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Autore: GiuliaStark    10/09/2015    1 recensioni
Brooklyn, inizio anni novanta. Un gruppo di otto ragazzi, amici fin dalla nascita; tutti diversi tra loro eppure così uguali. Michael, Calum, Joey, Elizabeth, Ashton, Kayla, Luke e Ross. Gli outsiders del quartiere, i casi sociali, i sognatori, quelli che sfidavano i limiti della vita cercando di respirarne il più possibile. Quelli che trovavano un porto sicuro tra di loro, che si raccoglievano i pezzi a vicenda per ricomporli assieme. La musica come scudo dal mondo, il solito pub come rifugio e la loro voglia di scappare come una tacita promessa. Le promesse che sia fanno tra amici alle due mattina, da ubriachi mentre si vaga per strada ma che alla fine sono quelle che rimangono, sono le più vere. Le avventure, disavventure, i loro sbagli, i sogni e gli amori di un’età sempre in bilico tra la follia e l’oblio. Una generazione abbandonata a se stessa. Una storia: la loro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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~~Brooklyn negli anni Novanta era come dire Parigi nel Seicento, o Londra nell’Ottocento. Aveva la sua particolarità, la sua magia, i suoi piccoli dettagli che la rendevano così speciale. Aveva il suo aspetto grigio, urbano con quello stile grunge che sembrava trasandato ed abbandonato a se stesso ma che invece rispecchiava completamente l’animo non solo del quartiere ma anche dei suoi abitanti. Aveva i murales delle periferie che esprimevano i disagi di questa gioventù bruciata; frammenti di persone spiattellati agli occhi di tutti sui muri a mattoncini dei palazzoni che oscuravano il cielo. Un cielo che ti guardava dall’alto con il suo occhio critico e delle volte benevolo, che poneva su questa città la sua ala protettiva. Un cielo così azzurro ma così distante che ti faceva desiderare di raggiungerlo ad ogni costo pur di stare lontano da questa terra intaccata dal male e dal veleno. Ti istigava quella voglia di fuggire via e lanciarti verso l’ignoto, verso un qualcosa che ti avrebbe dato la voglia di vivere. Via verso nuove esperienze, nuove vite da vivere. L’alba poi era qualcosa di spettacolare. Il sole nasceva timido all’orizzonte affacciandosi su una città così grande e scura dentro che ne aveva quasi il timore. Sorgeva lontano, verso l’isola di Manhattan. Il cielo di quelle prime ore era di una leggera e fredda sfumatura che ondeggiava tra il rosa pallido e l’azzurro. Con quei colori addolciva i profili imponenti e minacciosi dei grattacieli che si stagliavano contro il cielo quasi come a volerlo perforare. Ero di un’idea però: la vera magia di Brooklyn si mostrava al tramonto. Quando il sole all’orizzonte colorava il cielo di un arancio acceso gettando la sua ombra su tutta la città tingendola di colori caldi e forti. L’ombra aumentava incupendo la città intera mostrandone la sua vera faccia. Brooklyn era così. Innocente all’apparenza ma nera dentro. Una città con un’anima tutta sua, una personalità celata dalle ombre dei palazzi che la tenevano segreta come a proteggerne il male che racchiudeva. Quando le ombre calavano la magnificenza del ponte si mostrava, un ponte maestoso ma che sembrava volerci travolgere con la sua grandezza. Un ponte che riuscivi a vedere da ogni angolo della città come a volerti dire che se volevi eri libero di attraversarlo e scappar via, libero di respirare aria nuova. Libero e basta. Ma sapevi che era una trappola, un gioco a doppio fine, perché Brooklyn non ti lascia, non ti fa andar via così facilmente. No. Ti rimane dentro. Ti assorbe e tu assorbi lei. Si nutre si te, dei tuoi sogni, dei tuoi incubi e poi ti lascia senza niente. No. I ragazzi di questa qui non erano in grado di sfidare la suprema legge del ponte. E come quei ragazzi anche noi avevamo quella paura. Mi piaceva la notte a Brooklyn, aveva qualcosa di tremendamente oscuro ma rassicurante. Le ombre ti nascondevano, facevano ombra sulla tua di ombra, permettendoti così di camminare liberamente senza quel peso che ti portavi dietro durante il giorno quando eri esposto alla piena luce del sole. Forse era questo il motivo che ci spingeva a passare la maggior parte della notte fuori. Ci nascondeva, ci permetteva di girare liberi senza la paura che qualcuno notasse i nostri cuori infranti, le nostre cicatrici e le nostre battaglie perse. Eravamo figli del buio. Un gruppo di ragazzi alla deriva nell’ombra ancor più scura dei grattacieli. Sembrava che la notte ci riscoprissimo; come se durante il giorno fossimo in una specie di stato apatico solo per poi sbocciare alla sera consapevoli che in quel momento nessuno avrebbe fatto caso a noi. La cosa che amavo di più di questa città? Eravamo tanti. Tante piccole facce spente che si muovevano senza un’idea o una direzione precisa. Tipo dei robot. Era facile perderti nella massa, nasconderti, far finta che non esistevi, che, si, eri li ma che al tempo stesso non c’eri. Brooklyn era così affollata che bastava poco per scomparire: svoltare in una strada al posto di un’altra, tornare indietro invece di andare avanti. Un attimo e ti eri perso. Forse mi piaceva perdermi perché in primo luogo ero io a sentirmi così. Ma, ad essere sinceri, chi è che non ci si è mai sentito? Siamo tutti in balia di qualcosa più grande di noi, qualcosa al di fuori della nostra comprensione. Ci lasciamo trascinare dalla corrente e basta. E poi c’eravamo noi. Mi viene da ridere a pensarci. Noi volevamo fare la differenza, volevamo perderci a modo nostro. Sentirci smarriti ma completi quando eravamo insieme. Ecco perché decidiamo di perderci durante la notte. La sera precedente non era stato diverso, eravamo stati nel nostro solito pub a bere, ridere ed ascoltare musica. Io, Calum e Luke avevamo intrapreso perfino una bella discussione su quale gruppo fosse meglio tra i Nirvana ed i Pearl Jam. Ovviamente erano due grandi pilastri della musica di questo periodo ma non c’era storia, i Nirvana erano i migliori; Kurt Cobain sapeva esprimere alla perfezione i problemi della nostra generazione: il disagio, la sensazione di essere solo un rigetto della società, di sentirsi fuori posto e sbagliati. Era il mio idolo. Anche se questa parola svalutava completamente ciò che era, ma il concetto era molto simile. Protraemmo quella conversazione per delle ore probabilmente, il tutto incrementato dall’alcool, cercando di convincere Calum che aveva torto, ma quel ragazzo da ubriaco diventava estremamente cocciuto. Nel mentre noi eravamo nel mezzo di questa conversazione Ashton, Kayla, Joy, Elizabeth e Michael si stavano dimenando sulle note di Roadhouse Blues dei Doors. Ogni tanto lanciavo qualche occhiata nella loro direzione e li vedevo ridere, li vedevo vivere; era una sensazione magnifica vedere le persone a cui tieni di più al mondo respirare, ma respirare davvero, non solo aria, no, respirare la vita, la libertà, respirare se stessi. Mentre Luke e Calum continuavano a discutere presi la polaroid che tenevo sempre in borsa e scattai un paio di foto per ricordare sempre questi momenti. Gli altri delle volte odiavano questa mia fissazione nell’immortalare ogni nostro momento ma non sapevano che il tutto era spinto da una mia grande paura: ero terrorizzata di poter dimenticare tutto; di svegliarmi una mattina ed improvvisamente non ricordare più nulla di me, della mia vita, ma soprattutto di loro. Per questo facevo centinaia di foto. Non volevo dimenticare neanche un singolo istante, ancor di più se trascorso con questo gruppo di pazzi. Mi piaceva l’idea che un giorno, magari quando sarei cresciuta, invecchiata e con una vita completamente diversa, avrei ripreso quegli scatti e ricordato com’eravamo a quell’età, ricordare le serate come queste, le nostre infinite chiacchierate stracolme di stronzate ma che per noi erano colme di significato perché erano le nostre, le nostre parole, le nostre storie ed i pezzi di noi stessi. Ammiravo quel gruppetto di scalmanati e ridevo. Kayla si divertiva a saltare qua e là con sempre la sua amata sigaretta tra le dita mentre cantava ad alta voce sentendosi una rockstar; era stata sempre una ragazza che attirava l’attenzione, non importava dove andasse, tutti ne erano stregati. Non lo faceva apposta, anzi, neanche le piaceva essere costantemente notata, le veniva naturale, credo che fosse quello il motivo per cui piaceva a tutti. Non ricordo a che ora tornammo a casa, sicuramente perché eravamo letteralmente fuori di testa per l’alcool, né come riuscii ad entrare e salire le scale fino alla mia camera senza cadere e farmi male, ma c’ero arrivata ed ora, qualcosa, o qualcuno, stava disturbando il mio riposo post sbornia continuando a darmi dei colpetti sulla schiena:
- Sorgi e splendi dolcezza! – disse una voce fin troppo squillante per la mia povera testa dolorante.
- Va via Ash… – bofonchiai nel dormiveglia
- No, no, non ci penso proprio –
- Come cavolo hai fatto ad entrare? – chiesi confusa ed ancora tremendamente assonnata mentre continuavo sentirmi pulsare la testa in modo atroce.
- Le chiavi sotto il vaso – sbuffai sonoramente in risposta seppellendo di nuovo la testa nel cuscino mentre lui scoppiò in una risata.
- Cazzo… - borbottai con la voce mascherata dalla stoffa.
- Sinceramente tesoro, dovresti cambiargli posto – continuò a ridacchiare – Non lo sai che è il primo nascondiglio dove andrebbe a guardare un ladro? Dà tanto da film visto e rivisto – disse dandomi una leggera spinta.
- Oh fidati, è la prima cosa che farò appena te ne andrai – mi misi a sedere passandomi una mano tra i capelli arruffati.
- Già, come no, lo dici tutte le volte ma poi non lo fai –
Purtroppo aveva ragione. Dovevo piantarla di decidere di fare cose se poi non avevo la minima intenzione di completarle; era più forte di me. Accumulavo buoni propositi, idee, ma tutto finiva puntualmente nel cesso. Non portavo mai nulla a termine; non era per mancanza di voglia di fare, anzi, forse di quella ne avevo anche troppa. Sicuramente il problema risiedeva nel fatto che avevo paura nel finirle. Paura perché dopo ci sarebbe stata la sorpresa della vita nel presentarmi qualcosa di nuovo. Ed io odiavo le sorprese. Erano insidiose e l’idea di qualcosa che non mi aspettavo piombasse nella mia vita mi terrorizzava. Avevo ricevuto fin troppe sorprese da quando ero nata e tutte decisamente poco belle. Per questo mi piaceva rimanere nella mia solita e vecchia quotidianità; forse le uniche che riuscivo a tollerare erano quelle dei miei amici:
- Stavolta lo faccio veramente, non voglio che entri più in casa mia così di soppiatto – mi passai una mano sul volto – È inquietante –
- Tanto lo so che non lo farai mai – odiavo quando aveva ragione, per questo non volevo dargliela vinta troppo facilmente.
- Scommettiamo? – alzai le sopracciglia con un sorriso mentre incrociai le braccia la petto.
- Nah – scosse la testa – Tanto si sa che vincerei io – fece spallucce cercando di essere serio.
- Fanculo Ash… - borbottai di nuovo mentre lui riempiva ancora la stanza con la sua risata.
Mi piaceva quel suono. Credo fosse uno dei miei preferiti. Ashton aveva una risata pura e cristallina, metteva di buonumore, ti rallegrava e, si, delle volte ti strappava anche un sorriso. Per questo lo consideravamo il nostro angelo custode. Poi però c’erano i momenti come questo dove riusciva a farsi odiare alla perfezione:
- E anche se fosse, mi piazzerei sotto la tua finestra con la mia batteria – sorrise trionfante mentre alzava le sopracciglia in un’espressione vittoriosa.
- Prima o poi te la spacco in testa quella cosa infernale –
In realtà mi piaceva la batteria, anzi, mi piaceva come la suonava Ash, ma mi divertivo a fargli credere il contrario anche se credo l’abbia intuito:
- Sei la dolcezza in persona oggi – disse con evidente sarcasmo nella voce mentre cercava di nascondere una risatina.
- Chi io? Sempre – sorrisi imitando il suo stesso tono di voce.
- Dai, su, Ross – mi tolse le lenzuola di dosso gettandole ai piedi del letto facendomi sobbalzare al gesto repentino – Alzati e fatti una doccia che gli altri già ci aspettano al pub –
Mi alzai aggrottando la fronte e guardandolo con estrema curiosità mentre iniziai a prendere il cambio per uscire:
- Come hai fatto a convincere Bryan ad aprire il locale oggi? – domandai sbattendo le palpebre ancora attonita – Non doveva essere chiuso per qualche assurdo motivo? –
- Ho i miei metodi – fece di nuovo spallucce come per vantarsi di ciò che aveva appena detto.
- Per caso hai minacciato anche lui di svegliarlo con la tua batteria? – gli dissi sarcastica.
- Smettila e fila a fare la doccia – borbottò mentre mi spinse nel bagno – Io intanto ti prendo le pasticche per il mal di testa –
- Mio eroe! – esclamai in modo teatrale mentre lui chiudeva la porta scuotendo la testa ed avviandosi verso la cucina.
Attivai il getto d’acqua calda della doccia ed una volta tolta la maglietta, almeno larga il doppio di me, mi posizionai sotto il getto caldo rilassandomi all’istante. Tirai la testa all’indietro beandomi di quella sensazione; sembrava come se l’acqua stesse portando via con se non solo i residui del divertimento di ieri sera ma anche tutte le preoccupazioni che mi affollavano la mente portandomi sull’orlo della follia. L’acqua trascinava via tutto, mi rinnovava, mi curava, riparava la mia armatura contro il mondo ma soprattutto contro me stessa. Come se cambiassi pelle. Odiavo la situazione che mi portavo dietro ma soprattutto odiavo la mia vita dentro questa casa. Mia madre mi ignorava completamente e quelle poche volte che ci scambiavamo qualche parola non faceva che lanciarmi insulti umiliandomi con ogni parola; mentre mio padre era chissà dove. Avevo pochi ricordi di lui e per la maggiore non belli, più che altro riguardavano le litigare con mia madre. Ora lei aveva da qualche tempo aveva un compagno James credo si chiamasse, non che a me importava; l’avevo incrociato un paio di volte qui in casa ed ero sempre più convinta del fatto che non fosse una persona affidabile, ma con mia madre non si poteva ragionare. Così non le dissi più nulla a riguardo e la lasciai perdere. Dopotutto era la sua vita. Per questo spesso e volentieri mi ritrovavo Ashton per casa, voleva aiutarmi o salvarmi, si credo che quello fosse il termine adatto. Voleva salvarmi. In realtà lui voleva salvare tutti: partendo da sua madre, sua sorella e suo fratello; il padre li aveva abbandonati da piccoli ed Ash si era sobbarcato del peso dell’intera famiglia. Aveva solo un piccolo difetto quel ragazzo: voleva salvare tutti. Ma a lui chi lo avrebbe salvato? Per questo tutta la comitiva gli stava il più dietro possibile, avevamo paura che da un momento all’altro potesse cedere, spezzarsi e crollare nel baratro ma noi non lo avremmo permesso. Ci eravamo fatti una delle nostre solite promesse, quelle dove non servono le parole ma bastava uno sguardo per capirsi. Chiusi l’acqua e sospirai passandomi le mani tra i capelli bagnati, uscii dalla doccia ed una volta che mi avvolsi attorno un asciugamano aprii la porta del bagno trovandomi davanti Ashton con un bicchiere d’acqua e le pasticche per il mal di testa; quella vista inaspettata mi fece sobbalzare:
- Dio Santo, Ash! Vuoi farmi morire d’infarto? – esclamai portandomi una mano al petto come a cercar di fermare i battiti del cuore decisamente troppo accelerati.
- Non potrei mai – disse con fin troppa enfasi – E poi sfortunatamente mi servi – mi porse il bicchiere e le medicine.
- Che cosa vuoi dire con “sfortunatamente mi servi?” – domandai perplessa mentre presi la pasticca.
- Non fare troppe domande e vestiti, io ti aspetto di sotto –
- Lo sai che odio le sorprese! – gli gridai dietro ridacchiando - Traditore… – sbuffai scuotendo la testa.
Una volta indossati i miei shorts di jeans, una maglietta dei Ramones tutta strappata ed i miei inseparabili anfibi scesi di sotto dove trovai Ashton seduto comodamente sul divano con i piedi poggiati sul tavolino da caffè che c’era davanti:
- Ehi, giù i piedi da lì ed andiamo! –
Si alzò e venne verso di me con quell’espressione da furbo che lo contraddistingueva e che gli faceva brillare ancora di più gli occhi di un verde ancor più luminoso:
- Li do io gli ordini qui che sono il più grande – fece l’occhiolino e sorrise.
- Ma piantala – ridacchiai mentre gli diedi una leggera spinta per poi prendere le chiavi e dirigermi verso la porta – Sul serio Ash, dovresti smetterla con questa storia –
Il mio suonò come un avvertimento o almeno ci provai a farlo apparire tale, ma lui scoppiò ugualmente in una risata. Ero ammirata dalla sua forza. Anche se stava male e soffriva aveva sempre un sorriso per tutti. Uscimmo dalla porta e me la chiusi alle spalle per poi avviarci verso il pub alla fine della strada. Ogni tanto lo guardavo di sottecchi; c’era una cosa che mi premeva dirgli, una cosa che avevo notato ancora più evidente delle altre volte proprio ieri sera:
- Posso farti una domanda? –
- Vai, spara – disse continuando a guardare la strada davanti a se con le mani infilate nelle tasche.
- Tu e Kayla… che intenzioni avete? -  a quella domanda notai un leggero cambiamento nella sua espressione, perciò sorrisi tra me e me mentre gli diedi una leggera gomitata.
- Di cosa parli? – cercò di svagare inutilmente perché il tremolio della sua voce lo tradì.
- Oh, andiamo Ash! Lo sai benissimo di cosa parlo! – esclamai sbuffando – Ieri sera vi stavate divertendo molto –
- È quello che facciamo sempre, no? – fece spallucce con un vago sorriso sulle labbra.
- Si ma ieri sera era diverso, forse era dovuto al fatto che entrambi avevate bevuto, ma ho notato come la guardavi –
- La nostra osservatrice – disse quelle parole con tono affettuoso, poi si voltò e sorrise circondandomi le spalle con un braccio ed avvicinarmi un po’ – Sempre pronta ad indagare, eh? – ridacchiò – Ti basta uno sguardo per capire tutto di una persona –
Sorrisi tra me e me. Quello era un nomignolo che mi fu attribuito dall’intera compagnia quando un giorno, mentre eravamo nel nostro locale, mi misi a fare un gioco con Beth: dovevamo capire, attraverso le loro espressioni, cosa provavano gli altri ragazzi. Ad essere sincera non credevo che avessi detto qualcosa di sensato. Li osservavo per qualche secondo e dicevo quello che sentivo a pelle. Che poi fosse la verità mi sorprese. In realtà non facevo poi molto, erano le loro espressioni a parlarmi, i loro occhi ed i loro gesti. Io li leggevo solamente. Camminammo in silenzio per un altro paio di metri fino a raggiungere il pub: da fuori sembrava abbandonato, ma non lo era; forse aveva la porta rotta e cigolante o le finestre un po’ sporche ma noi lo amavamo ugualmente. Quando entrammo l’odore di sigaretta misto a quello di birra mi arrivò alle narici; era rassicurante, sembrava che qui dentro il tempo non si fermasse mai. Le assi del pavimento cigolavano e scricchiolavano ad ogni passo come se da un momento all’altro avrebbero ceduto sotto il nostro peso, le pareti invece erano in muratura, una volta sicuramente erano dipinte, ma con gli anni si ridussero a dei vecchi muri grigi sui quali erano appesi almeno un centinaio di vinili e qualche chitarra. In fondo al locale, proprio in parallelo con l’entrata, c’era un piccolo palco dove delle volte si esibiva qualche band di quartiere; a destra invece c’era il mio oggetto preferito qui dentro: il jukebox. Adoravo quell’affare. Racchiudeva la migliore musica che fosse stata creata a partire dagli anni 50 fino ad oggi. Bryan era un patito della musica, infatti usava la maggior parte degli incassi per tenere sempre aggiornato il suo adorato jukebox e noi lo ringraziavamo di questo; non ci importava dell’odore di legno vecchio o della birra scadente finché c’era musica: la nostra musica. Ormai avevamo una specie di colonna sonora tutta nostra. Infine, nell’angolo a sinistra, c’era il bancone: lungo ed interamente di legno, che mi ricordava quelli dei vecchi saloon che si vedevano nei film western. Era un po’ scorticato e decisamente molto vecchio, quasi una reliquia, ma si adattava alla perfezione con l’anima del posto. Eccola lì la combriccola al completo, già a sparare scemenze a quest’ora con le sigarette tra le dita e le facce ancora sbattute per la sera prima:
- Guardate un po’ chi si è degnato di raggiungerci! – esclamò Michael allargando le braccia – Signore e signori Ross ed Ash, un applauso prego – aggiunse in modo teatrale invitando gli altri ad applaudire.
- Sta zitto Clifford – gli risposi lanciandogli un occhiataccia aggiungendo un sorriso mentre mi avvicinavo a loro salutandoli.
- La colpa è sua – disse Ashton indicandomi con un cenno – Non voleva svegliarsi – ridacchiò.
- Ma come fate ad essere così attivi dopo ieri sera?! – esclamai sedendomi tra Luke e Beth – Fatico ancora a reggermi in piedi –
- Beh questo perché ieri sera ti sei divertita più del solito – disse Calum facendomi l’occhiolino.
- Come se voi vi foste comportati da Santi! – guardai verso Ashton e Kayla che distolsero lo sguardo dal mio.
- Wow ragazza mia che faccia! – esclamò Luke iniziando a ridacchiare.
- Tu pensa alla tua di faccia se non vuoi che ti ci stampi sopra un bel ceffone – sorrisi sarcastica mentre bevvi un sorso del suo caffè.
- Ma che amore di ragazza sei – scosse la testa Michael ridacchiando divertito.
- Visto?! – esclamò Ashton cercando di fare la vittima – Per non dire come mi ha trattato a me prima – scosse la testa ed incrociò le braccia al petto fingendosi indignato.
- Ma povero il nostro Ash – lo prese in giro Joy dandogli una leggera pacca sulla spalla.
- Ashton Fletcher Irwin oggi tu cerchi le botte – lo indicai mentre cercavo di trattenere una risata.
- Uh si si, vogliamo una bella rissa! – esclamò Calum battendo le mani sul bancone tutto eccitato.
- Io scommetto su Ross – disse Michael alzando la mano.
- Già anche io – annuì Calum– KO al primo colpo – guardò verso Ashton che gli riservò un’occhiataccia da farci scoppiare tutti a ridere.
- Secondo me neanche si presenterebbe sul ring – ridacchiò Kayla voltandosi verso di me e battendomi il cinque.
- Molto probabilmente – annuì Beth fingendosi seria mentre bevve dell’altro cappuccino.
- Beh ragazzi, grazie della fiducia insomma! – ridemmo nuovamente tutti assieme mentre lui cercava di mantenersi arrabbiato.
Adoravo questi momenti dove bastava una parola, una risata o un piccolo gesto a migliorarti la giornata. Ci comportavamo così la maggior parte del tempo, sempre a prenderci in giro, a punzecchiarci e ad amarci così come eravamo. Semplicemente noi stessi. Tralasciavamo le cose inutili, i contorni, e ci concentravamo sulla sostanza; non importava se uno di noi o tutti avevano una situazione orribile appena tornati a casa o se eravamo dei fuori di testa, dei psicopatici o sociopatici o qualunque altro disagio ci potevano attribuire. Tra noi eravamo sempre bene accetti. Le ferite venivano curate, i problemi accantonati ed i cuori aperti ed ascoltati; eravamo la famiglia di noi stessi, il rifugio, il ritrovo durante lo smarrimento e l’ancora alla quale attaccarci quando ci sentivamo trascinar via. Eravamo la nostra salvezza:
- Ma scusa come ha fatto ad entrarti in casa? – domandò Beth ridacchiando con quel suo sguardo illuminato dalla sua naturale luce interiore.
- Aspetta, fammi indovinare! – esclamò Luke scambiandosi uno sguardo complice con Michael.
- Le chiavi sotto il vaso! – terminò Clifford facendomi alzare gli occhi al cielo.
- Ma davvero tieni una copia delle chiavi sotto il vaso? – mi chiese Joy cercando di trattenere una risata.
- Uffaa – sbuffai – Se qualcuno tira nuovamente fuori la storia di quelle dannate chiavi finisce male! – una risata generale riempì il locale
- Ma come fai a dormire tranquilla! Quello è il primo posto dove un ladro andrebbe a guardare – ridacchiò Kayla mentre aspirava dell’altro fumo dalla sua sigaretta.
- È quello che ho detto io! – esclamò Ashton alzando le braccia in aria.
- Sta zitto a nessuno interessa – lo schernii con un sorriso.
- Io invece credo sia forte – disse Beth con un sorriso e la sua immancabile espressione emozionata – Da molto film americano, quelli in cui c’è la coppia che litiga e le si barrica in casa ma lui a quel punto si ricorda del nascondiglio segreto delle chiavi… -
- Va bene, va bene – la interruppe Calum con un sorriso – È una figata, ok – le fece l’occhiolino facendola arrossire.
- Finalmente una persona che la pensa come me! – mi rivolsi a Beth abbracciandola – Che bello avere qualcuno che ti capisce – ironizzai.
- Ed io? – chiese Luke con un mezzo sorriso alzando le sopracciglia – Pensavo fossi io quello che ti capiva meglio di tutti – si finse offeso.
- Tu sei un idiota patentato Lukey – scoppiai a ridere coinvolgendo il gruppo.
- Ehi! Fanculo a tutti – scosse la testa ridacchiando per poi riprendere a bere il suo caffè.
- Buongiorno ciurma! – esclamò una voce profonda.
Ci voltammo e davanti a noi comparve Bryan. Lui era il classico rockettaro in pensione: aveva lunghi capelli neri che gli arrivavano alle spalle che teneva per la maggior parte del tempo legati in un codino improvvisato, gli occhi erano azzurri, ma di un azzurro spento, stanco. Un azzurro vissuto com’era lui. Aveva sempre il sorriso stampato sul volto e quando rideva mostrava la sua intera dentatura dove facevano capolino due denti d’oro, una cosa alquanto bizzarra e decisamente appariscente ma così era lui. Portava sempre i suoi inseparabili pantaloni di pelle, inverno o estate che fosse, non se ne separava mai; diceva che era grazie a quelli che anni fa ottenne il primo provino assieme alla sua band ed ora per lui erano tipo un portafortuna. Aveva un carattere sempre allegro e non rifiutava mai una risata o una bevuta. Anzi, per lui quelle due cose, assieme alla musica, erano i suoi pilastri sacri. Ridere, bere ed ascoltare buona musica: era questa la sua filosofia di vita, una filosofia che noi approvavamo in pieno:
- Ehilà Bryan! – salutammo tutti in coro.
- Cos’è questo baccano, eh? – scherzò – Pensavo che dopo ieri sera non vi avrei visto almeno per un po’ – rise con la sua voce un po’ roca portandosi la mani sui fianchi.
- Ed invece eccoci qua a romperti le scatole come al solito! – esclamò Michael alzando la tazza di caffè.
- Già – scosse la testa – State diventando una spina nel fianco –
- Ah, sta zitto, sappiamo che in fondo in fondo senza di noi ti annoieresti a morte – ridacchiò Beth.
- Ssh  – si sporse verso di lei – È un segreto però, non dirlo in giro – disse strizzandole l’occhio.
- Puoi contare su di me – rispose ripetendo la sua azione.
- Bene – si voltò ed incrociò il mio sguardo – Guarda un po’ chi abbiamo qui, Ross, l’anima della festa – ridacchiai a quel soprannome – Come va piccola? – mi domandò con un sorriso arruffandomi un po’ i capelli.
- Distrutta – borbottai poggiando la fronte sul bancone – Ma ancora non credo di rendere appieno quanto sono devastata –
- Tieni tesoro, bevi – mi porse una tazza di caffè.
- Grazie mille – la presi ed iniziai a berlo.
- Allora, che programmi avete per oggi? –
- Non abbiamo mai programmi noi Bryan – ripose Luke alzando le sopracciglia come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
- Perdona la mia ignoranza – ironizzò.
- Andremo all’avventura! – esclamò Beth strappandoci un sorriso.
- Non fate troppi danni, mi raccomando –
- Ma noi siamo un danno vivente – disse Kayla a metà tra lo scherzo e la verità.
- E tu Bryan? – domandai attirando la sua attenzione – Come mai sei qui se ci avevi detto che non avresti aperto questa mattina? –
- Ringrazia il tuo amico Ashton, è lui che mi ha convinto –
- Ecco riguardo questa parte, vorrei sapere come ha fatto – dissi guardando di sbieco verso di lui.
- Uh prevedo una situazione interessante – Calum si sporse sul bancone appoggiando il mento sul palmo della mano e mi guardò divertito mentre io gli riservavo uno sguardo al dir poco confuso.
- Abbiamo fatto un accordo – guardò Ashton ed io alzai le sopracciglia.
- Che accordo? Voi due non me la raccontate giusta – iniziai a preoccuparmi alla vista dei loro sguardi d’intesa.
- Non credo ti piacerà – ridacchiò Joy scuotendo la testa.
- Ragazzi, ragazzi andiamo! – esclamò Bryan – Così me la spaventate! -
- Ok, ora inizio a preoccuparmi sul serio – incrociai le braccia al petto – Che avete combinato? –
- E fai bene – bofonchiò Beth.
- Il qui presente Ashton Irwin mi ha proposto un accordo, il quale è basato su uno scambio: io stamattina avrei aperto e loro – indicò Ashton, Calum, Luke e Michael – Si sarebbero esibiti qua una sera – terminò soddisfatto.
- E allora? – li guardai con sospetto - Cosa centro io in tutto questo? –
- Beh vedi, sempre il suddetto Ash, ha detto che tu – mi indicò – Avresti cantato con loro –
Ci mancò poco che il caffè mi andò di traverso a quell’affermazione, mi girai verso Ashton e lo guardai con gli occhi sgranati mentre lui invece con tutta la tranquillità mi fece un cenno con la mano. Se gli sguardi potessero uccidere quel ragazzo sarebbe morto da un pezzo, ma ahimè, dovevo accontentarmi di guardarlo male e tirargli dei buffetti ogni tanto. Ora se ne era uscito con quest’altra pazzia, delle volte mi chiedevo se gli venisse naturale o se le preparasse prima. Probabilmente la prima. Mi consideravo, a modo mio, una buona amica, una fotografa, ed una decente scrittrice ma decisamente non mi davo della cantante. Più di una volta, quei pochi che mi avevano sentita cantare, mi avevano detto che ero intonata ma l’essere intonata non ti faceva automaticamente una cantante. Sicuramente questo sfuggiva alla comprensione di Ashton:
- Voi siete fuori di testa – proclamai scuotendo la testa.
- Questo si sapeva già tesoro – Bryan mi fece l’occhiolino – Allora, ci stai? –
- Assolutamente no! – esclamai.
- Oh, andiamo Ross! Fallo per il tuo adorato Bryan, eh? –
- Io ti uccido – feci una risata secca.
- Ehi, guarda se proprio te la devi prendere con qualcuno fallo con il tuo amico, io non centro niente – alzò le spalle.
- Oh no, qui la colpa non è nemmeno tanto di Ash ma di qualcun’altro – mi voltai verso l’interessato. Avevo intuito dal primo istante chi aveva spinto Ashton a proporre una cosa del genere – Vero Lucas? – domandai retorica.
- Ok, ok beccato - il biondo alzò le mani in segno di resa – Chiedo venia – aggiunse con un piccolo sorriso mordendosi il lato del labbro dove aveva il piercing.
- Questa me la paghi! –
- Arrenditi, oggi ce l’hanno tutti con te – rise Joy.
- L’ho notato! –
- Dai Ross, su, non essere arrabbiata! – mi guardò con quegli occhi azzurri come l’oceano cercando di fare un’espressione innocente – Mi perdoni? –
- Idiota… - bofonchiai passandomi una mano sul viso esasperata.
- Ma sono il tuo idiota preferito, no? – sorrise coinvolgendo anche me.
- Non ti allargare adesso – scossi la testa mentre continuavo a sorridere.
- Allora tesoro, possiamo contare su di te una di queste sere? – mi domandò Bryan con serietà – Vi offro due settimane di bevute gratis -
- Bryan, sinceramente, io non credo che… -
- Dai su, accetta, accetta – mi interruppe Luke cominciando a cantilenare dandomi delle piccole spinte.
- Ti odio – scossi la testa con un sospiro.
- È un si? – domandò Bryan entusiasta.
- È un si, tranquillo – disse Kayla al posto mio.
- Kayla! – la rimproverai
- Che c’è? Hai intenzione di dire di no e negarci da bere gratis? – alzò le sopracciglia – Che stronza egoista sei! –
- Va bene, va bene – sbuffai – Non sia mai che rifiuti da bere gratis per due settimane – tutti esultarono ed io scoppiai a ridere.
- E detto questo, ora musica! –
Esclamò Kayla per poi dirigersi verso il jukebox e facendolo partire. Tutti si alzarono dagli sgabelli entusiasti, Ash mi guardò e sorrise per poi precipitarsi da Kayla. Rimasi seduta ad osservarli e risi. Ridevo perché ero contenta di averli nella mia vita, perché mi rendevano felice. Erano tutto per me. Michael si stava dimenando come un pazzo, tutto faceva tranne che seguire la musica e Calum lo seguì a ruota mentre Joy e Beth li guardavano esterrefatte ma con un sorriso divertito sul volto. Luke mi afferrò di colpo per una mano e mi fece andare nel mezzo del gruppo ed in quel momento spensi il cervello iniziandomi a scatenare sulle note di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana. Quella canzone ci rappresentava nella sua pura essenza. Eravamo degli adolescenti, dei rifiuti ma soprattutto era così che ci sentivamo: degli spiriti.
 
  
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