occasioni, il suo cervello avrebbe elaborato milioni di ragioni per cui fare sesso con Rufy fosse stata una scelta errata: la strategia sarebbe andata a farsi benedire, per non parlare dell’alleanza, di come si sarebbero distratti in guerra, e così via dicendo.
Invece, tutto questo gli sembrava obsoleto. Cose cui aveva già pensato fin dal principio, ancor prima di bisbigliare quelle parole vicino all’orecchio di Rufy. Cose di cui, sì, si era avveduto ma che aveva ignorato per far posto a qualcosa di ben altro tipo e che, francamente, non concedeva mai al suo corpo nella giusta maniera: non era un cyborg, per la miseria!
Disteso nel letto con Rufy accanto, Law si era di certo ravvisto da quanto successo, ma si sentiva anche… come dire?
Soddisfatto? Soddisfatto. 
Una soddisfazione non dovuta alla vittoria del suo stratagemma, ma all’aver avuto ciò che voleva. All’aver avuto Rufy, anche se, ammettiamolo, questo non l’avrebbe confessato mai.
«Non ha fatto male…» Law si ridestò dai suoi pensieri, dalle immagini che aveva già registrato, dalle stelle che sembravano dei puntini disegnati col pennarello in quel cielo blu e liquido come l’inchiostro. 
Rufy si mise seduto, il lenzuolo scalciato via, lasciando entrambi, se non completamente, almeno per una buona parte nudi. 
«Questa è la mia prima volta, però non ha fatto male!» Sorrise, esclamando quella cosa con assoluta semplicità.
«Ah» Law assunse solo un’espressione tra lo scioccato e il rassegnato, emettendo sbuffi ogni tanto per via dell’aria compressa che aleggiava tra loro due, i corpi leggermente fradici di sudore. 
Rufy poggiò la testa sulla gamba di Law, rasserenato, beato. «Mi avevano detto che la prima volta è sempre un po’ dolorosa…» Law non poté fare a meno di chiedersi se a dirglielo fosse stato Shanks il Rosso, o un membro della sua ciurma – Nico-ya e Kuroashi-ya sarebbero stati i più opinabili –, il che dava anche un senso al fatto che sapesse che lui voleva andarci a letto.
Cappello di Paglia strusciò il viso, intenerito, quello sguardo di serenità pura stampato ancora in faccia. Law si sentiva ancora lievemente a disagio, l’espressione di prima che non era affatto cambiata, un sopracciglio alzato.
«Vedi di dormire, domani dovrai concentrarti per bene!» gli intimò poi, prendendo la testolina di Rufy allo stesso modo di come si prende un mandarino e posandola sul materasso con poco garbo.
L’altro si lamentò un poco prima di chiedere: «Torao dorme con me?»
Law tornò al suo solito atteggiamento serio, attento ai dettagli e a ogni cosa, in modo che ogni tassello avesse un suo spazio ben preciso e che gli permettesse di detenere tutto sul pugno di una mano. «No, dovrò rimanere sveglio per sorvegliare Caesar.»
C’era determinazione in quegli occhi grigi che, quella notte, avevano letteralmente divorato il suo corpo, Rufy se ne era accorto. Il suo obiettivo… il loro obiettivo, Law l’avrebbe raggiunto a qualunque prezzo. A costo della vita.
Mosse le labbra per parlare, ma da queste non uscì nessun suono, serrandole all’istante. Law fece poco caso a Rufy che appoggiò la testa sulla sua spalla, strofinando il naso sul suo petto, assaporando quel profumo che, da adesso in poi, gli avrebbe causato un forte capogiro.
«Ehi, Torao» soffiò su quella pelle resa ancora più scura dai tatuaggi, e l’altro inclinò il capo verso lui. «Domani, a Dressruba…»
«Rosa» lo corresse Law.
«Rosa» ripeté, sistemandosi meglio sul braccio del compagno. «Dovremmo svolgere dei compiti separati, giusto?»
Il Chirurgo dilatò appena le pupille, sinceramente sorpreso che Rufy avesse capito il piano che, quella mattina, aveva esposto all’intera ciurma: più che altro, lo aveva adocchiato mentre si scaccolava, o mentre sbadigliava sotto l’effetto soporifero che gli provocava il russare di qualche suo altro compagno. Ma che avesse effettivamente aperto le orecchie, ascoltato quelli che lui considerava dei discorsi noiosi e degni di uno stratega, questo no, Law non se l’aspettava.
«Sì, esatto» rispose, adesso studiando Rufy, come aveva studiato il suo corpo prima di operarlo due anni fa, come lo aveva studiato quella sera prima di azzardarsi a toccarlo, quest’ultimo che non era per nulla intenzionato a interrompere quel contatto tra la sua guancia gommosa e il braccio di Law, muovendosi avanti e indietro.
Pareva quasi che volesse che il suo odore – che, non era una novità, sapeva di carne appena cotta – si mischiasse a quello di Law, che assomigliava a quello della menta appena fiorita; il che era strano, perché un medico solitamente odorava di ospedale, di farmaci, di tutte quelle erbe puzzolenti che Chopper gli aveva fatto annusare, eppure Law sapeva di menta, e, quel pizzicore che avvertiva alle narici, a Rufy piaceva da impazzire. 
«Torao…» incominciò Rufy, allungando sul suo viso un sorriso tirato, addirittura malinconico.
In pochi secondi, tutto divenne niente per Trafalgar Law. Il resto di quella misera stanza non esisteva, non c’era; c’era solo il bianco, riempito dai ricordi di Rufy che, stranamente, si era messo a parlare piano, con una cadenza che ricordava tanto una ninna nanna.
Era riempito dalle descrizioni che Rufy faceva dei suoi fratelli, del loro rapporto, di quelle tazzine rosse menzionate come uno dei tesori più preziosi. E la voce di Rufy rimbombava tra le pareti, mentre gli raccontava di come se ne fosse andato il primo fratello, Sabo, e il tono di voce di Rufy diventava sempre più forte, a simulare la voce di Pugno di Fuoco che gli prometteva che, no, lui non l’avrebbe lasciato mai solo.
I rumori della guerra entrarono con prepotenza, all’istante, gli stessi rumori che Law aveva udito di sfuggita, impegnato com’era a convincere quel bizzarro individuo a cedergli le cure di Rufy. Law fu catapultato immediatamente a Marineford, a quel momento, Rufy che s’incrinava ma non piangeva. E le voci di Rufy e Portuguese D. Ace erano diventate una sola, la stessa cantilena che si mescolava fino a non farti capire se fossi stato spedito in un mondo d’incubi o se fossi ancora sveglio, e mormorava quanto gli dispiacesse di non aver mantenuto la promessa. 
Quando Rufy smise di parlare, quella sorta di velo bianco che ricopriva i mobili di un discutibile gusto e tutte le altre cianfrusaglie varie crollò subito, e Law poté risentire le lancette del tempo ticchettare dentro le orecchie e nelle vene, un brusio continuo.
Si guardò intorno, frastornato, le parole di quel ragazzino che l’avevano catturato come una mosca col miele. Tornò su di lui che sorrideva ancora, sereno, e pareva che tutto fosse tornato nomale, come se non fosse accaduto nulla. Come se Rufy gli avesse narrato le vicissitudini della sua infanzia prima di addormentarsi, una sorta di favola che avrebbe voluto riascoltare ogni sera, accoccolandosi sul braccio di Torao e lasciandosi cullare dal suo respiro appena accennato.   
In realtà, tutto questo non era normale. Rufy non era normale.
Law l’aveva visto, ad Amazon Lily, come si dibatteva sull’erba umida, sporcando le bende candide di terra, strappando i fili e affondando le unghia nel fango. Law le aveva udite le sue grida di disperazione nel rendersi conto che aveva perso entrambi i suoi fratelli. Law era a conoscenza di come ci si sentisse in questi casi, il mondo che ti si sgretola tra le mani, che s’incendia, vedendo rosso, solo rosso fuoco, e diventi un sopravvissuto in una città fantasma, in mezzo alla morte. 
I sentimenti che quel moccioso stava provando erano delle vibrazioni che solleticavano ogni lembo di quel magro corpo, ed erano tutti per i suoi fratelli, dicevano che lui doveva continuare a vivere, perché era giusto così, perché poi il loro incontro sarebbe stato più bello. E, allo stesso tempo, dicevano che quella sofferenza non l’avrebbe più provata, che non avrebbe perso più nessun altro. Che se fosse successo, lui non se lo sarebbe perdonato. 
Law ne aveva la conferma, c’era qualcosa che Rufy voleva chiedergli, ma aveva paura, paura che sarebbe rimasta a vagare nel vento. E non aveva tutti i torti. Non aveva idea di quanto gli fosse costato raccontargli delle vicende così personali, e non era neanche detto che l’avesse fatto anche con la sua ciurma: d’altro canto, non ce n’era davvero bisogno, a loro bastava esserci per il loro capitano, allo stesso modo di come lui c’era stato per tutti i suoi compagni, ignaro del loro passato e dei loro tormenti. 
Il maledetto parassita di cui Law era succube si fece nuovamente sentire, e il dolore divenne sempre più forte, di più, sebbene fino a un attimo prima sembrasse essersi arrestato. 
Stette a guardare Rufy che, pur senza dire niente, stava parlando più di un oratore con i suoi gesti, prima di rompere quello strano silenzio che, durante il discorso di Rufy, aveva accompagnato il velo bianco come una pellicola trasparente. 
«Capisco…» Distolse lo sguardo. «Ehi, Mugiwara-ya…»
Rufy aprì gli occhi a fatica, le palpebre fattesi a un tratto pesanti, mantenendole semi aperte e alzando lo sguardo verso l’altro, che fissava un punto imprecisato davanti a sé.
«Che cosa faresti se io morissi?» domandò. 
Law si era immaginato ogni genere di reazione da parte del ragazzo: sguardi scioccati, parole sconnesse, qualcosa! Invece se ne stava lì, fermo e in silenzio, come se gli ingranaggi del suo cervello stessero finalmente lavorando. Santo cielo, quel pirata da strapazzo era un autentico mistero, tant’è che il capitano dei pirati Heart percepì uno strano imbarazzo, tra di loro. 
«Ehm…» pronunciò, volendo proseguire nel parlare, ma Rufy lo prese per le guance, spupazzandogliele e impedendogli anche solo di respirare, se non per esclamare qualche urletto decisamente poco virile. Il possessore del frutto Gom Gom voleva, in realtà, mettersi alle sue spalle, in modo da stare attaccati come due koala e da poter giochicchiare con le ciocche scure di Torao, passandoci le dita in mezzo e producendo, di conseguenza, uno strano rumore. Sapeva che gli dava particolarmente fastidio, ma era anche curioso di toccare quella chioma che – gli avevano rivelato i bambini a Punk Hazard – si dicesse essere molto soffice.
Law di certo non fu entusiasta di quel gesto poco consono per i suoi canoni, tuttavia doveva ammettere che non gli dispiaceva l’idea di stare sul petto di quel ragazzino, di avvertire il peso del suo mento sopra la sua testa – al diavolo tutti i suoi desideri corporei!
«Ohi, Torao» lo richiamò, con un tono così soave che faceva quasi impressione, sembrava che gli stesse parlando uno spirito e non il rumoroso capitano col cappello di paglia. «Tu non sopporti che io pianga, vero?»
Effettivamente, vista così, la domanda non c’entrava nulla con quello che Law aveva detto pocanzi; ciò nonostante, il Chirurgo non rispose, con la speranza che si aprisse un buco sul materasso, talmente profondo da arrivare sino alla crosta terrestre. Perché doveva rivangare sempre quella storia?
«Mi ricordo» proseguì Rufy. «Che durante la guerra, quando tu mi hai aiutato… ricordo vagamente che… mentre mi dicevi di non piangere, tu mi hai baciato, giusto?»
C’era desiderio in quelle parole, il desiderio che quello che stesse dicendo fosse vero.
Ed era vero.
Law non l’avrebbe dimenticato mai. Fu il giorno in cui non solo si comportò come se il suo cervello si fosse totalmente staccato, come una spina, ma anche il giorno in cui firmò la sua condanna, una croce che si è dovuto portare dietro per questi lunghi due anni e che aveva permesso a quel parassita di proliferare in maniera esponenziale.
Era avvenuto dopo il delicato intervento, quando nella stanza c’erano solo lui, Cappello di Paglia e il Cavaliere del Mare, disposto un po’ in là rispetto al suo amico. Law si stava apprestando a lasciare la sala operatoria, quando dei lamenti sommessi erano arrivati alle sue orecchie. Con l’atteggiamento da uomo vissuto che incarnava Jinbe, dubitava che provenissero da lui, per cui era partito spedito verso il lettino di Rufy, la sua katana già piantata lì accanto – erano rari i casi in cui la utilizzava per le operazioni mediche, era più adatta a torturare i nemici. 
Lo aveva trovato mentre si agitava, segno che la dose di morfina e antidolorifici che aveva somministrato non era bastata. Law aveva preparato immediatamente un’altra dose e fu quasi tentato di bloccare quel fragile corpicino con la forza. Non ce ne fu bisogno: Rufy stava chiamando Ace, stava chiamando suo fratello, in un vorticare d’immagini, suoni e ricordi che lo facevano star male, che lo facevano collassare. 
Law non fu mai delicato con un paziente come in quel momento, mai da quando era un chirurgo. Aveva posizionato una mano sugli occhi del suo rivale, ancora chiusi, ancora serrati, sussurrandogli dolcemente che sarebbe andato tutto apposto e, nel frattempo, aveva iniettato il contenuto della provetta. Apparentemente, tutto filò liscio e Law era quasi pronto ad andarsene di nuovo, se non fosse che il ragazzo mormorò ancora in quel sonno creato chimicamente.
«Resta con me.»
Era più che probabile che fosse rivolto al fratello e non a lui, tuttavia Law era rimasto comunque. Era rimasto, e si era avvicinato pericolosamente a lui, senza staccare la mano che, in pochi secondi, fu bagnata dalle lacrime di dolore di Rufy. Era sospeso a mezz’aria quando Rufy aveva ripetuto quella frase, tra i singhiozzi, provando a gridarla ma senza risultato. E poi, quella frase divenne la stessa di Lamy, che gli aveva preso la mano per non farlo scappare; era la stessa che avrebbe voluto gridare a Cora-san nel vederlo riverso a terra, un’enorme chiazza di sangue ad avvolgerlo. Aveva perso troppo, troppo, e quel bambinone troppo cresciuto gli aveva fatto riprovare un senso di fiducia che credeva di aver perso. Erano bastati pochi secondi a Sabaody per sentirsi inaspettatamente colpito, o forse era solo lui che stava vagando troppo con la fantasia e aveva solo bisogno di un contatto vero e sincero. Un contatto che andasse oltre l’affetto, oltre il rispetto reciproco. 
«Tranquillo, resto. Smettila di piangere, ora» Rufy annuì impercettibilmente, le labbra che gli tremavano, e smise di piangere. Poi, la sua natura razionale, si offuscò allo stesso modo di una foresta che si perde tra la nebbia fitta. Sorrise, per davvero, e si rese conto che non lo faceva da tredici anni. Posò le sue labbra su quelle di Rufy, in bacio appena percepibile per entrambi. 
Quando si staccò, il ragazzo stava già riposando, e Law era più che intenzionato a rimuovere l’accaduto. 
Si sa, però, le cose non vanno mai secondo i piani di una persona, altrimenti Law non sarebbe nudo insieme a Rufy, e quest’ultimo non starebbe tentando di mettere in moto la sua memoria.
«… Sì» borbottò infine, mordendosi la lingua. 
Il moro tirò fuori l’ennesima esclamazione di contentezza, per poi sentenziare: «Se tu dovessi morire, dopo io prenderei definitivamente a calci in culo la persona che ti ha ucciso!» 
Law accennò una risata, baldanzoso. «Perché? Ti ritieni più capace di me nel battere qualcuno?»
«Ovvio!»
«Vuoi provare a fare uno scontro?» Sembrava che lo avesse invitato a nozze da come lo chiedeva.
«Nah!»
E Rufy rise, rise in quel suo modo strambo, lo stesso modo in cui aveva riso prima di entrare in quella stanza, prima di fare l’amore con Law; lo stesso modo che, fosse maledetto, faceva sorridere anche quest’ultimo: non subito, ma si poteva già intravedere una lieve incurvatura nelle sue labbra. 
«E poi» continuò. «Dopo che l’avrò preso a calci, proseguirò con il mio viaggio, perché io devo diventare il Re dei Pirati. Incontrò sicuramente tante persone simpatiche e vivrò tantissime avventure in tanti posti. Ogni giorno del mio viaggio deve essere speciale! Oh, per non parlare del cibo buono, che è sempre importante!»
Andò avanti così, a parlare dei posti che gli sarebbe piaciuto vedere, delle feste che avrebbe organizzato con delle splendide persone, dei piatti nuovi e deliziosi che avrebbe assaggio, e a Law andava bene così. Non provava stupore, o rabbia, o qualsiasi altro risentimento che si potesse avvertire nei confronti di quel ragazzino. 
A lui andava bene così, andava bene che Rufy continuasse a guardare il mondo con gli occhi di un bambino, che si stupisse per la scoperta di un nuovo colore, di un nuovo fungo, di un nuovo scarabeo.
Rufy era fatto così, non voleva che cambiasse per via della sua morte, e in fondo era la stessa cosa che gli avevano detto i suoi fratelli anni prima, no?
Lui non avrebbe fatto lo stesso, però la pensava allo stesso modo.
L’amava anche per questo. Perché, era inutile negarlo, lui l’amava. 
Eppure, qualcosa costrinse Law a rimuovere quel sorriso che, piano piano, aveva fatto capolino sul suo volto, sentendosi sollevato dalle parole di Rufy, da quel suo fantasticare in un modo che sembrava lo facesse canticchiare.
«Non mi ritirerò mai da uno scontro, sorriderò sempre, proprio come piaceva tanto ad Ace e Sabo, e farò di tutto per restare in vita. Così, poco a poco, mi dimenticherò anche di Torao… spero» S’interruppe, costatando che stava cominciando a vibrare tutto, non solo nella voce. «Però, sai… Piangerò.»
Trafalgar aveva sgranato gli occhi grigi, tentando di scostarsi e di fissarsi su Rufy, che teneva le dita ancora intrecciate tra di loro e il mento al di sopra, impedendogli qualsiasi movimento. 
Parlava ancora, flebilmente, mentre l’altro toglieva i gomiti dalle sue ginocchia, messe in modo tale da simulare due braccioli. «Probabilmente… quando mi sveglierò la mattina, o prima di andare a letto la sera… vendendo che tu non sei qui, io…»
Law era riuscito finalmente a districarsi tra quelle braccia, voltando appena il capo all’indietro, ancora mezzo disteso.
E quello che vide lo privò completamente del respiro, sebbene la bocca fosse semi aperta.
Se prima credeva di aver spalancato gli occhi, adesso non sapeva neanche quello che stessero facendo, che forma avessero assunto, se fossero ancora grigi o un miscuglio col nero e il bianco, se fossero davvero aperti abbastanza da svelare quello che sentiva dentro.
Non lo sapeva più. Non lo sapeva quello che fosse giusto fare in certi casi. 
Perché era da anni che nessuno faceva una cosa del genere per lui, e l’ultima persona era per giunta morta per una cosa così sciocca.
Rufy era sopra di lui, era a un palmo da lui.
Gli stava sorridendo. E stava piangendo.
Una figura che, a guardarla, si rischiava di ricevere un pugno in pieno stomaco.
Era un paradosso. Non esisteva.
Nessuno era in grado di piangere in maniera tanto silenziosa, di ostentare un sorriso nonostante dentro ci si stesse logorando. 
Nessuno… Dio mio, chi diavolo è in grado di riuscirci?
«Piangerò un sacco, l’ammetto!» Le lacrime non colavano lungo le sue guance, ma erano là, aspettavano solo di strabordare, e intanto inumidivano gli angoli degli occhi.
E quel sorriso c’era, c’era sempre, quel sorriso che scaldava gli animi di tutti, che mandava messaggi di speranza, che diceva che non aveva importanza se avesse pianto un po’.
Fu una questione di un attimo, Law si mise ritto, girandosi verso Rufy e prendendolo per le spalle, scuotendolo: «Mugiwara-ya!»
Perché lo stava facendo?
Che cosa era accaduto al freddo e calcolatore Trafalgar Law?
Come mai non riusciva a sostenere lo sguardo perplesso di quel moccioso?
Beh… era cambiato. Non era impazzito, semplicemente gli occhi color ebano di Rufy ricolmi di lacrime avevano fatto scattare qualcosa in Trafalgar.
Com’era scattato qualcosa quando sentì Corazon piangere per lui. Com’era scattato qualcosa quando vide la sua vita di sempre andare in pezzi insieme alle macerie della Città Bianca.
Non era così che doveva andare.
Rufy non doveva piangere per lui, se l’avesse fatto sarebbe morto. Non fisicamente, ma interiormente sì.
Voleva parlare, ma le parole gli rimanevano in gola, un grumo che gli bloccava le corde vocali. Chiuse la mano a pugno, avvertendo ancora la pressione sul corpicino di quel ragazzo. Qualsiasi cosa avrebbe detto, ne era convinto, non sarebbe servita ad asciugare quelle lacrime.
Il parassita era scomparso, sostituito da qualcosa che ardeva dentro Law: una scintilla, la luce di una fiamma, un fuoco. Scoppiettava, e tutte le bugie, tutte le finzioni svanivano, come la cenere trasportata dal vento, impedendo così che il fuoco fosse soppresso.
Le fiamme, Law le percepiva addosso, percorrevano le linee scure dei suoi tatuaggi, allo stesso modo di come le aveva percorse Rufy quella sera, velocemente ma con titubanza, quasi per paura che venissero via.
Le lingue di quel fuoco e l’indice di Rufy avevano compiuto lo stesso movimento, e Law rimandò la mente a mezz’ora prima, a quando fu sopra Rufy, a quando ansimò per l’affanno, il dito di lui che non accennava ad arrestare la sua corsa, la sua fronte che si era posata su quella di Rufy – Dio, Dio, quanto avrebbero preferito fermare il tempo pur di restare così? Quanto?
Maledetta la sua patetica sensibilità, la stessa sensibilità che gli avrebbe fatto dire l’ennesima bugia, l’ennesima finzione. In un istante, la muraglia di sadismo, cattiveria, indifferenza che si era creato, era crollata come un castello di cartapesta, non potendo contrastare la potenza di quel fuoco.
La miccia si era accesa ancora più, la luce era diventata più vivida, e tutto, tutto del vecchio Trafalgar Law sembrava essere scomparso in soli pochi secondi. Nei pochi secondi in cui le immagini di Rufy si accavallavano nella sua mente: le guance arrosate di Rufy che si gonfiavano leggermente, mentre sorrideva sotto la neve; Rufy che gli aveva posato una mano sulla spalla, ridendo, felice della loro alleanza; Rufy che sorrideva e basta, a Sabaody, infischiandosene delle flotte dei nemici che lo circondavano. In quei secondi, solo una consapevolezza si faceva strada in Law, la stessa consapevolezza che dava una certezza alla domanda di Rufy di poco prima.
Sì, detestava l’idea di veder quel pazzo di un pirata piangere.
Sì, amava quel suo dannato sorriso, che gli faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi.
Sì… amava quel suo viso sorridente, in particolare se era rivolto a lui.
Era stanco della gente che soffriva per lui. Era stanco di doversi preoccupare di non dimenticare il sorriso di Lamy, dei suoi genitori, di Cora…
Era stanco delle menzogne. Ma avrebbe mentito di nuovo, pur di rivedere quel sorriso, pur di catturare l’immagine di Rufy e di conservarla in quel cuore che, al prezzo della vita, Cora-san gli aveva donato.
Si sarebbe rivelata come una cosa egoistica, benché una piccola parte di lui s’illudesse che una promessa simile potesse essere fattibile.
Rufy l’avrebbe odiato, del resto anche lui era stanco della gente che faceva promesse impossibili da mantenere; e, allo stesso tempo, Law era sicuro che, preservando il ricordo delle sue parole, Rufy avrebbe superato tutto più facilmente. 
Ce l’avrebbe fatta. E non c’era neppure bisogno di una conferma.  
«Io…» Prese un bel respiro, i polmoni pieni di aria, questa che aspettava di uscire con un grido, un urlo, con le parole di una promessa che, probabilmente, non sarebbe stata mantenuta. « Io, per nessuna ragione al mondo…»
Le onde del mare scrosciarono, e Rufy ebbe il presentimento di aver sentito male.
No, non aveva sentito male. Aveva sentito benissimo. I restanti suoni non esistevano, esisteva solo la voce calda di Torao.
Quelle parole… le aveva sentite. Aveva sgranato i suoi grandi occhi neri.
E le gocce di lacrime che erano rimaste a bagnargli gli angoli degli occhi, si asciugarono completamente. 

Dressrosa. Presente. 

Ansima Law, le immagini di ieri sera che, senza alcun preavviso, erano riaffiorate prepotentemente. Le orecchie gli rimbombano per via delle precedenti esplosioni, ma poco importa.
Non si volta indietro, non si distrae per osservare se i suoi alleati si stanno allontanando.
Staranno bene, la nave sarà al sicuro. 
Come lo saranno Robin e Usopp, che lo avevano accompagnato fino a lì, come lo saranno tutti gli altri.
E come lo sarà Rufy.
Law è troppo concentrato, la sua forza che si va man mano affievolendo per via delle Room che aveva creato poco prima.
Doflamingo scende in picchiata sul ponte che collega Dressrosa a Green Bit, sogghignando come sua abitudine. 
«Per quale motivo hai permesso a metà della ciurma di Cappello di Paglia di fuggire?» Un sorriso sadico si allarga sul suo volto, mentre si passa la lingua sulle labbra. «C’è ancora l’altra metà, se li usassi come ostaggi non esiterebbero a cedermi Caesar, lo sai vero?» 
Law stinge appena gli occhi, prima di parlare con un ennesimo sospiro. «Vuoi far parte anche tu di quelli che si sono pentiti di averli sottovalutati?»
Il membro principale della famiglia Donquixote alza un sopracciglio, senza scomporre minimamente la sua aria divertita.
«Sfortunatamente, la mia alleanza con la ciurma di Cappello di Paglia finisce qui!» esclama Law, parlando nel suo solito modo pacato, piano, in modo che le sue parole sembrino quasi cristalline. 
Doflamingo appare lievemente sorpreso. «Davvero?»
«Fin dal primo momento, li ho usati per interrompere la produzione di Smile. Era questo il mio vero obiettivo!» S’interrompe, pronto già a sputare fuori le parole che si porta dentro da anni. «Così, anche se dovessi morire in questo scontro, tu dovresti comunque affrontare l’ira di Kaido!»
Scoppia a ridere, Doflamingo, e incrocia le braccia, piacevolmente colpito dalla strategia di colui che, a suo tempo, fu un suo subordinato, inclinando il capo. «Capisco... Quindi non ti sei solo preparato la tomba, ma ti ci sei già steso dentro!»
A quelle parole, Law serra le labbra, in un movimento appena visibile, ma che sente come un dolore immenso dentro di sé.
Doflamingo ha ragione, e lo sa. Morirà.
Chiude appena gli occhi, giusto un battito, giusto il tempo di riassorbire l’immagine di Rufy come una scarica di adrenalina. 
«Per quanto mi piacerebbe vedere il caos mondiale causato dalla tua morte, mettere fine a quello che successe tredici anni fa e più importante… Joker!»
Urla, Law. 
Urla, come aveva urlato quella sera davanti all’incendio dell’ospedale; urla, come aveva urlato sull’isola Minion mentre si allontanava; urla, come aveva urlato quella fatidica promessa, e si rivede lì, seduto su quel letto, con gli occhi di Rufy che si andavano spalancando in una frazione di secondo.
Ha fatto una promessa, una promessa che sa di non poter mantenere, eppure non se ne pente. 
Mentre afferra l’elsa, deciso a portare avanti la volontà del suo salvatore, Law sente che, nel profondo del suo animo, la luce che si era accesa la sera precedente è ancora lì.
Quel fuoco che gli dice che, sì, vuole anche tornare da Rufy. 
Quel fuoco… brucia ancora. 
E, d’ora in avanti, sarà impossibile estinguerlo. 



Parla l’autrice (questa storia trasuda OOC, non trovate?):
Ebbene sì, per adesso nella mia mente bazzicano solo idee su storie LawLu…
Oh, in fondo qualcuno deve pur riempire il fandom!
(che povera pazza che sono…)
Che dire, in questa storia ho praticamente messo tutto il mio animo per renderla, per lo meno, decente e fedele alla doujinshi a cui si ispira. Sì, vi sembra che sia solo colpa mia se sono così fuori di testa? uu
Ho fatto in modo di seguire perfettamente la doujinshi, riscrivendo persino i dialoghi tradotti e aggiungendo davvero pochissimo di mio pugno. Andare a cercarla, è davvero stupenda, oltre ad essere disegnata divinamente: si chiama “Light my fire”, e la traduttrice si chiama suchira su Tumblr.
L’ultima parte – che ho preferito scrivere al presente, come se Law stesse ricordando quello che è avvenuto la sera prima – riprende i dialoghi e gli avvenimenti del capitolo 724; tutto il resto, teoricamente, è ambientato durante la sera prima dello sbarco a Dressrosa. 
Per sicurezza, ho messo anche l’avvertimento “What if?”, anche se dalle scan non si evince che questa cosa non possa essere avvenuta, ma è solo una mia fantasia opinione personale.
Non inserisco l’avvertimento OOC, poiché lo scopo della storia era proprio quello di far vedere l’umanità di Law, non di fargli sprizzare amore come nell’altra storia :’)
Se ve lo stesse chiedendo, la promessa è lasciata volutamente in sospeso, sta al lettore stesso intuire quale sia (e, credetemi, non ci vuole un genio per capirla se ci sono arrivata persino io…)
Le recensioni e le eventuali critiche sono sempre gradite: sono particolarmente soddisfatta di questa storia, lo confesso, e sono curiosa di sapere cosa, invece, ne pensate voi.
Infine, grazie di sopportare i miei sfoghi su questa coppia e la mia conseguente voglia di spupazzarli *^* (?)
L’antro della pazzia tornerà a farsi sentire, se non mi sotterrano prima :’D
_Lady di inchiostro_
  
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