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Autore: Jeanger    16/09/2015    0 recensioni
Artemisy pensava di essere una normale ragazza di New York con un passato un poco tumultuoso, ha sempre fatto strani sogni ma pensava fossero piccole paure del passato rimaste. Invece scopre che tutta la sua vita è un bugia, viene trascinata da un misterioso bellissimo ragazzo in un mondo che sembra uscito da un fantasy e scoprirà la vera se stessa, tra mille avventure e nemici e la nascita di un nuovo amore che le spaventa.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 1 – Incontri
Mi svegliai di soprassalto. Ero completamente sudata fradicia. Il mio cuore batteva forte. Strizzai gli occhi un paio di volte prima di mettere a fuoco la stanza.
Mi guardai le mani. Girai i palmi, mi toccai il viso, il corpo.
Ero ancora intera. Non mi ero disintegrata.
Mi guardai in giro.
La stanza era buia, la lucina della notte che mettevo sempre vicino la porta si era fulminata, per fortuna però la luce del giorno spuntava dalle tapparelle delle persiane.
Mi alzai e scesi di sotto in cucina.
Mia madre e mio padre adottivi erano già a lavoro.
Accesi la tv e guardai il telegiornale di New York.
La solita storia. Morti, Rapine, Truffe, Borsa in crollo. Cambiai canale e decisi di buttarmi sull’allegro: i cartoni animati.
Mangiucchiai la mia ciotola di cereali per un po’, prima che mi squillasse il telefono.
Lo guardai come se fosse qualcosa di alieno, poi allungai un braccio e lo afferrai.
-Pronto- dissi mentre inghiottivo una manciata di cereali.
Nessuna risposta.
Sentivo però un respiro contro la cornetta.
Aspettai un minuto buono, poi dissi: -Al diavolo- e riattaccai.
Quella mattina mi sentivo proprio di malumore, così decisi che era il momento adatto per andare a correre.
Andai di sopra e aprii le finestre della mia camera, facendo entrare un po’ d’aria fresca, poi mi misi davanti l’armadio, rovistai dentro, presi un paio di leggins neri, una maglietta larga, scarpe da ginnastica, mi misi davanti lo specchio e legai in una stretta coda di cavallo i capelli neri. Mi guardai. Avevo profonde occhiaie che contornavano gli occhi verdi.
Non mi truccai, anche perché con quel caldo e la corsa sarei diventato un allegro panda in meno di due minuti, presi il contachilometri, mi misi le chiavi in un marsupio e uscii di casa.
Quella mattina il mio obbiettivo era raggiungere Central Park, farci un giro, e poi tornare.
Sperai di non morire nell’impresa.
Le vie della città erano affollate, come sempre, i ragazzini che marinavano la scuola si aggiravano allegri, gli impiegati con le valigette camminavano a passo spedito nei loro gessati, le nonne portavano in giro i nipotini con il passeggino. Finalmente intravidi il grande verde del parco e mi sentii più felice. Central Park era in assoluto il mio posto preferito. Tutto quel verde sembrava voler combattere lo smog e il grigio di quella grande città.
Feci un giro, poi, stanca, decisi di sedermi due minuti a riprendere fiato.
Mi sedetti sull’erba e chiusi gli occhi, lasciandomi inondare dalla calda sensazione dei raggi del sole sulla pelle.
-Ehm…-
Mi voltai di scatto.
Davanti a me era arrivato silenziosamente un ragazzo. Lo guardai aggrottando le sopracciglia. A New York ne girano di tipi strani, ma questo! Sembrava che si fosse infilato dentro un armadio, ci avesse fatto la lotta e ne fosse uscito sconfitto.
Indossava degli enormi pantaloncini per fare surf, fucsia con i fiori gialli con sotto  una calzamaglia blu notte infilata dentro stivali da cowboy bianchi, sopra invece un maglione a mezzamanica, enorme anche quello, che lasciava una spalla scoperta da cui si vedeva una bretella di una canottiera da basket. Il tutto corredato da una sciarpa blu che aveva appeso in vita come una cintura e degli occhiali da sole gialli che aveva appeso al collo come collana.
Mi guardai attorno in cerca della telecamera. Era uno scherzo?
-Ciao- mi disse sorridendo, cercando di sembrare amichevole. La prima cosa che notai nel suo sguardo, furono gli occhi di un nocciola chiarissimo, che sembrava quasi giallo. Aveva il viso squadrato, il mento con un leggero accenno di barbetta, i capelli spettinati neri e la pelle abbronzata.
-Ciao- dissi io non molto convinta.
-Posso parlarti?-
Sbattei gli occhi un paio di volte.
Non mi piace quando mi si avvicinano i ragazzi. Non mi piacciono i ragazzi punto. Non che fossi lesbica, e non ci sarebbe niente di male, ma semplicemente mi ricordavano il mio passato e non li volevo tra i piedi.
-Scusa, ma devo proprio tornare a casa-
-Aspetta, devo davvero parlarti-
-Scusami, ma non posso- e scappai via. Lui rimase lì a guardarmi andare via con quello sguardo affranto, poi si sedette sul punto dove poco prima ero io e si guardò la punta dei piedi distesi davanti a lui.
Che tipo strano.
Quando tornai a casa, mia madre era in cucina che combatteva contro le padelle. Non era molto brava a cucinare.
-Ciao mamma!- dissi io entrando. La trovai con un mestolo come spada e un coperchio come scudo, mentre cercava di ripararsi dagli schizzi di olio delle patatine che stava friggendo.
Mi avvicinai sicura, abbassai la fiamma, le tolsi di mano il coperchio e lo misi sulla padella.
-Lotta alle patatine!- dissi io.
Mia madre sorrise. Aveva i capelli rossicci, la faccia completamente spruzzata di lentiggini, la pelle tanto bianca da sembrare latte, gli occhi chiarissimi.
-Che madre disastrosa- si prese in giro.
Mia madre, era un disastro in molte cose, tra cui cucinare, ma era un genio del design. Aveva studiato in un’accademia da quattro soldi quando aveva la mia età perché non aveva molti soldi, ma era comunque riuscita ad emergere. Un agente aveva notato alcune sue opere di design e si era interessato a lei facendola entrare nel suo giro di designer. Aveva un marchio di mobili per la casa che gli faceva fruttare molti soldi.
Mia madre era molto contenta del suo lavoro. Aveva incontrato suo marito, il mio padre adottivo, proprio grazie a quel lavoro. Erano due designer emergenti e all’inizio si erano fatti la guerra, ma come si sa, l’odio è solo l’altra faccia dell’amore, e i due si erano innamorati, per poi sposarsi.
Mi avevano trovato quando ancora avevo sei anni e da allora erano diventati la mia famiglia.
Cercai di scacciare i ricordi precedenti a quel periodo. Mi rattristavano sempre.
Mi faccio una doccia e vengo a darti una mano, va bene? Prima che ti faccia saltare in aria tutta la cucina.
Ovviamente, ogni mobile della casa era stato progettato da mia madre e mio padre.
-Va bene!- disse lei. -Fa presto, prima che le patate prendano vita-
-La rivolta delle patate!- dissi correndo in bagno.
Quando ebbi finito, m’infilai un vestito leggero e mi legai i capelli ancora bagnati.
L’aiutai a finire di cucinare le patatine e il resto del pranzo.
-Papà viene per pranzo?-
-No, Richard oggi ha molto da fare. Il mio capo gli sta dando filo da torcere. Vuole che prepari una nuova collezione e la presenti entro il fine settimana-
-Uhm-
-Già, ho provato a dargli una mano, ma le mie idee non gli piacciono. Mi sento un poco offesa-
-E’ sotto stress, lascialo in pace- dissi io.
Dopo pranzo, mi ritirai in camera mia e presi il mio cavalletto da pittrice.
Guardai il quadro che stavo dipingendo. Non sapevo come, ma un giorno mi ero svegliata di colpo, avevo preso la tela e  cominciato a disegnare quello che adesso guardavo perplessa, mentre il ricordo del sogno di quella notte si rifaceva nitido.
Non ci avevo pensato quella mattina, ma il disegno rappresentava esattamente la sala del sogno, con la vasca di cristallo, l’acqua nera, il fuoco azzurro della candele, la pietra scura.
Come avevo fatto a disegnarlo? Ero sicura di non averlo mai sognato prima di allora.
Rabbrividii.
Un altro tassello da aggiungere alle cose inquietanti che ultimamente mi succedevano.
Spesso mi sentivo come osservata, avevo una strana sensazione addosso, come di pericolo.
Avevo notato alcuni sguardi strani di passanti vestiti in modo strano ultimamente, come quel ragazzo che mi aveva fermato stamattina.
Presi i pennelli e continuai a dipingere, cercando di rilassarmi. Non ci riuscii, accesi il computer e cercai una playlist del mio cantante preferito. Alzai il volume al massimo e mi rimisi all’opera, cantando a squarciagola. Andava decisamente meglio.
  
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