Ariecchime qua con l’ormai settima parte di
questa storia senza capo né coda, perché io proprio non so cosa sia la
vergogna xD
Stavolta é presente una piccola
parte introspettiva sulle paturnie del Kaiser di Germania, che si riallaccia
agli eventi della storia originale, piú un paio di
altri paragrafetti forse un po’ pallosi, ma non
temete, le cavolate riprenderanno in men che non si dica. E come
potrebbe essere diversamente.
• CAPITOLO 6 – Mine vaganti e
suicidi verbali.
I tiri di Kaltz
di certo non smerigliavano i guanti dei portieri, ma erano ugualmente
insidiosi.
Neanche finito di constatarlo che per poco Genzō
non se ne fece passare uno in mezzo alle mani; lo paró
all’ultimo soltanto grazie alla sua prontezza di riflessi e perché no, grazie
anche ad un pizzico di autentico Fattore C. Peró
cosí non andava proprio. Stava peccando di superbia,
non doveva sottovalutare l’amico solo perché non era in grado di tramutare i
palloni in supernove infuocate come riusciva a fare Schneider. Stecchino in campo era imprevedibile e con certe
giocate di fino persino potenzialmente pericoloso, ormai avrebbe
dovuto saperlo.
-Uuuh, che pelo- ululó
lui, squadrandolo con la sua tipica espressione sorniona e le mani sui fianchi
–hai avuto culo stavolta,
eh? C’ero vicino tanto cosí.-
-E va bene, ammetto che non mi aspettavo il pallonetto, contento? Fai poco lo sborone, intanto mica ci sei riuscito a segnarmi- sogghignó Genzō rinviandogli
la palla, che Kaltz stoppó
di petto esclamando -Fai poco lo sborone tu, vedremo se non ti bucheró almeno
una volta!-
Era giá
da un’oretta e mezza che i due consorti si stavano cimentando nei rigori
imposti dal capitano, che nel frattempo si allenava con il resto della squadra
nell’altra metá campo. Il sottile dubbio che
il Kaiser si fosse voluto bellamente liberare di loro gli
si era insinuato piú di una volta nel corso di quella
mattina; benché lo nascondesse egregiamente, era probabile che anche l’infaticabile Schneider
fosse in realtà piuttosto ammosciato dalla serata appena trascorsa. Non aveva
bevuto, ok, ma neanche lui a lungo
andare avrebbe retto all’allenamento senza cali di prestazione,
considerati gli strascichi dell’impegnativo pomeriggio dell’amichevole e le quattro
ore scarse di sonno alle spalle. E poi, a pensarci bene, anche nella partita
contro i suoi connazionali gli era sembrato in piú di un’occasione che avesse la testa da un’altra parte,
nonostante la solita figura eccelsa che aveva fatto. Genzō
conosceva bene i suoi scazzi silenti, e quello aveva
tutta l’aria di esserlo.
La sua perspicacia come sempre non
sbagliava, perché in effetti il capitano era
impensierito da qualcosa, e lo stress fisico non era che uno soltanto dei motivi
che lo avevano spinto a spedirli ai rigori per non essere costretto a doverseli
sorbire.
Quella mattina si era sentito
fiacco ancor prima di cominciare, benché l’avesse dissimulato benissimo e praticamente nessuno se ne fosse accorto. Al
pensiero che avrebbe dovuto sopportare la logorrea di Kaltz
e la boria di Genzō si era sentito mancare le
forze; per quanto fossero amici, c’erano momenti in cui non li tollerava e quel
giorno, per tutto un insieme di ragioni, era uno di quelli.
Quando qualcosa lo turbava non era
certo avvezzo a confidarsi con qualcuno, anzi, in quei frangenti riduceva al
minimo indispensabile i rapporti umani preferendo isolarsi a rimuginare in
santa pace, soprattutto se aveva un tarlo fastidioso come quello che lo
preoccupava da un po’: i suoi erano in rotta e lui, essendo un tantino in
apprensione per la sua situazione familiare, non si sentiva di avere intorno nessun rompicoglioni.
La sera prima aveva accettato di
uscire con loro giusto perché non voleva restare in casa con sua madre che,
esattamente come il figlio, si crucciava in segreto per ció
che stavano passando, cercando al contempo di non fargli pesare troppo quella
situazione. Solo che lui non era un cretino e capiva bene
quanto lei ne soffrisse, ma sapendo che non ci sarebbe stato modo di instaurare
un qualsivoglia tipo di dialogo, aveva preferito cambiare aria e cercare di
distrarsi un po’. E grazie a quel gruppo di
squinternati c’era riuscito, per qualche ora si era svagato e non aveva pensato
affatto alle proprie vicissitudini.
Era tassativo seguitare a comportarsi
come il capitano di sempre perché solo cosí non gli
avrebbero fatto domande indiscrete, e finora neanche quei due beoti si erano
impicciati troppo, evidentemente se l’era costruita proprio bene la maschera
che indossava. Peró, anche se aveva sempre potuto
contare sulla sua recitazione impeccabile, quella mattina si sentiva forse un
po’ piú vulnerabile del solito a causa della
stanchezza fisica ed emotiva che cercava in tutti i modi di celare da giorni, e
temeva che potesse trapelare qualcosa agli occhi di chi lo conosceva meglio
degli altri.
Cosí, era stato ben felice di cogliere
la palla al balzo quando li aveva sgamati a cazzeggiare senza ritegno, allontanandoli da sé quel tanto
che bastava per non essere scrutato dagli occhi indagatori del portiere e non udire
il chiacchiericcio inesauribile di Kaltz, capace di
blaterare a vanvera anche mentre tirava, correva, dribblava, rimetteva,
passava…insomma, sempre e comunque.
E difatti era questo l’unico sottofondo che si udiva nella metá campo del gatto e la volpe. Genzō,
non potendone piú, aveva deciso di spremerlo come un
limone, cosí almeno se avesse esaurito il fiato se ne sarebbe stato zitto.
-Senti, ma non riesci proprio a
concentrarti anche senza parlare in continuazione?- Gli disse
per provocarlo, pochi istanti prima di tuffarsi per parare l’ennesimo tiro. Ad
onor del vero piú che un’esclamazione si era udito
solo un flebile rantolo, perché gli costava fatica parlare e doveva sforzare la
voce per farsi sentire, ma mai e poi mai avrebbe rinunciato a mettere in atto
la sua raffinata strategia di intimidazione verbale.
-Stai forse insinuando che ti dó fastidio?- Rispose Hermann che ci aveva sentito benissimo, preparandosi a
scagliare un nuovo rigore.
-Macché, affatto. E’ un piacere
ascoltare le tue facezie perché sono soavi componimenti che arrivano dritti al
cervello, peggio del trapano del dentista.- Ghignó
l’altro, sistemandosi la visiera del cappello col suo solito fare strafottente.
-Questa non me la dovevi dire, sfinge del cazzo. Occhio
che ti segno per carica sul portiere, e chissefrega se è fallo- ribatté il centrocampista sputando
lo stecchino con aria minacciosa.
-Sai che paura. Sarebbe proprio ora
che mi mostrassi tutta la tua teutonica grinta, perché fino adesso non ne ho
visto neanche l’ombra.- Era sicuro che avrebbe colpito
nel segno con questa tagliente e mefistofelica uscita, perfettamente nel suo
stile. Man mano che proseguiva negli allenamenti si stava caricando sempre piú, e solitamente piú era carico
lui piú si spompavano gli
avversari; ergo, un Hermann sfiancato se ne sarebbe
stato buono e zitto ad usare il poco fiato rimasto solo per tirare e basta,
senza sproloquiare inutilmente.
Peccato peró
che alla sua stoccata l’amico rispose sganasciandosi con una bella risata.
-Dai, ma ti ascolti quando parli? Proprio
non riesco a stare serio, con quel rantolo di voce che ti ritrovi sembri sul
punto di tirare le cuoia, vuoi fare lo smargiasso ma non sei credibile neanche
un po’!- E come dargli torto, pensó il portiere
infastidito. Forse la sua comprovata tattica sovversiva questa volta non avrebbe sortito l’effetto sperato. Ma
possibile che a lui non venisse mai un fottutissimo
abbassamento di voce?
Leggermente infumanato
per l’ineluttabile fallimento del suo piano, effettuó
per vendicarsi una potente rimessa che sfrecció a
pochi centimetri dal viso di Kaltz, il quale sobbalzó inorridito e gridó, portandosi
le mani sulle guance: -Ohi! Hai rischiato di sfigurare il mio faccino perfetto,
razza di idiota!-
-Ah, per quello non c’era
pericolo, scimmia- ribatté il portiere, sorridendo sarcastico –semmai hai corso il rischio di diventare bello.-
-Ma senti questo con che coraggio…- borbottó Stecchino, metá serio e metá divertito, mentre si massaggiava il “bel faccino”, la
cui scimmiesca perfezione era stata messa seriamente a repentaglio. Genzō doveva riconoscerlo, l’amico era capace di non
prendersi mai troppo sul serio e se c’era un lato del suo carattere che
apprezzava era proprio quella spiccata auto-ironia, cosa che
non era certo da tutti.
-Oh, mi viene in
mente- fece lui, senza smettere di carezzarsi la mascella squadrata –non
ti ho ancora ringraziato per ieri sera, finocchio. Vuoi che ti esprima la mia
gratitudine con un bacino?-
Genzō rabbrividì all’idea ed esclamó, cadendo dalle nuvole:- E
per cosa dovresti ringraziarmi?-
Kaltz lo guardó lievemente perplesso e replicó,
gingillandosi fra i denti il nuovo stecchino che aveva appena pescato dalle
tasche: -Bé, hai pagato per tutti, no? Vabbé che ero piuttosto cotto, ma questo me lo ricordo.-
Il portiere si prese il mento fra
le dita, pensieroso. Si spremette un po’ le meningi e finalmente gli venne in
mente che sí, effettivamente le cose stavano come diceva
lui.
-Non hai bisogno di ringraziare,
fa niente- disse infine, alzando le spalle –non è stato un problema.- E non lo era veramente, in fondo per lui i soldi non avevano mai
costituito una fonte di preoccupazione. Per meglio dire, in altre condizioni
mentali si sarebbe limitato a pagare solo la sua parte o al massimo quella dei
due imbecilli, ma l’essersi ricordato di aver pareggiato i conti anche agli
altri non lo scosse piú di tanto. Ripensó
un attimo al delirante festino e ad una delle parti che aveva preferito in
assoluto, ovvero quando aveva sfogato le sue frustrazioni elaborando quello
scherzo malefico ai danni del povero Ishizaki; al
pensiero sghignazzó fra sé e sé, ma il riso gli morí in gola quando si ricordó anche di un altro piccolo, tragico
particolare.
-Senti, Hermann…ho pagato proprio per tutti tutti?-
Gli chiese con voce tremula, quasi temendo la risposta.
-Che domanda
deficiente, ovvio che sí…anche per il tuo amico
preferito, se è questo che ti stai chiedendo.-
Il suo cuore mancó
un battito.
Nel frattempo, il neo-capitano in
carica Matsuyama aveva proprio toccato il fondo. Del
barattolo di Nutella che si stava compulsivamente
sbafando, nel tentativo di arginare la crisi di nostalgia amorosa che non dava
segni di miglioramento, nonostante ci avesse dormito su e ora fosse
completamente sobrio.
Era seduto al tavolo della
colazione con i compagni, che oramai erano scesi quasi tutti, e ascoltava
vagamente tediato i loro discorsi. La depressione che gli era
calata sul groppone la sera prima, circa da quando aveva salutato Yoshiko, pareva non volerne sapere di andarsene. Gli
mancava indicibilmente, e in quel momento si sentiva quasi un alieno in mezzo
agli amici, che sembravano distanti anni luce dal
poter comprendere anche solo la metá di quello che
provava.
D’accordo, non era l’unico ad
avere la ragazza, ma non si poteva neanche fare un paragone con gli altri due
elementi in questione.
Tsubasa e Sanae,
l’eterna pseudo-coppia, si barcamenavano in una
situazione quanto mai contorta e sconclusionata, benché risultasse
lampante agli occhi di tutti che la ragazza nutrisse una bella scuffia per il
capitano, mentre quest’ultimo…bé,
di sicuro la manager non gli era indifferente, ma nessuno finora aveva capito esattamente
entro quali termini. La vedeva solo come un’amica preziosa? O
c’era dell’altro? Quando glielo si provava a chiedere,
il diretto interessato era quanto mai elusivo, e dire che di solito non era un
tipo particolarmente riservato. Eppure, su questo argomento,
era davvero un osso duro e non si scuciva con nessuno, per cui fino a quel
momento non c’era stato modo di venirne a capo.
Proprio questo suo comportamento,
in netto contrasto col suo modo di essere, insospettiva
chi lo conosceva bene: possibile che alla fine si trattasse solo di un problema
di timidezza all’ennesima potenza?
Quando si toccava l’argomento, all’interno
della squadra si poteva assistere ad un curioso fenomeno, definito “la
divisione del Mar Rosso”: da una parte si schieravano tutti quelli convinti che
Tsubasa “ci fosse”, dall’altra tutti quelli che
pensavano che “ci facesse”, benché nessuno di loro in fondo lo ritenesse ottuso
fino a quel punto. Che il capitano fosse un fanatico
del calcio e che quando ci fosse di mezzo il pallone non vedesse nient’altro
non era un mistero, ma di certo non era l’ultimo dei polli. Magari ingenuo, per
certi versi, o beota, come avrebbe detto Genzō, ma Sanae trasudava talmente tanto amore
da tutti i pori quando c’era lui in giro che se ne sarebbe accorto chiunque, e
risultava difficile credere che fosse l’unico a non esserci ancora arrivato.
Su una cosa peró
si trovavano tutti d’accordo: se quei due avessero continuato ad andare avanti
su quel binario, Sanae sarebbe stata beatificata a breve.
Invece, Jun
e Yayoi erano di tutt’altra
pasta, e come tipologia differivano parecchio dalle altre coppie. A dirla tutta
sembravano sposati da anni, i loro sguardi di intesa
erano leggendari cosí come i loro silenzi mai
imbarazzanti ma pregni di significato, quelli tipici di due persone che sono
talmente sulla stessa lunghezza d’onda da non aver bisogno di usare le parole
per capirsi.
Si percepivano lontano mille miglia
la totale fiducia e l’amore incondizionato che facevano da perno alla loro
relazione, stabile ormai da parecchio tempo; per gli altri risultava
impossibile pensare a Jun senza che gli venisse
associato automaticamente anche il nome di Yayoi,
agli occhi di tutti erano praticamente due corpi ed un’anima sola. Se mai un dí si fossero lasciati,
la squadra era certa che in quello stesso giorno l’Apocalisse sarebbe giunta.
E poi c’era lui. Lui che
s’illuminava d’immenso ogni volta che si nominava la SUA
Yoshiko. Loro due formavano sicuramente la coppia piú melensa del gruppo, quella da due dita in gola per
intenderci, anche se lo Sdolcinato per Vocazione era
senza dubbio lui, il freddo uomo del Nord che si scioglieva come neve al sole
quando si trattava della sua bella. Freddo poi mica
tanto, Matsuyama aveva un temperamento piuttosto
emotivo e sanguigno, e spesso la sua faccia era come un libro aperto.
In quel frangente, insomma, si
sentiva un po’ isolato perché non c’era nessuno all’interno di quella comitiva
di spostati che potesse capirlo fino in fondo. Vuoi perché uno alla fine non
era ancora fidanzato a tutti gli effetti, vuoi perché
l’altro sembrava avesse giá una relazione da trentenne
maturo neanche confrontabile con quelle dei suoi coetanei.
Nemmeno il fatto di essere
diventato il nuovo capitano riusciva a consolarlo piú
di tanto, ma si ridestó dall’atarassia quando captó il proclama di Kojirō.
Era da quando si era unito agli
altri, circa una ventina di minuti prima, che lui e Tsubasa
continuavano a discutere abbastanza animatamente sulla
questione del conto che un Genzō inciuccato aveva saldato per tutti. Era arrivato quando
erano a metá della loro conversazione e perciò si era
perso qualche dettaglio antecedente, che gli era peró stato raccontato da Takeshi,
seduto vicino a lui.
Udendo l’attaccante che, sbuffando
stizzito, asseriva di voler andare a fare due passi perché ne
aveva le palle piene di quei discorsi, al buon Matsuyama
si drizzarono le antenne e sentí suonare un
campanellino d’allarme nella sua testa.
Non ci voleva un genio per capire
che le sue intenzioni consistessero nell’andare a trovare il portiere
prediletto per sistemare le cose a modo suo, prima che Tsubasa
facesse danni parlando in sua vece e finendo col dire eresie che lui mai si
sarebbe sognato di pronunciare.
-In qualitá
di capitano, ho il dovere di seguire quella mina vagante per accertarmi che non
combini dei casini.- Dichiaró allora al gruppo con
fare risoluto, mentre si alzava e si apprestava a tallonarlo a distanza, perché
non voleva certo farsi nasare mentre lo pedinava, avrebbe ottenuto solo di farlo innervosire di piú. Sarebbe intervenuto solo se lo
avesse ritenuto opportuno.
-Vengo con te, Matsuyama-
fece Tsubasa alzandosi a sua volta, ma l’amico lo freddó esclamando: -No,
basto io. Non facciamo il trenino eh, che poi ci sgama
tutti.-
Dopo aver metabolizzato la
drammatica notizia ed essersi dilettato a picchiare un po’ Stecchino,
accusandolo di non avergli impedito di compiere quel gesto sconsiderato, Genzō si disse pronto a riprendere gli allenamenti, ma
la cosa gli rodeva ancora. Se c’era una persona a cui
non voleva fare favori era proprio quello spiantato che peró,
pensó, magari non voleva neanche riceverne. Da lui,
poi. Era quasi certo che la cosa non sarebbe finita lí,
Kojirō non avrebbe lasciato
cadere la questione, poco ma sicuro. Ma perché cacchio
aveva bevuto cosí tanto…
Si stropicció
la faccia con una mano imponendosi di smetterla di pensarci e si preparó a parare il
fetentissimo tiro di Hermann, che non si insaccó solo per un soffio.
-Ma che calo di
forma, tesorino- constató
lui –mi sa che se continua cosí riusciró
ad andare in rete molto presto.-
-Tzé, ti piacerebbe- ribatté l’altro,
sistemandosi i guanti –non ricordi piú chi sono io?-
L’amico alzó
gli occhi al cielo sbuffando –sí senti,
non farmi dire che significa secondo me l’acronimo del tuo ridicolo soprannome
perché sarei capace di smontartelo in due secondi, e lo sai.-
Tsubasa, dopo la dichiarazione d’intenti
di Hikaru che si era messo alle calcagna del numero
nove, stava aggiornando gli ultimi arrivati, i gemelli
Tachibana, sui recenti sviluppi dell’eterna diatriba Kojirō-Genzō; ad aiutarlo nella narrazione c’erano
Misaki e Jun, che
contribuivano ad arricchire il discorso con utili precisazioni circa
quello che l’amico avrebbe voluto fare per appianare la questione.
-Cioè, secondo te
bastava ringraziare Wakabayashi da parte di Hyūga
per evitare contrasti?- Fece sconcertato Masao, poi
come d’abitudine fu il fratello a terminare la frase, scuotendo la testa –Ma
quando la finirai con questo buonismo? Quei due se si
pigliano si scotennano, non c’è Santo che tenga.
Fattene una ragione.-
-Non è buonismo, è buonsenso, ragazzi- replicó
Tsubasa, punto sul vivo. –Dovrei lasciare che si
sgozzino a vicenda, secondo voi?- Nella tavolata si susseguirono
delle occhiatine abbastanza eloquenti.
-Forse se si scannassero un po’,
ma soltanto un po’- precisó Takeshi, perforato dallo sguardo minaccioso del numero
dieci –...credo che potrebbe fargli persino bene.-
La pallonata atomica del Kaiser schizzó inavvertitamente nella metá
campo del gatto e la volpe, sibilando a pochi
centimetri dalla nuca di Hermann.
-Eh bé,
allora ditelo che ce l’avete con me oggi- Proruppe
quello, indignato –è giá la seconda volta che tentate
di farmi fuori, carogne.-
-Sei una pippa,
dovevi mirare con piú precisione- Bofonchió
Genzō rivolto al capitano, che era corso verso di loro per recuperare il pallone.
-Senti, ma non è il tuo “amico”
quello che sta arrivando?- Esclamó lui indicando un
punto all’orizzonte e sottolineando con particolare
enfasi la parola “amico”.
-Lupus in fabula…- commentó Hermann, schermandosi
gli occhi per riuscire a intravedere meglio la figura
che si stava avvicinando.
-Eccapirai…- sibiló
Genzō fra i denti, schioccando la lingua.
In un attimo si infiló il suo collaudato scafandro dell’imperturbabilitá
e con espressione indecifrabile fissó Kojirō, che per raggiungerlo stava attraversando il
campo a grandi falcate. Figurarsi se avrebbe perso tempo a
rifarsi vivo. Non che la cosa lo sconvolgesse,
non era certo la paura del confronto che lo stava innervosendo, dopotutto era
abituato ai loro alterchi; peró aveva il vago
sentore che il rivale stavolta non l’avrebbe preso troppo sul serio con quella vocetta da eunuco che si ritrovava, e lui non ci teneva
proprio a diventare l’oggetto di scherno di quel morto di fame. Giá lo sfotteva quando si trovava in condizioni normali, ma
cosí poi era come servirgli comodamente la sua testa
su un piatto d’argento.
Poco male, pensó
infine, se si fosse fatto beffe delle sue parole
avrebbe preso sul serio almeno i suoi montanti.
A parte il mordicchiarsi di tanto
in tanto il labbro inferiore, null’altro nel suo viso lasciava trasparire le
sue reali emozioni, ma Kaltz, all’erta come un
segugio, osservandolo attentamente di sottecchi si era accorto di quel piccolo
gesto che tradiva la sua inquietudine, e gli disse per sdrammatizzare:
-Se vuoi ti doppio io.- Genzō si voltó a guardarlo
con gli occhi a palla sinceramente sorpreso, esclamando:
-Ma che sei, telepatico? E comunque, peccato che tu non sappia il giapponese,
altrimenti potrei anche prendere l’idea in seria considerazione.-
-Senti, noi ci eclissiamo.
Cercate di non dare troppo spettacolo e, nel caso avessi bisogno, sai dove cercarci-
disse Schneider, lanciandogli un’occhiata esausta
mentre si allontanava verso l’altra metá campo. No, decisamente non doveva essere tanto in forma neanche lui, pensó il portiere per una frazione di secondo prima di
essere distratto da Hermann, che gli ricordó di cacciare un urlo per chiamare aiuto, aggiungendo
poi -…anche se prima che ti senta qualcuno avrá tutto
il tempo di gonfiarti come una zampogna.- Coppino
canonico da parte di Genzō e finalmente pure la
scimmia evaporó.
Kojirō l’aveva ormai raggiunto, e gli si
era parato davanti a gambe larghe con una faccia che non prometteva nulla di
buono.
-Chi si vede, non
ti sei ancora dato fuoco?- Lo accolse affabilmente il numero uno
dell’Amburgo, maledicendosi l’attimo dopo aver parlato. Non riusciva proprio a
dare un tono dignitoso a quella voce abominevole.
-Cosa stai
farneticando?- Trilló Kojirō,
giá con un sopracciglio alzato e un mezzo ghigno che iniziava
ad increspargli le labbra.
Caló il silenzio per un istante. Il
portiere non si azzardava ad aprire bocca, nonostante avesse le parole sulla
punta della lingua, dal momento che farlo con quella voce equivaleva ad una
specie di suicidio verbale.
L’attaccante, dal canto suo, aspettava
incuriosito la sua prossima mossa, perché quello che aveva sentito l’aveva
divertito non poco. I due si guardarono di traverso e Genzō,
sospirando, decise di sacrificarsi e parlare, dopotutto quel silenzio era ancora
piú snervante.
-Che sei venuto a fare? Se cerchi rogne sei nel posto giusto.-
Kojirō trattenne a stento una risata. Ringrazió
mentalmente l’entitá celeste che quel giorno aveva
dotato il suo acerrimo nemico di una parlantina tanto comica, perché
probabilmente ci avrebbe messo piú del previsto a farlo sclerare,
consentendogli magari di mantenersi compassato addirittura fino alla fine.
Chissà, quell’imprevisto poteva rivelarsi un aiuto
provvidenziale per controllare i nervi e
reprimere le sue attitudini violente, permettendo alla sua parte “diplomatica”,
se mai esistesse, di prendere il sopravvento.
-Para un po’ questi, surrogato di
portiere, e dammi una ragione per cui non dovrei pestarti.- E cosí dicendo si infiló una mano in tasca afferrando alcune banconote, che
gli gettó letteralmente addosso. Genzō
non si mosse di un millimetro lasciando che il denaro frusciante gli atterrasse
ai piedi, e replicó:
-Senti, voglio darti un consiglio. Fatti una
vita, non stare sempre appresso a me e piantala di
atteggiarti. Non me ne frega un cazzo dei tuoi soldi,
se sei venuto fin qui solo per questo vedi di prendere il largo.-
Sotto il suo
sguardo sprezzante e quell’aria da mitomane la vena
sulla fronte di Kojirō inizió
a pulsare pericolosamente. Voce cazzuta o no, iniziava giá ad irritarlo. Come non detto, alla fine non ci aveva
messo molto. Altro che lato diplomatico. Mera illusione quella di trovarne uno
in lui.
-Atteggiarmi, io? Senti da che
pulpito…se non vuoi che ti smonti, raccoglili.- Gli disse
in tono perentorio, scrutandolo con gli occhi a fessura. Ormai la sua collera
stava scalando inesorabilmente i livelli di guardia.
-Sei ininfluente, Hyūga.
Come i tuoi soldi. Riprenditeli e vattene.-
Benché avesse pronunciato quelle parole in
un tono piuttosto ameno, in stile “esalazione dell’ultimo respiro”, a Kojirō non fecero ridere affatto e si sentí improvvisamente salire il sangue alla testa; prima
che potesse rendersene conto, aveva giá caricato un
gancio in direzione della sua intollerabile faccia da schiaffi.
Genzō peró fu
piú veloce, e in quello stesso momento il pugno che aveva
in cantiere da quando lo aveva visto arrivare si infranse
sul suo zigomo, prima che l’altro facesse in tempo anche solo a vederlo.
Stavolta, stranamente, non ho note particolari da aggiungere, ma come di consueto ci tengo
a ringraziare Zia Silen (adesso che mi hai
autorizzato a chiamarti cosí non la finiró piú, lo sai, vero?), Berlinene e Pucchyko_Girl
per le loro scoppiate recensioni a me graditissime^^