WE ARE OUT FOR PROMPT - WINTER IS COMING WEEK 31 AGOSTO - 6 SETTEMBRE
Titolo: a rose by any other name
Personaggi: Fem!Cesare Borgia; Juan Borgia; Rodrigo Borgia; Lucrezia Borgia [+ altri, menzionati]. Accenni di Rodrigo BorgiaGiulia Farnese e Fem!Cesare BorgiaMiguel de Corella.
Prompt © Ornella Della Rovere: Cesare è una lei, figlia maggiore della nidiata che Rodrigo ha avuto da Vannozza (il resto della famiglia è canon, invece). Sposata, con Giovanni Sforza, a differenza della sorella più piccola, Lucrezia, per cui però, dopo vari pretendenti, sono appena iniziate le trattative discrete con la casa d'Aragona (siamo fra la seconda parte del 1496 e la prima metà del 1497). Juan è tornato a Roma, e con lui c'è anche Miguel, compagno fidato. Esplora la vita, i pensieri e le relazioni di CesarA. Non per forza qualcosa di romantico, o se sì, allora, lascio a te la scelta.
Note: Il titolo è una citazione da "Romeo e Giulietta" . In questo universo alternativo, Cesare prende il nome della sorella più giovane di Rodrigo, Tecla, una poetessa rinomata e musa di un cantore spagnolo, morta in giovane età senza figli.
[Per correttezza, scrivo che è un poco riveduta dall'originale, nonostante sia rimasta perlopiù identica. Ho solo cambiato qualche parola e l'ordine di un passaggio o due, per rendere il tutto più scorrevole.]
OoOoOoOoOoO
Se fosse nata uomo, il suo nome sarebbe stato Cesare.
Lungamente si
era soffermata a riflettere sull’autore del De Bello Gallico: un
uomo che aveva vinto tutto e tutto aveva
perduto, tradito persino dagli affetti più cari. Allo stesso
tempo, non aveva
forse ispirato le gesta di grandi che ne avevano seguito
l’exemplum con reverenza pari a quella riservata al Figlio di
Dio?
Sarebbe stato un nome difficile di cui essere all’altezza,
forse persino un omen – perché era certa di avere dentro di sé la grandezza. Le
palpitava nel corpo assieme al sangue della sua famiglia, che dai campi di
Spagna si era sollevata e innalzata al Cielo della città di Dio.
Ahilei, quello che di fatto portava era un fardello ben più
leggero, ereditato dalla sorella preferita di Sua Santità. Una poetessa morta
giovane, a cui un tempo troppo esiguo era stato concesso per diventare qualcosa
di più della musa di un poeta di corte, per mettere su carta più di pochi
versi.
Una poetessa. Uno dei suoi maestri aveva detto che avrebbe
potuto diventarlo, una volta. Aveva detto, ad esser più puntigliosi, che sarebbe
potuta diventare una retore, un’avvocata, una nuova Ipazia – invece, a
vent’anni, per tutti era la sposa sterile di un traditore della
loro causa assente da mesi, troppo pusillanime per essere punito dalla sua stessa famiglia.
Nonché cardinal nepote di Sua Santità il Papa; se non di nome di fatto, almeno quanto Cesare era stato il primo imperatore di Roma.
Ad ogni modo, pensò, stringendosi nello scialle e
abbandonando il libriccino firmato dal mancato omonimo accanto a sé sul sedile
di pietra, non sarebbe stata lei a lasciare l'Urbe col bastone del comando nella
mano sinistra[1] e le redini di un castrone da guerra nella destra all’ombra dello
stendardo di Santa Romana Chiesa.
No – le labbra si tirarono in una smorfia. Di quello
stendardo, lei non aveva cucito che lo stemma di famiglia sulla stoffa, e l’unica truppa al
proprio comando era quella delle dame sue e di Lucrezia, ciascuna con dita più
propense al ricamo di quanto le proprie sarebbero state mai.
L’ago le era buono solo per cucire assieme lembi di pelle
lacerata con punti sottili, precisi e equidistanti fra loro, per i quali tante
volte s’era guadagnata l’ammirazione di Torrella[2] e le occhiate di rassegnata
pazienza della cugina Adriana.
Persino Juan s’era rivolto a lei[3], consapevole che se avesse
chiesto di un cerusico per mettere una toppa alle conseguenze dell’ennesima
scaramuccia, la sollecitudine del loro Santo Padre si sarebbe mutata in una
cappa soffocante di attenzioni eccessive anche per lui, che dell’affetto di
Sua Santità si nutriva come del pane quotidiano.
Ciascuno aveva un posto prescelto attorno al trono pontificio.
Lucrezia, dolce quanto il biondo dei suoi capelli, ai piedi
del Papa, sempre pronta per un bacio affettuoso, per una carezza; Jofré un poco
discosto, un principe paggetto che correva dietro alla perla di Napoli sua
sposa; sua madre dietro, protetta dal cono d’ombra della rispettabilità, una
posizione che, eccezione tra il resto, Giulia Fregnese non le aveva mai invidiato.
E poi Juan, alla destra del padre con gli onori di un
principe regnante[4]; e un principe regnante non poteva che partire per la sua prima
campagna splendente quanto il suo stendardo.
Rabbrividì leggermente al refolo d’aria fredda provocata dal
veloce passaggio di uno dei camerieri. L’intero Vaticano doveva star
fermentando di vita, dalle cucine ai piani più infimi sino alla camera papale,
dove suo padre doveva già star levando preghiere ferventi alla Vergine per la
buona riuscita della giornata.
Poco caritatevole, Tecla si domandò come dovesse sentirsi a
invocare l’intercessione divina di Loro Donna quando quella che Le prestava il volto nell'immagine sul muro del suo
talamo aveva le sembianze della mortale che lo aveva lasciato.
Strinse le labbra.
Aveva sempre
considerato la Fregnese poco diversa da una
sanguisuga per salassi sotto la patina di ninnolo decorativo. E lo
aveva detto
chiaro e tondo, senza mordersi la lingua come faceva di solito -
l’eccezionale
padre che divideva con la cristianità era affatto diverso da
quella mosca che
si acchiappava col miele, non con l’aceto. L’affettuosa
indulgenza che pareva
riservare alle sue lamentele sull'argomento faceva salire il rosso alle
gote di Tecla pure dopo così tanto tempo, allorché
della Fregnese rimaneva altro, in Vaticano, se non uno scarabocchio di
Pinturicchio e il fratello cardinale in gonnella.
“Volete fare di me il vostro cardinale, eppure stimate il
capriccio geloso di una bambina la mia opinione di donna. Fossi nata uomo, non
avrei dovuto subire l’onta della vostra condiscendenza!”, aveva sbottato una
volta che la questione s’era ingigantita, gli animi infiammati e solo
l’intercessione della sua dolce Lucrezia era riuscita a lenire il bruciore della ferita come
un balsamo calmante. “Fossi nata uomo, comunque non avresti mosso passo oltre
la mia ombra!”[5], era stata la risposta irata del Santo Padre, di solito molle
come un panetto di burro con le figlie (irremovibile solo se si trattava di muoverle come
regine sulla scacchiera politica, si corresse, amara. Ma in
quello era più democratico della Roma di età repubblicana).
Ed era vero, riconosceva ora col senno di poi, con tanta acqua passata sotto
i ponti. Ci fosse stato un membro virile al sicuro nei calzoncini da paggio[6] che
indossava sotto il semplice guarnello morello[7], il massimo a cui avrebbe potuto
aspirare sarebbe stata la porpora. Ah, non era nelle sue corde accontentarsi,
eppure era certa che se la sarebbe fatta bastare: in un’occasione propizia
quanto quella che gli Orsini avevano offerto a Juan, col loro capofamiglia
imprigionato a Napoli, anche un cardinale avrebbe potuto portare il gonfalone
della Chiesa alla testa di un esercito.
Non nel proprio nome, certo, ma avrebbe potuto essere
un Cesare, comunque. Avrebbe potuto essere Augusto, e non era forse Cesare anch’egli?
In ogni caso, gli antichi scrittori avevano ragione sulla dannosità
dell’ozio.
Si alzò, lasciando che il tessuto di gonna e sottana
coprissero ogni indizio delle braghette, e posò i palmi sul vetro della
finestra, allargando le dita e avvicinando il viso per guardare giù, nel
cortiletto interno.
Di per sé, essere donna non era poi un gran male. Il maggior pericolo, per una che sapesse il fatto proprio, era quello del parto, qualcosa che non la toccava, per ragioni politiche se non per preferenza. Non le spiacevano i fanciulli, ma non ci sarebbero stati piccoli Borgia in cui la loro stirpe mescolasse il sangue a quello degli Sforza, scipito dall’umidità del Po; una stirpe sempre pronta a giudicare i vincoli di affetto che avvolgevano strettamente la loro familia, a invocare incesto e pazzia.
Sorrise.
Povero ingenuo padre,
che faceva servire fasci di lattuga al povero Sforzino e, a lei, menta[8] in ogni
bevanda.
Non erano certo le superstizioni greche a fare in modo che
il suo grembo restasse vuoto, ma le spugnette[9] che la sua mamma, il cui senso
pratico era l’ancora in qualunque tempesta, le aveva insegnato a spingere
tanto profondamente tra le cosce che alcune erano sparite dentro di lei, per
quella via dove il seme dell’uomo attecchiva e dava la vita.
Non era certo un problema, essere sterile per questo marito, ma il prossimo?
All’idea corrugò la fronte. Perché vi sarebbe stato un
prossimo, ora che Milano s’era rivelata per la serpe[10] che non nascondeva poi molto di
essere. Annuì tra sé: carpe diem. Poteva riuscire a convincere suo padre a offrirle un
marito degno. Magari un vedovo che non abbisognasse di figli per riempire le
mura di casa, ma della sorella del condottiero che aveva annichilito il
centenario potere degli Orsini.
Ed era impossibile che Juan non riuscisse.
Eccolo sulla
piazzetta, gonfio d’orgoglio più delle maniche a sbuffo che gli facevano apparire
le braccia robuste come tronchi anche a quella distanza, impettito come un
galletto che attendeva l’alba per ricordare all'ecumene della propria tronfia esistenza.
Neppure l’amore paterno era stato tanto cieco da mandarlo solo a quell’impresa,
tuttavia: Guidobaldo da Montefeltro sarebbe stato la sua ombra, e quanto
malamente doveva sopportarlo - Tecla avvertì qualcosa di simile ad un moto di
partecipazione, per quel secondo che Juan avrebbe sacrificato sull’altare della
propria vanità senza battere ciglio.
Mh. Colonna,
Gonzaga e Lunate avrebbero avuto il loro ben
daffare a imbrigliare il vitello recalcitrante con la croce del
gonfaloniere al
collo, ma l’unione faceva la forza, si diceva; e inoltre,
ragionò, superato Bracciano e sconfitti i d’Alviano,
la strada sarebbe stata tutta in discesa.
Ecco cosa avrebbe desiderato, perché sapeva desiderare con moderazione volendoselo imporre: un marito come Bartolomeo. Il più brutto d’Italia, ma in virtù del valore che riconosceva alla moglie, avrebbe potuto perdonargli anche quello ad occhi chiusi e a mani giunte, lei che in Dio neppure credeva.
Per i sollazzi, difficilmente le sarebbero mancati gli amanti.
Perché anche per una donna c’era potere.
Uscita dalla malinconia della giovinezza, dai rimpianti per quanto non aveva avuto era arrivata a comprendere quella verità semplice. C'era potere, se il marito era abbastanza grande, o abbastanza fesso.
Bartolomea
Orsini, Caterina
Sforza, che non era molto più grande di lei, non le aveva forse
benedette la Fortuna? Pure la sua piccola Lucrezia presto avrebbe
imparato a far danzare
il suo Aragona sul palmo della mano, anche se l’idea che portasse
una fede al dito, i
capelli raccolti sotto il velo e che giacesse con un uomo, ancora le
faceva
specie. Conoscendolo, e Tecla lo aveva conosciuto, non poteva che
finire a quel modo: era gallina quanto la
sorella era volpe.
Una volpe che aveva fatto presto a prendere il galletto per il collo, pensò senza meraviglia tra sé, lo sguardo ancora fisso su Juan che gesticolava animato, l'armatura già sfavillante sotto la luce diretta dell’alba nascente.
Non invitava
certo a distogliere lo sguardo, quella vista, ma comunque Tecla non avrebbe guardato
più in là.
Sapeva che quello
doveva esser nei paraggi, attaccato
com’era alle natiche di Juan – alcuni dicevano per il
membro, e personalmente
non se ne sarebbe neanche stupita. Il solo pensiero di lui le
piegò le labbra formando solchi profondi, del genere che scavava
rughe.
Più importante di un Guidobaldo, di un Fabrizio, di un
Gonzaga, finché de Coreglia fosse stato nei paraggi, Juan non poteva fallire. Per un
istante le sfiorò la mente il pensiero che sarebbero potuti morire entrambi, e
le dita si accartocciarono su se stesse in due pugni premuti contro il vetro.
Ma no, si corresse dopo un attimo sospeso, distendendole una ad una. Sarebbero tornati a casa da lei, sani e salvi.
Gli scarafaggi non morivano mai.
OoOoOoOoOoO
GLOSSARIO:
[1]: Investito della carica di gonfaloniere della Chiesa, Juan ricevette lo stendardo e il bastone del comando dal Santo Padre alla fine di ottobre del 1496.
[2]: Gaspare Torella, medico personale di Cesare che in seguito gli dedicherà il suo trattato sulla sifilide.
[3]: Non era strano che fossero le stesse donne della famiglia, per quanto altolocata, a curare i parenti più stretti. Lucrezia, più tardi, si prenderà lei stessa cura del marito ammalato durante la convalescenza (addirittura cucinando per lui), assieme alla cognata, di lui sorella, Sancha.
[4]: I principi consacrati solevano sedere alla destra del trono papale.
[5]: Una citazione dalla miniserie inglese dell'81 "The Borgias".
[6]: Viene ripresa la moda introdotta, durante il matrimonio ferrarese, da Lucrezia per le donne della sua corte di indossare calzoncini da paggio sotto gli abiti femminili.
[7]: Il guarnello è una veste semplice. Il colore morello è di idenfiticazione incerta (probabilmente un marrone scuro o con sfumature prugna), di punta nel guardaroba di Lucrezia Borgia assieme al giallooro.
[8]: Nella medicina greca, i cui dettami erano ancora seguiti tra Medievo e Rinascimento, lattuga e menta erano cibi che prevenivano rispettivamente la potenza sessuale e il concepimento. Allo stesso tempo, la menta era la pianta delle cortigiane greche, che la usavano per ingentilire gli odori corporei. E' dunque allo stesso tempo pianta di sterilità e seduzione.
[9]: Un metodo anticoncezionale tipico del Rinascimento era quello di spingere spugnette fino al collo dell'utero, per prevenire il passaggio del seme.
[10]: Sullo stemma della famiglia Sforza campeggia la vipera ereditata da quello viscontesco, la precedente casata regnante con cui gli Sforza si erano uniti in matrimonio.