Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: WhiteWitch    14/09/2015    2 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Nda: Holaaaaa. Dunque, prima di tutto mi scuso per aver saltato una settimana senza alcun preavviso e senza apparente motivo. In realtà sono oberata di studio, ho poco tempo libero e perciò sono rimasta indietro con la storia. Scusatemi!
Comunque spero di farmi perdonare con questo capitolo: eravamo rimasti in sospeso, Marie ha una notizia che sembra essere sconvolgente e immagino vogliate tutti delle risposte!
La storia è naturalmente anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 25.

Image and video hosting by TinyPic

 

«Allora, si può sapere cosa c'è da urlare tanto?».
Marie mi guardava con i suoi occhioni, più cerbiattosi ancora rispetto al solito, e giuro su Dio che la sua faccia era così impertinente e carina che pensai di doverle fare una foto per i posteri.
«Allora, voglio che tu ti sieda e che prenda un bel respiro».
Mi sedetti con lei al tavolo della cucina – piccola parentesi sulla casa di Marie: internamente era come la casa di Barbie – e solo allora notai che c'erano una bottiglia di vino da stappare e due calici appoggiati vicino al lavandino.
«Beviamo presto, oggi», commentai.
«Voglio festeggiare con te, amica!», trillò Marie. «Allora, ti ricordi che avevo spedito in giro un po' di curricula dopo la laurea?».
La cosa simpatica è che Marie è l'unica persona al mondo a usare la parola “curricula”: la gente non lo usa mai il plurale. «Sì, certo».
Mi squadrò con aria ammaliante, come se la sapesse più lunga di tutti.
«Oh, non dirmelo», feci io mentre iniziavo a capire il motivo di tanta agitazione. «Ti hanno assunta da qualche parte?».
«Il British».
Provai una sensazione strana, come se mi avesse appena detto di essere una strega di Salem reincarnata. «Il British? Quel British Museum?».
«Quanti ne conosci?».
Si vedeva lontano un miglio che non riusciva a trattenersi e che voleva a tutti i costi raccontarmi ogni cosa, quindi mi limitai ad appoggiarmi allo schienale delle sedie shabby e sorrisi. «Spara».
«Ah, non ci potevo credere!», urlò gesticolando. «In pratica avevo mandato questo curriculum senza aspettarmi assolutamente una risposta, ok? E infatti sono passati mesi».
«Un annetto».
Mi indicò con aria eloquente. «Esatto! Quindi davo per scontato che la mia richiesta fosse stata cestinata per sempre. E invece», aggiunse agitandomi davanti un foglio fresco di stampante, «ho ricevuto questa e-mail in cui mi viene detto che posso fare un colloquio!».
Il mio entusiasmo, lo ammetto, calò di una tacca. «Un colloquio? Credevo fossi già assunta».
«Ma mi assumeranno senza ombra di dubbio», gracchiò Marie, fuori di sé. «Vogliono una guida che sia di madrelingua francese per i gruppi turistici».
Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce se glielo avessi chiesto, ma Marie una volta aveva detto che “la metà dei turisti che va al British non capisce veramente una mazza di arte”. Perciò trovavo un po' ironico il fatto che sarebbe andata a fare proprio quello.
«Deve essere la pena del contrappasso», commentai.
Mi lanciò un'occhiataccia. «Insomma me ne vado in Inghilterra! Ti rendi conto?».
«Pianino», la frenai ridacchiando. «Vai in Inghilterra solo per un colloquio, giusto?».
«Beh», borbottò, «veramente il colloquio lo faccio dopodomani tramite Skype. Sai, non pretendono che io voli fin lì per niente. Ma è certo che mi assumeranno, figuriamoci».
«Qualcuno è sicuro di sé».
«Beh, chiaro! Laurea con lode alla Sorbona, che altro vogliono? Che mi bacino le chiappe!».
Risi forte. «Stappiamo, allora!».
Marie aprì la bottiglia di vino rosso e versò due calici, poi portò tutto in tavola. Diciamo che finire una bottiglia in due dopo il mojito con Paul non era una cosa mai fatta, ma ammetto che la mia abitudine all'alcool era diminuita parecchio nel corso del tempo. Non avevo quasi più toccato niente da quella notte a casa di Max, con tutto il casino che ne era seguito.
«E, ehm, Jeannot cosa dice?».
Mi guardò al di sopra del bicchiere. «Eh?».
«Che ne pensa del trasferimento?».
All'improvviso esitò e appoggiò lentamente il calice sul tavolo. «Oh, io... Non so, non gliel'ho ancora detto».
«Cosa ne pensava quando hai spedito il curriculum?».
«Oddio, non è che io glielo abbia proprio detto detto», borbottò. «Potrebbe, e bada che dico “potrebbe”... Ecco, potrebbe essermi sfuggito».
La fissai per un po' con un mezzo sorriso. «Fammi capire. Jeannot non sa niente?».
«Beh, certo che se la metti così sembra veramente orribile da parte mia».
«Chi sei tu e cosa hai fatto alla mia amica?».
Marie scosse il capo violentemente. «Oh, andiamo! Non mi aspettavo che mi avrebbero risposto per davvero! Ho spedito il mio fascicolo quasi per gioco».
«Marie, io non sono la persona più sveglia della galassia, ma perfino io lo so che non si spedisce un curriculum per gioco».
Abbassò lo sguardo. «Lo so, hai ragione. Glielo dirò appena torna a casa, lo prometto».
Versai un altro bicchiere per entrambe. «Se ti dicessero che il colloquio è andato bene che farai?».
Mi guardò con aria ferita. «In quel caso accetterò. Sarà sempre meglio che lavorare al bar e potrò fare quello che mi piace, no?».
Annuii. «Capisco».
«E Jeannot verrà con me», aggiunse annuendo. «Sicuramente».
Sembrava trovare molto intrigante una venatura nel tavolo di legno. Io mi limitai a fissarla, in attesa che saltassero fuori le magagne.
«Oh, merdaccia!», sbottò alla fine. «E se non volesse venire? E se mi chiedesse di scegliere? Io lo amo davvero, ma si tratta del mio futuro! E se non capisse? E se non fosse quello che vuole lui?».
«E se ti stessi inventando dei problemi che non esistono?», suggerii.
Mi ignorò completamente. «No, no, no! Non verrà mai con me fin laggiù, parliamo dell'In-ghil-ter-ra, è così lontana da qui», esalò. «Lontana dai suoi genitori e dagli amici. Jeannot non ci verrebbe mai!».
«D'accordo, ora ti darò il parere esterno di cui hai bisogno», sospirai. Mi sporsi in avanti, verso di lei. «Jeannot ti ama così tanto che se dovesse scegliere tra te e il mondo sceglierebbe sempre te. Lo so, si vede. È come se...». Riflettei, cercando il modo giusto per esprimere ciò che pensavo. «Come se foste destinati a questo. A voi due. So che sembra una cazzata, ma sono molto seria. È come se qualcuno, milioni di anni fa, avesse deciso per voi questa cosa. Non potete stare separati, capisci? Sarebbe come se all'improvviso il Sole morisse».
Marie aggrottò la fronte. «Avremmo solo otto minuti di vita, allora».
Sul momento pensai di mandarla a quel paese, poi decisi che quel commento apparentemente inappropriato non stava così male. «Otto minuti di vita», ripetei. «Sì, esatto. Se tra voi finisse, credo che avremmo otto minuti di vita».
Marie mi sorrise. «Grazie».
«Non hai creduto ad una parola, vero?».
«In effetti no, ma apprezzo molto quello che hai detto».
Levai le tende all'arrivo di Jeannot e per una volta chiusi le porte dei due appartamenti. Il fatto di essere dirimpettai rendeva l'intero pianerottolo come una grande casa. Però immaginavo avrebbero avuto bisogno della loro privacy.
Mentre mi lambiccavo domandandomi se fosse meglio ordinare cinese o se non fosse meglio cucinare qualcosa per cena, mi sforzai di immaginarmi una Parigi senza Marie.
Mi sembrava impossibile. Era come l'Inferno senza Lucifero. Marie incarnava l'essenza stessa di Parigi, era come uno stereotipo con le gambe; non nel senso che non avesse personalità, ma perché se chiunque di noi pensa alla tipica ragazza parigina si immagina una che è tale e quale a Marie: bellissima in qualsiasi cosa faccia, mai in disordine, sofisticata e felicissima. E innamorata, non dimentichiamoci di quello: l'amore.
Era come se dentro di me avessi dato per scontato che Marie sarebbe rimasta con me in eterno. Non ci eravamo mai lasciate da quando ci eravamo conosciute, mai, nonostante le discussioni e le incomprensioni. Ormai erano quasi sette anni. Era una sorella per me e capire all'improvviso che era cresciuta, che era diventata adulta e che prima o poi se ne sarebbe andata fu come una frustata sulla faccia.
Come avrei fatto se, per ipotesi, avessi avuto bisogno di lei alle tre del mattino e Marie non avesse potuto rispondere al telefono perché magari aveva due poppanti in casa e un lavoro a tempo pieno?
Era giusto. Sapevo che era giusto, lo sapevo perché a parti invertite io avrei accettato quel lavoro senza colpo ferire. Però un cantuccio del mio cuore non riusciva in alcun modo ad essere felice per lei. Un cantuccio che si sentiva un po' abbandonato.
Non c'era nessuno in casa, Manuel e Jacques avevano affittato un appartamento al mare per un paio di giorni di intense scopate – o almeno mi immaginavo qualcosa del genere – e così decisi di fare una cosa che mi rilassava sempre, indipendentemente da quanto le cose andassero male.
Custodivo i miei tesori in una scatola rossa piuttosto capiente, in camera mia, perché se Jacques li avesse trovati avrebbe riso fino allo sfinimento e non avevo intenzione di farmi prendere in giro da lui.
Presi la scatola.
Mi infilai un pigiamino estivo e tolsi dal freezer una vaschetta di gelato enorme.
Aprii la scatola.
La mia collezione di film di Audrey Hepburn mi sorrise con trepidazione non appena tolsi il coperchio.
«Ciao, tesorini», li salutai con amore materno.
Di cosa avevo voglia? Di Cary Grant? O di Humphrey Bogart? Optai per il confortante Fred Astaire in Cenerentola a Parigi. Sembrerà un cliché, ma avevo bisogno di sentirmi dire che quella era ancora la città dei sogni, proprio come avevo sempre creduto.
«Ora ascoltami bene», disse Fred Astaire mentre accompagnava Audrey Hepburn al binario della stazione dei treni, «oggi non sei felice».
Audrey ed io mormorammo: «Allora sono triste?».
«Esatto», rispose lui, «sei in una situazione tragica. Tu piangi, tu soffri, sei come Anna Karenina!».
Io feci una smorfia – la stessa di Audrey – e recitammo insieme: «Devo buttarmi per caso sotto il treno?».
Dopo quel sano, familiare scambio di parole mi sentii di nuovo in ottime mani e mi lasciai coccolare da Audrey per tutta la sera, indipendentemente dal turno del giorno dopo. Dentro di me mi sentivo di nuovo meglio e mi mangiai con pasciuta soddisfazione un chilo e mezzo di gelato alla stracciatella.

***

Sognai George, quando finalmente mi decisi a trascinarmi a dormire. Mi piace pensare che sia stata la mano gentile di Audrey calata direttamente dal Regno dei Morti a concedermi di rivederlo, anche se ammetto che avrei preferito che non accadesse.
Non ricordo i particolari, durò solo un momento, ma potei sentire distintamente il suo odore. Lo sentii come se fosse stato in camera mia, come se avessi annusato i suoi capelli, mi riempì le narici ed il cervello, mi si insinuò perfino in bocca e in gola.
Quando mi svegliai avevo il suo sapore sulla lingua. Fuori era ancora buio e non riuscii a distinguere la mia mano che correva alle labbra, domandandomi se fosse tutto vero. Avevo il suo sapore sulle labbra. Come se avessi appena smesso di baciarlo.
Il suo odore e il suo sapore, uniti insieme per darmi una sensazione di eccitazione che non provavo da mesi. Scivolai sotto le lenzuola nonostante il caldo soffocante e mi rannicchiai, domandandomi cosa mi stesse prendendo.
Non sono mai stata una da autoerotismo. Per la verità non ne avevo mai avuto bisogno. C'era sempre qualcuno, nei momenti di voglia. Eppure mi ero svegliata con uno strano desiderio, un calore al livello del basso ventre che non riuscivo a scacciare e sapevo benissimo cosa fosse.
Da un lato non c'era nessuno lì a giudicarmi. Dall'altro era come se non volessi cedere. George aveva trovato il modo di stuzzicarmi anche a distanza: non volevo dargliela vinta, non volevo proprio.
Eppure lo desideravo così tanto. In quel momento gli sarei saltata addosso, lo giuro, non so cosa gli avrei fatto. Non avevo voglia di sesso, avevo voglia di George.
Mi aggrappai con tutta me stessa alle sensazioni provate in quel sogno. Cercai di rievocare la calda sensazione di tepore che avevo sentito in quel breve momento onirico, mi impegnai per impedire al suo odore di sfuggirmi. Avevo la bocca impastata di lui, come se fosse stato lì. Alla fine cedetti e feci scivolare la mano più in basso, nei pantaloncini azzurri del pigiama.
Sono in molti, anche fra le donne, a considerare la masturbazione come un “lavoro da uomini”. Non penso affatto che sia così e credo che molte ragazze lo facciano: non c'è niente di male. Io, come ho detto, non ero il tipo, almeno non di solito.
Eppure impiegai mezzo secondo per immaginarmi George chino su di me. Finsi che fosse lì, che mi stesse baciando come faceva prima, con foga, con rabbia. Finsi di divorargli la pelle del collo, mentre nella mia fantasia le sue mani si muovevano su di me, sul ventre, sulle cosce, come se non fosse mai cambiato niente.
Era come se la sua saliva stesse davvero scavando un solco sul mio seno, come se fossero le sue dita, e non le mie, a darmi piacere nel buio.
Mi piace pensare, anche se so che è una pura illusione, che lui stesse facendo la stessa cosa dall'altra parte della città. So che sembra una cosa sporca, lo capisco. In quel momento, però, era l'unico modo che avevo per convincermi che non era ancora finita.
La verità è che non riuscivo a lasciarlo andare.
E così mi immaginai che fosse lui a non volermi lasciare andare, quella sera, che fosse lui quello a cui importava ancora e che fossero i suoi gemiti ad accompagnare i miei – quando invece i miei sospiri erano accompagnati solo da loro stessi.
Alla fine mi rilassai. Passato il momento riemersi dalle lenzuola, accaldata e fisicamente libera, ma per nulla appagata. Perché ora l'avevo perso, avevo smarrito il suo odore e il sapore e non c'era nessuno in camera mia.
Non era servito a niente ed ero ancora più inerme di prima. D'un tratto, senza preavviso, mi domandai cosa stesse facendo Paul. Non per un improvviso, rinnovato interesse per lui, ma solo per curiosità. Solo per sapere se il karma aveva davvero deciso di premiarlo per avermi sopportato dandogli la donna giusta per lui, dandogli Clothilde. Mi domandai in quale paradiso di zucchero stessero dormendo, in quale splendido sogno stessero vivendo.
Me ne rimasi lì, incapace di dormire di nuovo.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: WhiteWitch