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Autore: Shark Attack    09/09/2015    1 recensioni
Nehroi e Savannah sono due fratelli decisamente fuori dal normale e dalla legge sia del loro mondo sia del nostro. Lui ha la capacità di respingere la magia, lei è tra le più potenti creature esistenti ma il loro legame è indissolubile e lo pongono sempre al di sopra di ogni cosa.
I due fratelli sono reietti assoluti, senza famiglia né amicizie, ma non si lasciano scoraggiare facilmente dalle difficoltà che l'avere tutti contro comporta: hanno un'ardua missione da portare a termine e niente li fermerà... neanche quando vengono separati da una montagna invalicabile come la morte.
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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27
Il Nuovo Mondo


«Come puoi vedere, Gordon», aveva detto Aretha con l’orgoglio di una vita nella voce. «Tuo padre è un’idiota».
Gordon non riusciva a credere a quello che era successo. Il suoi occhi avevano visto una roccia qualunque diventare luminosissima, poi liquida ed infine… una prateria immensa, verdissima, baciata da un sole caldo ed irrorata da un vento dal sapore dolciastro ma che lo faceva sentire bene come mai prima di allora.
«Cos’è?», era riuscito a boccheggiare dopo qualche minuto in cui i suoi occhi si erano riempiti di quella visione incredibile e il suo cervello aveva accettato (forse) l’accaduto.
Aretha aveva lasciato la presa del figlio e non aveva risposto. Gordon avrebbe ricordato per sempre quell’istante: sua madre stava piangendo come una fontana. E sorrideva piena di gioia e di vita.
«Questa… figlio mio, questa è Ataklur!»
I singhiozzi e le risate della mamma avevano fatto da sottofondo al ripercorrersi di tutte le favole della buonanotte che gli aveva raccontato, da quando ne aveva memoria fino a due anni addietro, quando il padre le aveva vietato di “riempirgli la testa di cose inutili e fasulle”.
«È tutto vero!»
Gordon non sapeva cosa pensare. Sua mamma non era pazza, non lo era affatto. Suo papà lo era! Come aveva potuto trattarla in quel modo, facendola passare per pazza, irresponsabile, indegna del suo ruolo… e non solo in famiglia, ma anche in tutto il vicinato?
In un secondo gli stavano tornando in mente tutte le prese in giro degli altri bambini, che si vantavano che la loro mamma aveva tutte le rotelle a posto, mica come la sua. I nonni che si sperticavano pur di passare più tempo con lui, per sottrarlo alla madre. I vicini che evitavano di invitarlo alla festa, perché probabilmente avrebbe portato il seme della follia anche nei loro figli. «Dobbiamo dirlo a papà! Dobbiamo dirlo a tutti!», aveva esclamato sull’onda della rabbia e dell’eccitazione.
La madre si era abbassata alla sua altezza, ma le gambe non avevano retto per l’emozione e quindi era praticamente caduta sulle ginocchia. Stava ancora piangendo di gioia, ma improvvisamente i suoi occhi erano tornati tristi. «No, Gordon… lascia stare gli altri. Ci sono voluti due anni per trovare il modo di riattivare questo medaglione e portarti qui… perché l’unica cosa importante per me sei tu. Non dire nulla o crederanno che sei pazzo come me, ti isoleranno, non avrai mai degli amici…»
Gordon non capiva. «Non lo devo dire a nessuno?», era confuso.
«Lo so, è difficile… io ci sono riuscita per un po’ di anni, poi quando sei nato tu non sono più riuscita a mentire».
La sua voce era dolce ed interrotta da qualche singhiozzo o dai momenti in cui si asciugava gli occhi e le guance. «Ma adesso non potevo più resistere, tu… non volevo che anche tu mi credessi pazza. Gordon, per me non c’è altra persona più importante di te al mondo, in entrambi i mondi! Ameno tu dovevi credermi! E dato che l’unico modo era provare che non raccontavo fantasie…»
Il bambino aveva sentito il petto gonfiarsi di calore e il suo volto era andato a fuoco dall’arrossire. «Io ti credo, mamma», le aveva detto mentre la stringeva in un abbraccio lunghissimo.
Avevano passato poi molte ore a correre e saltare nella prateria, lasciandosi alle spalle le montagne rossastre come il Grand Canyon da cui erano arrivati. Il sole li baciava amorevole e i fiori li accarezzavano come amici colorati che indicavano la via della felicità. I loro cuori battevano all’unisono e Gordon era convinto di aver finalmente visto sua madre, per la prima volta, dopo otto anni di vita assieme. Era diventata ancor più bella, la gioia e il sorriso l’avevano cambiata radicalmente.
Dopo un po’ di giochi, domande e corse, erano giunti ad un enorme cratere. L’erba smeraldina era finita all’improvviso, lasciando il posto a rocce e terra rossastra, come le montagne. Il cratere era profondo alcune decine di metri, estendendosi da sotto la prateria in un unico e pericolosissimo dislivello, senza discese; dentro questo cratere c’era la città più bella che Gordon avesse mai visto, neanche in televisione o sui libri.
«Questa è Eastreth», aveva detto Aretha prendendolo per mano ed indicando una scalinata per scendere, a qualche centinaio di metri da loro. «Casa mia è laggiù, vicino a quei due alberi con le foglie azzurre».
Gordon non capiva perché, ma sua madre aveva tirato fuori un foulard dallo zaino e vi aveva riposto il medaglione, nascondendolo bene. Le sue piccole dita premevano il pulsante della macchina fotografica e un sordo “clack” imprimeva gli storti e bellissimi grattacieli di vetro di Eastreth sul rullino mentre Aretha si nascondeva i capelli in una strana cuffia con quel foulard, legandolo con un nodo sulla fronte. Stava ruotando la rotellina per avvolgere la pellicola e prepararla al prossimo scatto – la sua bellissima mamma che sorrideva, catturata di nascosto – quando ormai erano arrivati alla scalinata di pietra.
Avevano poi camminato tra le strettissime o larghissime vie della città, sbagliando strada un paio di volte. Gli alberi che aveva usato come riferimento non erano più visibili grazie agli enormi grattacieli che catturavano la luce dall’alto e la riflettevano nelle profondità del cratere grazie ai loro vetri coloratissimi, e più volte Aretha aveva chiesto indicazioni. Sui negozi campeggiavano cartelli scritti con caratteri così strani che a Gordon non sembravano altro che pastrocchi incomprensibili, ma la madre li leggeva senza problemi e a volte li usava per orientarsi.
Dopo un po’ di scarpinata, erano giunti ad una locanda in pietra grigia, costruita in uno stile che il piccolo Gordon non aveva faticato a riconoscere come inglese: la stessa insegna lo aveva fatto sentire un po’ più a casa, “Ye Old Pub”.
Aretha non aveva mai lasciato la sua mano, neanche per un istante, da quando avevano sceso il primo scalino della città. Anzi, ogni volta che si avvicinava qualcuno la stringeva ancora di più, come per paura che qualcuno avrebbe portarle via il suo bambino. Gordon aveva apprezzato molto questa premura, anche se con una mano sola a disposizione aveva scattato molte foto storte o sfuocate.
Stringendo ancora una volta la manina del piccolo, Aretha aveva varcato l’ingresso del pub non senza indugi, piombando in un ambiente denso, umido, con un odore di alcol misto a tabacco.
Un pappagallo rosso ed uno bianco più piccolo avevano gracchiato all’unisono ed erano svolazzati verso i due appena entrati. «Ma che mi venga un colpo», aveva detto qualcuno dall’altro lato del salone d’ingresso, pieno di tavolini e sedie sgangherate.
Era un uomo gigantesco, il più grande che Gordon avesse mai visto. Una barba ispida che gli ricopriva il mento e le guance, capelli nascosti da un berretto marrone e abiti stravaganti, come quelli di tutti gli abitanti di quella strana città.
«Aretha?», le aveva chiesto incerto.
«Ciao William… è bello rivederti».
Sia la mamma di Gordon sia quell’omone non sembravano esattamente contenti di essersi incontrati. I versi dei pappagalli erano gli unici suoni che rompevano il silenzio tra loro. Non c’erano abbracci, sorrisi, esplosioni di gioia…
«Mamma, chi è lui?», aveva chiesto il bambino cercando di capirci qualcosa.
La madre gli aveva accarezzato i sottili capelli biondi. «Gordon, lui è tuo zio William. Marito di mia sorella Arla e padre di una bellissima bambina».
«Jenna», aveva aggiunto lui, attento.
Aretha aveva inclinato la testa ed annuito leggermente. «Oh sì, Jenna. È nei paraggi? Magari possono giocare e conoscersi un po’…»
«È da amici».
La donna si era inumidita le labbra. «Certo. E Arla?»
«Cosa ci fai qui, Aretha?», aveva domandato invece lui, facendo tuonare la sua voce pacata ma profonda in tutto il locale mentre le si avvicinava, passando accanto al bancone straripante di bottiglie di ogni tipo di liquore e bevanda alcolica esistente.
«Tu che dici? Volevo mostrare a mio figlio… beh, il mondo. Il nostro mondo».
«Il nostro mondo», aveva ripetuto William. «Che non è più tuo. Hai scordato come funziona l’esilio?»
Il volto di Aretha si era indurito come la pietra. Gli occhi assottigliati, le labbra tirate in una linea stretta; persino la sua mano sembrava meno morbida e calda al piccolo Gordon. «Lui doveva sapere. Tu non hai idea…»
«Io non ho idea», l’aveva interrotta subito, indicandola con un ditone accusatorio. «Ma tu sì. Quando hai fatto tutto quello che hai fatto, tu sapevi a cosa andavi incontro. Stupida guerrafondaia che non sei altro, adesso torni qui nascondendo la criminale che sei, sventolando la bandiera di tuo figlio in nome del mondo che hai cercato di rovinare? Avresti potuto andare in qualunque altra città, magari non ti avrebbero riconosciuta!»
«E perché mai dovrei andare altrove? Questa è casa mia! Lo è sempre stata e sempre lo sarà!»
William rise lugubre e profondo, facendo tremare il bambino. «No, Aretha. Accetta la realtà: sei stata esiliata, questa», indicò il suo pub, poi la città che si vedeva dalla finestra di fronte al bancone. «Questa non è più casa tua».
La donna inspirava ed espirava pianissimo, aveva anzi quasi smesso di respirare. La mano di Gordon si stava agitando nella sua e lei se ne accorgeva a stento. Poi l’aveva lasciata ed aveva afferrato il figlio per le spalle, portandoselo di fronte. «Voglio che diventi casa sua. Accetterò la mia situazione senza fare mai più storie, non mi vedrete mai più, lo giuro! … ma lui è mio figlio, tuo nipote!»
La sua voce si era accesa di calore mentre le dita si chiudevano con forza sulle spalle di Gordon, messo di fronte al gigante come una formica inerme. Gli occhi di William avevano esitato per un attimo, poi si erano finalmente posati su di lui, squadrandolo nei minimi dettagli come se ne dovesse fare un ritratto.
«Ti prego… lui merita di vivere qui, è mezzo brehmisth. Inoltre è un bambino molto sveglio e capace, sarà…»
«Vorresti affidarci tuo figlio? Ah! Sei sempre stata una testa calda, ma questo… sei pazza!»
«NO!»
Aretha e William avevano abbassato lo sguardo sul bambino in contemporanea, stupiti allo stesso modo. Il suo testolino biondo fremeva dalla rabbia. «La mia mamma non è pazza! È la mamma più bella e forte e coraggiosa del mondo! Non dice le bugie e non l’ho mai vista più felice di oggi! Non è pazza, tu sei pazzo se le dici queste cose!»
I pappagalli avevano iniziato a gracchiare più forte, senza dire nessuna parola sensata ma sembarva che stessero urlando a loro volta contro il bambino.
Lacrime orgogliose erano scivolate lungo le guance di Aretha mentre sentiva il suo ometto difenderla a spada tratta di fronte ad uno sconosciuto che fino ad un secondo prima l’aveva fatto tremare come una foglia. Anche William ne era rimasto colpito, ma l’unica a parlare era stata una donna, appena comparsa sulle scale che conducevano da dietro il bancone ad un piano superiore.
«Che cipiglio, accidenti!», aveva detto. Gordon aveva pensato subito che quella fosse sua madre, ma indossava altri vestiti e sembrava più vecchia… «Sei proprio figlio di mia sorella».
«Arla!»
La donna era scesa di corsa e si era gettata subito tra le braccia della sorella, ed entrambe si erano strette in un abbraccio lunghissimo e pieno di lacrime, ricordi, amore. Persino William si era tranquillizzato molto, il che aveva sciolto parecchia tensione anche in Gordon.
Arla era alta come la sua mamma e le assomigliava incredibilmente; aveva qualche ruga in più e i capelli un poco più spenti, ma sembrava ancora piena di energie.
«Aretha Fillscah, la mia scapestrata sorellina… come sei riuscita a tornare? Ti ho cercata in lungo e in largo, dove sei andata a vivere?»
«Manchester, ci siamo trasferiti lì quando è nato lui. A proposito, vi presento ufficialmente: Arla, ti presento mio figlio Gordon. Ha otto anni».
«Che bell’ometto che sei», aveva commentato la nuova zia tendendogli la mano. «Molto piacere».
«Cara, non dovresti stare qui…», aveva fatto notare William mettendole una manona sulla spalla con fare premuroso.
«Non posso passare a letto la mia vita, Will, soprattutto non in un momento come questo. Vi preparo subito qualcosa da mangiare, sarete affamati! Accomodatevi! E voi due, stupidi pennuti, lasciateli stare: sono ospiti, non clienti!»
Gordon avrebbe capito molti colpi di tosse dopo il senso di quella risposta, e anche perché quella donna sembrava così sciupata. La madre gli aveva rivelato che erano gemelle mentre un piatto di cibo sconosciuto gli compariva fumante sotto al naso e mentre una bambina dai capelli rossicci e ribelli entrava nel pub. «Perché il cartello dice che è chiuso? Perdiamo clienti!», era entrata borbottando.
«Jenna!», aveva esclamato Arla chiamandola ai due tavolini che erano stati avvicinati per far sedere tutti assieme. «Vieni che ti presento tuo cugino!»
Gordon avrebbe ricordato la sua espressione sospetta per tutta la vita, soprattutto perché Jenna non l’aveva tolta neanche mentre mangiava o giocavano assieme per lasciare gli adulti parlare tra di loro. Jenna gli stava mostrando con orgoglio e superiorità cosa era in grado di fare con la magia, dopo aver esaminato incuriosita tutti i giocattoli con cui lui aveva riempito lo zaino. «L’ho imparato oggi a scuola», gli aveva detto poco prima di unire assieme due animali di gomma, un cavallo ed un serpente, mischiandoli per creare un animale tutto nuovo. Il cavallo aveva la testa e la coda di serpente ed il colore era un misto uniforme di marrone chiaro, con striature verdine. «Aspetta», gli aveva detto. Si stava impegnando molto, era evidente dalle perline di sudore che le bagnavano la fronte.
«Non fa niente, è già una forza così», le aveva detto lui preoccupato.
La bambina, di qualche anno più grande di lui, non l’aveva ascoltato e poco dopo, sotto gli occhi sempre più increduli di Gordon, il cavalpente aveva iniziato a muoversi, galoppando pieno di vita e sibilando rumorosamente.
«Forte, eh?»
Gordon non aveva parole. «Come hai fatto?», era riuscito a dire dopo un po’, quando ormai aveva rinunciato a cercare una logica conosciuta in quella magia indescrivibile.
«Basta pensarlo e volerlo molto intensamente», gli aveva risposto Jenna passandosi la mano sulla fronte. «Ed esercitarsi davvero molto… non tutto quello che immagini può riuscire o riuscire bene. A scuola studiamo molto per imparare le cose da tenere a mente quando vogliamo realizzare le cose e poi ci alleniamo moltissimo!»
«Devi essere la più brava della classe», aveva commentato Gordon estasiato.
Il cavalpente però stava smettendo di muoversi e, poco dopo, si era separato del tutto, tornando i due giocattoli iniziali. Jenna aveva sospirato pesantemente, stanchissima.
«No, non sono per niente la più brava… c’è una bambina fortissima in un’altra classe, lei riesce a fare di tutto e non si affatica mai. Che invidia…», gli aveva risposto con un po’ di tristezza nella voce.
«Ma se ti alleni tantissimo puoi diventare come lei?»
«Se corri tantissimo non è detto che diventi il più veloce, se non hai le gambe adatte».
Gordon aveva impiegato qualche secondo a capire l’analogia. «Quindi… lei ha le gambe e tu no?»
Jenna aveva ridacchiato. «Se così ti è più chiaro… sì».
Gordon aveva corrugato la fronte. «Posso farlo anche io?»
«Scherzi? Tu sei umano!»
«La mamma prima ha detto che sono mezzo bralist…»
«Brehmisth. Che è praticamente umano. Devi essere jiin per fare magia!»
Il bambino aveva annuito, ma subito dopo tutto era diventato appannato e l’aria era diventata strana, pesante, come se non riuscisse più ad entrargli nei polmoni. Gordon ricordava sua madre correre verso di lui all’urlo spaventato di Jenna (“è svenuto!”), ricordava che l’unica cosa che riusciva a vedere era il soffitto e il collo della mamma in cui lui premeva il viso, spaventato. «Che mi succede?», provava a chiedere, ma non usciva alcun suono dalla sua bocca.
Zia Arla li aveva guidati in fretta nel parco più vicino ed aveva aperto per loro un Portale, mentre lo zio William copriva loro le spalle assicurandosi che nessuno li notasse. Appena il tempo di ringraziare la sorella, poi Aretha aveva varcato la soglia luminosa che separava ed univa i due mondi ed in lampo di luce bianchissima lei e suo figlio erano di nuovo nella foresta da cui erano partiti.
«Come ti senti?», gli aveva chiesto mentre il Portale si chiudeva alle loro spalle con un suono che assomigliava allo strappo di un tessuto.
Gordon aveva capito a malapena cosa gli fosse successo, ma era sicuro di una cosa: in quella foresta l’aria era tornata fresca, pungente, sana.
«Oh tesoro, mi dispiace tanto… mi ero scordata che le prime volte per gli esterni possono essere pericolose… perdonami! », singhiozzava la madre senza lasciarlo andare.
«Cos’è successo?»
Aretha gli aveva spiegato della magia nell’aria e nella difficoltà dei polmoni di chi proviene da un mondo di riuscire a sostenere la differenza nella sua concentrazione: l’aria degli umani non conteneva magia, quella di Ataklur ne era satura. Il fisico riesce a sopportare il cambiamento, ma fino ad un certo limite.
«Come quando nuoti e trattieni il respiro, per un po’ resisti e poi devi respirare. Qui è simile, prima non te ne accorgi perché è comunque aria… poi hai bisogno della tua aria».
«Ma… perché hai detto che vuoi che viva lì con loro se non posso neanche respirare?», aveva chiesto il piccolo con la voce ancora tremante per lo spavento.
«Non voglio costringerti a fare nulla, tesoro mio. Ne riparleremo… Oggi abbiamo avuto abbastanza avventure, che ne dici? Torniamo a casa».




*°*°*°*




Sto guardando Pechino Express in questo momento e vi assicuro che il titolo non è ispirato al nome dell'edizione di quest'anno xD
Grazie a tutti per il sostegno, il nostro piccolo Phil/Gordon ha ancora un po' di storie d'infanzia da raccontarci... anzi, la bomba cruciale deve essere ancora sganciata! ^^

Alla prossima, ciao!zì

Shark
   
 
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