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Autore: PeaceS    16/09/2015    4 recensioni
Sequel di 3.00am
Lord Voldemort sembra scomparso: nascosto nell'ombra e in attesa di recuperare le sue forze, ricorda ai suoi avversari sporadicamente la sua presenza. Sono passati due anni e le premesse di Angelique si sono avverate: lui non è nel pieno delle sue forze e Albus Potter viaggia ininterrottamente per trovare un modo - un piano - che possa salvarli tutti. Nel mentre, Chrysanta Nott ritorna, ma il suo cuore appartiene già a qualcuno.
Il tempo passa e la verità sta per venire a galla: la vera identità di Scorpius sta lottando per uscire e lei, nonostante cerchi di cancellare ciò che è stato, sa che non sarà così facile.
Jackie Alaia e Joanne Smith giocano con i morti e Dalton Zabini con un libretto che, due anni prima, aveva reso Lily un mostro senz'anima.
Alice Paciock è passata al lato oscuro e si dice che suo fratello, ora, sia in giro per Londra... a dissanguare innocenti - e cercare di evitare l'unica donna che avesse mai amato, Roxanne Weasley.
Lucy Weasley, invece, è sempre più vicina al suo destino. E tra Mangiamorte, Demoni e Angeli, sente il fuoco dell'inferno cercare di bruciarla da dentro.
Lucifero è dentro lei.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Draco/Hermione, Harry/Ginny, James Sirius/Dominique, Lily/Scorpius
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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III.

 

 

 

La raggiunse di spalle e le accarezzò delicatamente il fianco nudo. I loro occhi s'incatenarono quando lei alzò lo sguardo verso lo specchio – sorpresa e lui sorrise appena, baciandole con dolcezza il collo inclinato.
Portava ancora i segni della sua bocca sulla pelle pallida e Dalton strofinò il naso dove il segno delle sue dita spiccava livido.
"Devi andarci per forza?" si lagnò, attirandola verso di sé e abbracciandola con irruenza da dietro.
Joe passò il rossetto prugna sulla bocca carnosa e annuì, rivolgendo l'attenzione al proprio riflesso; aveva un vestito di cotone aggrovigliato sui fianchi, forse per non macchiarlo con il trucco e l'intimo era di pizzo.
"Non è obbligatorio!" si stizzì Dalton, allontanandosi di scatto e dirigendosi verso il comodino di legno accanto al letto a baldacchino di quella stanza che oramai condividevano da anni.
Lei sbuffò, arricciando le ciglia con il mascara e risvegliando in lui quel mostro verde che ultimamente gli teneva sempre di più compagnia. La gelosia sembrò divorarlo da dentro, causandogli un sussulto appena percepibile ad occhio esterno.
"Non fare il bambino, Zabini. È solo una cena ed io non posso di certo passare la serata a letto con te" sbuffò Joe, alzando il vestito e coprendo i fianchi, un quarto delle braccia e lasciando – con uno scollo a V – il seno appena scoperto.
Dalton si accese una sigaretta con un sorriso triste sulla bocca e si sedette sul davanzale di legno accanto alla finestra spalancata. Tirava aria gelida fuori e un brivido lo scosse mentre tirava con forza dal filtro.
"Perché no?"
Joe si bloccò con una catenina d'oro bianco tra le mani a mezz'aria e spostò lo sguardo per fissarlo – senza capire. Senza voler capire. Era così strano in quel periodo... sembrava ossessionato da qualcosa; Dalton era quasi sempre di cattivo umore e la rimproverava per qualsiasi cosa.
"Mi dici cos'hai?" mormorò, allacciando la catenina al collo e sciogliendo i capelli lungo le spalle.
Così neri, lunghi e lisci da fare invidia. Così morbidi al tatto e profumati, come lo erano stati ad Hogwarts. Dalton strinse i denti attorno il filtro e continuò a tirare con rabbia – cercando di trattenere l'istinto di afferrarla per i capelli e sbatterla al muro. Incatenarla, nasconderla al mondo, marchiarla come sua e sua soltanto.
Lei era sua, perché la guardavano?
Lei era sua, perché si lasciava toccare, guardare, parlare? A Dalton sembrava di impazzire e non gli piaceva. Tutto quello non gli andava giù.
"Nulla. Stasera esco anch'io." mormorò, spegnendo la sigaretta nel posacenere di cristallo sul davanzale e alzandosi pigramente – con solo i boxer addosso.
Joe guardò le sue spalle larghe, i pettorali definiti e le gambe scattanti. Fissò la sua pelle color moka e i capelli neri e gli occhi azzurri, sentendo il cuore accelerare così tanto da farle credere un infarto.
"D...d-ove vai?" balbettò, dando finalmente le spalle allo specchio e guardandolo persa, come ogni qualvolta che si parlava di lui e la possibilità che potesse sfuggire al suo controllo.
Ma Joe lo sapeva. Non poteva tenerlo incatenato per sempre.
"Vado a bere. Chiamo Nott e gli propongo una serata tra uomini" rispose, senza assumere espressioni di sorta.
Joe guardò la bocca carnosa e il naso delicato alla francese e gli zigomi pronunciati, massaggiandosi il petto con insofferenza.
Perché? Perché doveva essere così? Perché Joe doveva sentire la paura uccidergli i sensi ogni volta che lui usciva fuori da quella camera senza di lei?
Era diventata qualcuno che odiava solo per... solo per essere alla sua altezza. E si odiava. Ah, se si odiava.
"Hm." soffiò, abbassandosi per allacciarsi i decolté dal tacco alto.
Dalton s'infilò un paio di jeans scuri, evitando di guardarla afferrare la borsetta dalla catenina dorata e fissarlo – oramai pronta.
"Vado... a dopo, allora" e con questo uscì, chiudendosi la porta alle spalle e ignorando il vaso che s'infranse contro di essa una volta che si fu allontanata.
Strinse i denti e cercò di calmare il tremolio alle mani: sarebbe stato capace di ucciderla un giorno. Soffocarla con le stesse mani con cui l'accarezzava. Con cui l'amava.
Doveva uscire di lì. S'infilò velocemente una maglia a maniche lunghe nera, come il suo umore e si smaterializzò velocemente, bestemmiando in tutte le lingue che conosceva.
Era diventato un incubo. Oramai la sua rabbia era diventata incontrollabile e Dalton credeva davvero di non riuscire a fermarsi, un giorno, quando l'ira sarebbe arrivata alle stelle.
"Quante cazzo di volte ti ho detto di non materializzarti a casa mia senza prima avvisare, Zabini?" le urla di Thomas lo risvegliarono dal suo stato catatonico e Dalton si beccò un cuscino in testa – che lo stordì.
"
Ma che cazzo..." sbottò, cercando di capirci qualcosa e girarsi, visto che stava guardando il muro, quando gli arrivò un secondo cuscino dietro la nuca.
"
Non girarti, cazzone, siamo nudi!"
Oh, oh! Dalton sogghignò sadicamente, pensando a quello che aveva interrotto e nel mentre si beccò dietro l'ennesimo cuscino.
"
Che ho fatto ora?" rise bastardamente, coprendosi la testa con le braccia per impedire alla scarica di cuscini di mandarlo con le gambe all'aria.
"Ci hai disturbato nella fase rem, brutto bastardo!" sibilò Rose Weasley, buttandogli le braccia al collo da dietro e arrampicandosi sulla sua schiena come una scimmia.
"
Sai quanto mi dispiace, donnola!" ridacchiò cattivo, beccandosi uno scappellotto sulla nuca.
Lei lo lasciò e finalmente Dalton potette ammirarla in tutta la sua bellezza. Ah, che donna era diventata Rosaline Weasley. Forte, sicura, bella e orgogliosa come lo era sua madre.
I capelli ricci e rossi, lunghi e sciolti sulle spalle e gli occhi azzurri di suo padre – determinati e decisi. Portava una maglia maschile che le arrivava oltre le ginocchia e Dalton le scompigliò dolcemente i capelli, sorridendole.
Una magiavvocatessa con i fiocchi, su questo non c'era che dire. Mandava dentro chi doveva mandare e si beccava fior di quattrini, su quello non c'era dubbio; Rose aiutava anche chi non poteva permettersi un magiavvocato – per lei contava solamente essere dalla parte della ragione, punto.
“Cosa ci fai qua, Dalton?”
Tra di loro si era instaurato... una specie di rapporto, ecco. Un qualcosa che andava oltre la parola ed era arrivato all'improvviso – legandoli con una sorta di filo rosso, impossibile da spezzare, ma che non era visibile a tutti.
“Joe è uscita” borbottò con una smorfia, trattenendosi dal dire anche gnegne, in barba a chi diceva che non era cresciuto affatto dai tempi di Hogwarts.
“Scommetto anche che ti sei incazzato” sbuffò Tom, raggiungendoli in jeans e maglia bianca. Aveva una sigaretta in bilico tra le labbra e Dalton cadde in ginocchio, abbracciandolo per le gambe.
“Lei è cattiva con me” piagnucolò, mentre Tom cercava di spingerlo via a calci.
“C'ha ragione, porco!” sibilò Thomas, assestandogli un quarantadue di piede dritto in faccia e facendolo crollare all'indietro.
“Oh, andiamo” sbuffò Rose, trucidandolo con un occhiata e aiutando Dalton ad alzarsi – mentre questo ancora piagnucolava disperatamente.
Tom si portò due dita alle tempie: quel bastardo fedifrago stava fingendo palesemente per far pena a Rose e trascinarselo in un bar dove buttare il fegato in alcool. Oramai lo conosceva bene.
“Questa è la mia sera libera, maledizione! Vorrei passarla con la mia futura moglie, mi è permesso o per tutto il resto della mia vita devo fare la balia a te e la Smith?!” sbraitò fuori di sé, ma i gemiti strozzati di Dalton quasi superarono le sue urla – facendogli quasi spuntare corna e coda per la rabbia.
“Ti prego...” piagnucolò, con un bernoccolo sulla fronte e mezzo collassato su Rose, che lo fucilò con i suoi bellissimi occhi azzurri.
E mezz'ora più tardi si ritrovò quel bastardo a braccetto con la sua fidanzata in un pub Babbano, tutto contento e cinguettante e con una birra alta quasi quanto lui tra le mani.
“Ti odio” gli sibilò all'orecchio, dandogli una gomitata nelle costole e facendogli quasi sputare un polmone.
“Oh, andiamo! Avevate appena finito di fare sesso! Non t'ho negato nulla che non avessi già fatto” sibilò Dalton, scuotendogli una mano davanti al viso come per scacciare una mosca molesta.
“Non siamo tutti porci come te, sai?
In una vita di coppia c'è anche altro oltre al sesso” sbottò Tom, scolandosi la sua bionda tutta d'un fiato.
“Che Merlino ti inculi, bastardo! Ho speso mille sterline la settimana scorsa solo per mangiare due gamberetti striminziti su una barca di merda, dove soffro anche mal di mare, e senza nemmeno fare sesso!
Se non è amore questo, allora qual'è?” disse contrariato, mentre Rose sbatteva sorpresa le palpebre.
Ma sì, pensò Tom furioso.
Dille quanto cazzo spendi, pensò ancora. Così magari dopo avrebbe pensato che lui non faceva abbastanza.
“Credo che sia meglio andare via” mormorò Rose, continuando a muovere rapidamente le ciglia – come sorpresa e delusa da qualcosa.
"
Visto, l'hai fatta incazzare!” sbottò Dalton, guardandolo con rimprovero e senza sapere di essere quasi morto per mano del suo migliore amico.
“Io? Ma se sei tu che stai urlando come una checca isterica” sibilò Tom, sul punto di mettergli le mani alla gola.
“Seriamente, ragazzi, andiamo via” ora Rose sembrava agitata e se Dalton, che era veramente stupito, sembrò non averla sentita, Thomas, preoccupato, seguì la traiettoria del suo sguardo e gelò sul posto.
Oh no, pensò.
No, no, no, no!
“Ma dai, Rose... non fare così” borbottò Dalton, assumendo la sua tipica espressione da cucciolo smarrito. Non capiva perché facesse così. In fondo era abituata ai battibecchi tra lui e Tom o tra lui, Tom e Scorpius, era come se oramai avesse infilato nelle orecchie, insieme a Lily, una sorta di tappo che le impedisse di ascoltare tutte le loro idiozie.
“No, ha ragione lei. Andiamo via, mi sto annoiando” balbettò Nott, con gli occhi blu sfuggevoli e lì Dalton non si lasciò ingannare.
“Oh, ma si può sapere cosa santissimo Merlino vi...” e girandosi non riuscì a completare la frase.
Di solito, quando la sua gelosia diventava asfissiante, Dalton trovava sempre la forza di dargli le spalle e non lasciarsi sopraffare. Di solito, Dalton, quando non riusciva a contenersi, si smaterializzava lontano da lei – per impedire di commettere qualcosa di irreparabile.
Per non farle del male. Per non farsi del male.
“Ah”
Rose gli strinse immediatamente la mano, spaventata e Tom si alzò di scatto – come a volergli fare da scudo. Come a volerlo proteggere come a volte succedeva ad Hogwarts, come lo aveva protetto quando era piccolo e lui non sapeva farlo.
“Andiamo via, Dalton” la voce di Rose era supplichevole, ma Zabini sembrava impietrito. Guardava dinnanzi a sé con il vuoto nei bei occhi azzurri e Rose poté avvertire bene lo spasmo che colse la mano stretta tra le sue.
“Dalton, non fare sciocchezze...non ne vale la pena e hai avuto già tre richiami dalla polizia Babbana. Alla prossima ti sbattono dentro e ad un minimo controllo sapranno che tu nemmeno esisti!” sibilò Tom, afferrandolo per il lembo della maglia e tirandolo come fa di solito un bambino con la gonna della madre.
Con la coda dell'occhio mirò alla direzione del suo sguardo e vide Joe sedersi in un angolo e ridere per qualcosa che aveva sicuramente detto il suo accompagnatore; Tom non aveva mai visto quel tizio ronzare attorno a Joe, ma una volta – se la memoria non lo ingannava – lo aveva visto al San Mungo, nello stesso reparto della ragazza.
“Era una cena di lavoro” sussurrò Dalton con voce impastata.
Sembrava quasi perso in un mondo tutto suo e a Tom non piacque quello sguardo. Dalton aveva covato quasi un'ossessione morbosa nei confronti di Joe; da quando, durante la battaglia di Hogwarts, lei aveva ucciso l'assassino di sua madre... sembrava quasi che non riuscisse a staccarvici. Dove c'era lei, automaticamente appariva lui e quando lei non c'era, Dalton sembrava quasi la metà marcia di una mela o un'anima in pena.
“Capisci, Tom? Era una cena di lavoro” disse, guardandolo con occhi vacui.
Tom girò nuovamente la testa e guardò le mani di Joe stringere quelle dell'uomo di fronte a sé. Le labbra prugna erano tese in un sorriso e sembrava quasi brillare – illuminare un'intera sala e attirare sguardi che non s'accorgeva di attirare.
“UNA FOTTUTA CENA DI LAVORO!” urlò Dalton, con gli occhi fuori dalle orbite. Attirò l'attenzione di mezzo pub e il tremore convulso di Joe – che guardò di scatto nella loro direzione.
Aveva gli occhi fuori dalle orbite e le labbra aperte in una perfetta o.
A Tom sembrava di essere ripiombato ad Hogwarts. Alle bugie che lei gli contava per stare con Dalton – lo sguardo fuggevole, il volto sempre stanco e felice, l'aspetto di chi vuole essere bella... ma non per te. Mai per te.
Tom conosceva bene quella sensazione. Il sentirla sempre più sfuggevole, sempre più simile al fumo che scivola via dalle dita – in modo irrimediabile. Tom sapeva cosa si provava al sentirsi messo al secondo posto, come se non si contasse nulla. Come se a malapena esistesse nella sua vita.
“Una cena di lavoro” ripeté Dalton, passandosi una mano tra i capelli – disperato. Aveva la faccia di un pazzo, di una persona che non ha più nulla. La faccia di una persona a cui erano stati distrutti i sogni e le speranze. E Tom lo sapeva... lei s'insinuava dentro e diventava tutto. Per poi portarselo via.
Lei, divisa perennemente tra qualcuno.
Lei, mai di qualcuno.
Lei, il cui corpo aveva sempre un altro profumo.
Lei, i cui segni avevano sempre mani, denti, e labbra diversi.
“Dalton...” Joe ora era vicina ed era ancora più incantevole di come in passato l'aveva vista.
Ora era più donna, più matura, con i lunghi capelli neri sciolti in morbide onde e la bocca carnosa colorata dal rossetto. Ora era più sensuale che sostanzialmente bella, come lo era stata ad Hogwarts nella sua ingenuità.
Il vestito nero le accarezzava sinuoso le forme in un modo quasi perverso quando la si osservava a lungo e a Tom quasi fece male constatare che la storia andava a ripetersi all'infinito.
“Dalton, ascoltami...” bisbigliò frettolosa, alzando una mano verso di lui e cercando di accarezzargli il braccio.
“Non mi toccare” la voce di Dalton fu velenosa e aspra e i suoi occhi sembrarono fulminarla e gelarla nello stesso istante.
Fece un passo all'indietro e rise con incredulità – scuotendo il capo per quello che aveva visto.
“Dalton, ascoltami, è importante!”
“TI HO DETTO CHE NON DEVI TOCCARMI!” urlò a voce più alta, cercando di controllare il tremare alle mani e non colpirla.
Oh, perché avrebbe voluto. Dalton avrebbe tanto voluto colpirla con violenza e farle sentire lo stesso dolore che sentiva lui.
Dalton voleva rovinare quel viso che lo tormentava ogni secondo, sfregiarla, chiuderla in una gabbia dove non sarebbe più potuta uscire.
“Non toccarmi” mormorò, sorpassandola a gran carriera e preoccupandosi bene a non sfiorarla nemmeno.
Uscì di lì con la consapevolezza di non poter andare avanti così.
Dalton uscì da quel pub con la consapevolezza che uno di loro, prima o poi, avrebbe ucciso l'altro. E se lei lo avrebbe fatto per difendersi, lui per la gelosia morbosa che gli accartocciava le membra. Per nasconderla. Per averla con sé per sempre.
Senza via di scampo.

 

✞ ✞ ✞

 

 

Perrie&Co. era uno dei ristoranti più famosi di New Scotland Yard. Con varie sedi in Italia, Spagna e addirittura in Giappone, vantava una cucina internazionale quasi fuori dal comune.
Era una struttura bassa, dalle ampie vetrate e un aspetto tipicamente stile ottocento – con un immenso candelabro di cristallo al centro della Sala e i vari dipinti di angeli, storie passate e demoni sulle mura.
I tendaggi erano pesanti e a quell'ora tarda ricoprivano tutte le finestre – per impedire la veduta del pavimento di lucido marmo e i tavoli ora sparecchiati.
“Ti prego... ti prego”
Una voce rimbombò tra le mura e i ciocchi spenti nei due camini agli estremi della Sala quasi vibrarono nella cenere.
“Amo chi mi prega, questo dovresti saperlo”
Un uomo se ne stava fermo al centro della sala, ricoperto da un lungo mantello nero e un cappuccio che ne celava i lineamenti... tranne gli occhi, rossi come il sole al tramonto.
“E poi amo la vodka” disse allusivo, visto la quantità d'alcool che aveva ingerito la ragazza e che si sarebbe ritrovato tra le labbra appena avesse affondato i denti nel suo bel collo da cigno.
“Non farmi del male...”
Riusciva a vederla riversa sul pavimento, con una gamba rotta e la posizione del corpo quasi innaturale e i ricci scuri aperti a ventaglio sul pavimento roseo – in netto contrasto. Lo guardava disperata, mentre la sua pelle mulatta sembrava volersi confondere con il buio della stanza.
“Ti piacerà quando avrò finito, vedrai...” bisbigliò, precipitandosi su di lei e coprendo le sue nudità.
Era morbida, proprio come lo sarebbe stata la sua piccola cacciatrice.
Frank Paciock arricciò le labbra in un sorriso subdolo. Non aveva di certo dimenticato quando Roxanne aveva impedito agli Auror di ucciderlo dopo la trasformazione né lo sguardo di assoluto smarrimento quando era dovuto scappare. L'aveva attaccata e poi morsa. Per marchiarla. Per urlare al mondo che lei era sua e solo sua.
Lei non avrebbe potuto dimenticarlo e gli altri non avrebbero osato toccarla.
“No. NO!” urlò ancora la donna sotto di sé, prima che lui affondasse i denti nella carne sensibile del collo. E smise di dimenarsi.
Il suo tocco divenne docile e il suo corpo quasi privo di energia; la donna allargò di poco le gambe per permettergli più accesso e Frank si ritrovò a sorridere.
Quanto potevano essere fragili gli umani? Bastava un morso e un pizzico del loro veleno per farli diventare agnellini docili e gentili. Completamente alla loro mercé.
“La ucciderai così”
Frank alzò di scatto il viso verso la voce in fondo alla sala, completamente sorpreso per non aver sentito arrivare l'intruso; nel buio, riuscì a distinguere lo stemma da cacciatore sulla divisa azzurra e gli occhi neri che sembravano volersi confondere con tutto il resto.
“Aspettavo un'altra persona, questa sera” mormorò Frank, lasciando cadere il corpo che teneva tra le braccia e fissando l'uomo immobile.
Aveva lasciato tracce infinite a Londra per essere trovato e invece di una cacciatrice dai capelli ricci, si ritrovava faccia e faccia con qualcuno di totalmente diverso.
“Roxanne era impegnata con altro, questa notte”
Frank spalancò gli occhi rossi, alzando lentamente il viso e guardandolo finalmente in faccia: quel ragazzo aveva il volto impassibile di chi non ha nulla da perdere – avvolto da una pellicola che impediva agli altri di vedere il dolore che lo stava piegando in due per ritrovarsi lì, faccia a faccia con l'uomo che deteneva il cuore dell'unica donna della sua vita.
“Chi sei?” sibilò Frank, ora furioso.
Nessuno, nessuno avrebbe dovuto osare pronunciare quel nome. Rox era sua – incredibilmente sua. Solo sua. E avrebbe ucciso per quello.
“Il suo fidanzato”
Aaron Kruger fece un passo avanti, mostrando i capelli di un biondo cenere e il corpo agile e scattante; portava una fedina d'oro all'anulare sinistro e Frank si chiese, stupidamente, se Rox avesse fatto un passo del genere con qualcuno che non fosse lui.
“A Roxanne piacciono davvero gli sfigati, allora” rise, ricordando il modo dolce con cui lo trattava. Il suo essere protettiva e il suo farsi proteggere quando il mondo era troppo grande persino per lei.
Aaron non assunse espressioni di sorta, continuando a stare fermo e immobile dov'era comparso.
“Se la mettiamo su questo piano, lei era innamorata della tua parte sfigata...non quella omicida” soffiò, sorridendo leggermente nel vederlo irrigidirsi.
Era chiaro come il sole che i suoi sentimenti da umano fossero ancora arpionati in lui, ma resi amplificati e terribili dalla mancanza d'anima – come dicevano le leggende sui demoni come lui.
“Perché sei qui? Sei così sicuro che io non ti uccida?” rise Frank, mostrando i canini con divertimento nello sguardo.
Aaron continuava ad osservarlo impassibile. No, non era così sicuro e forse era stato proprio quello a portarlo lì; non il suo essere un fantastico cacciatore, non la vendetta... ma la speranza di essere freddato lì, in quel ristorante e abbandonare quella vita che probabilmente non gli era mai appartenuta.
“Come se m'interessasse” rispose secco, con le braccia lasciate lungo i fianchi.
Frank lo guardò ancora, come di solito un bambino guarda qualcosa di assolutamente nuovo per lui. Inclinò il capo e ancora cercò di leggergli dentro.
“Viviamo assieme. Lei quando torna da lavoro mi racconta la sua giornata e poi comincia a sbraitare come un'ossessa su tutto ciò che non le è piaciuto; quando è di buon umore mi porta la colazione a letto e mi prepara il pranzo o la cena – dipende dai turni.
Indossa la mia maglia preferita per dormire e a volte parla nel sonno, si agita, sogna. Abbiamo parlato di matrimonio un paio di mesi fa...” mormorò Aaron, senza finire la frase. Si ritrovò in un nano secondo sdraiato sul pavimento con il viso di Frank a pochi centimetri dal suo.
Aveva il fiato corto per il gesto repentino e convulso e ridacchiò quando il vampiro gli strinse le mani alla gola.
“Lei è mia” sibilò, soffiandogli in faccia e mostrandogli le zanne che si ritrovava al posto dei canini.
Oh, quanto aveva ragione. Era vero. Assolutamente vero. Lei era sua e lo sarebbe stata per sempre, in ogni singolo attimo della propria vita e Aaron non voleva assistere. Aaron non voleva assistere alla propria disfatta...al giorno in cui lei, per amore, si sarebbe trasformata nello stesso mostro che ora lo sopraffaceva.
“Sai... quando facciamo l'amore lei mi stringe le mani così forte che quasi le si sbiancano le nocche e si aggrappa alla mia schiena come una naufraga” bisbigliò ancora, con un sorriso blando sulla bocca.
Le unghia del vampiro divennero lunghe parecchi centimetri e gli graffiarono la carotide, come lame affilate pronto a trapassarlo da parte a parte.
Gli occhi neri erano due pozzi bui e Frank strinse ancora più forte la presa, infuriandosi nell'osservare quel sorrisetto irritante sulle labbra sottili del cacciatore.
“E mi prega. Ah, se mi prega.
Ha una voce così bassa che a volte ho la perfida sensazione di essermelo immaginato, ma i suoi occhi non mentono.
Tu, quando ci facevi l'amore, li hai visti i suoi occhi supplicanti socchiudersi e fissarti come se fossi un'ancora? Come se lei stesse annegando e tu fossi il suo unico appiglio...?” sussurrò con voce flebile e Frank lo colpì con un manrovescio sulla guancia, facendolo rantolare dal dolore.
Gli aveva rotto la mandibola.
“Ora vediamo se riesci ancora a parlare!” sogghignò Frank e senza che Aaron muovesse un solo muscolo per difendersi, affondò le dita nella sua gola. E fu dolore.
Aaron sentì solo un dolore atroce e poi il sangue gli macchiò la vista, il viso, le mani dell'uomo sopra di sé.
“Queste non ti servono più” rise e Aaron sentì solo un piccolo tonfo alla sua destra prima di annaspare e affondare una mano nella spalla di Frank nel sentirlo trafficare ancora nella sua bocca.
“E nemmeno questa”
E il dolore quasi gli strappò la consapevolezza di essere ancora in vita. Mai, mai aveva sentito così tanta sofferenza e tremò convulsamente – rovesciando la pupilla verso l'alto, lasciando spazio solo alla sclera bianca.
Una lacrima, poi un'altra e Frank si alzò lentamente, guardandolo agonizzare sul pavimento con il viso imbrattato del suo sangue.
“Arrivederci” sogghignò, sparendo così com'era arrivato, lasciando la solita scia di terrore e angoscia alle sue spalle.
Una scia a cui Roxanne Weasley, appena arrivata, si inginocchiò – straziata. Aveva le mani tremanti quando toccò il volto di Aaron, esanime e pallido come non lo era mai stato. Guardò lo scempio che la circondava e tremò dinnanzi agli occhi accusatori degli altri cacciatori... ed Harry Potter, suo zio.

“Guardalo, Roxanne. Guardalo e continua a ripeterti quanto tu ama Frank e quanto tu voglia diventare come lui, solo per passare l'eternità ad uccidere chi hai sempre difeso. Uccidere chi ha lavorato fianco a fianco con te. Uccidere chi ti ha cresciuto” sussurrò Harry, con gli occhi verdi avvolti da una nebbia fosca – lontana, vicina al giorno in cui avevano messo fine alla vita di Ron per evitare che diventasse tutto ciò che aveva sempre odiato.
“Guardalo e continua a ripeterti quanto tu ama un fantasma che si è trasformato irrimediabilmente in un mostro” finì, dandogli le spalle e lasciando i Medimaghi intervenire velocemente.
Harry sapeva. Ah, se lo sapeva. Aaron aveva cercato Frank apposta per farsi ferire... per far rinsavire Roxanne o farsi uccidere per non dover più subire. Per non dover essere più un ombra.
Ma a che costo?
A che costo?

Si smaterializzò lontano da lì con il cuore più pesante, cercando di dare un senso a quel gesto estremo; era vero, Roxanne doveva darsi una svegliata, ma non a quel costo... non al costo della vita.
Sospirò. Comparve nella cucina di casa sua – a cui era stato fatto un incantesimo e riconosceva solo presenze amiche o autoritarie – e si guardò attorno con aria mogia.
Quanti momenti aveva vissuto lì? Quanta tristezza, gioia, dolore, avevano visto quelle mura?
Il bambino sopravvissuto, ora, poteva dire di avere una casa che non fosse Hogwarts. Una vera casa.
“Prima o poi la mamma ti carbonizza se continui a comparire così in casa” mormorò una voce alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
Si girò di scatto e si innamorò ancora e ancora, come gli capitava da anni oramai. Dal giorno della sua nascita. Dal giorno in cui, prendendola in braccio per la prima volta, lei gli aveva rapito cuore, testa e anima – facendolo suo.
“Lily” mormorò, guardandola mangiare dalla tazza delle winx, per cui Albus era sempre andato matto.
“Mangi cereali alle due di mattina?” borbottò, guardando l'orologio magico alla sua destra e chiedendosi se fosse normale.
“Ehi! Le voglie vanno soddisfatte” sbuffò la ragazza, alzando gli occhi al cielo e portandosi il cucchiaio alle labbra.
“Sei incinta del figlio di Malfoy, per caso?” sbottò, assottigliando lo sguardo smeraldino e puntandolo su di lei – furioso.
Passati gli anni ad Hogwarts e assicurandosi che Lily fosse al sicuro ed esclusa da qualsiasi ritorsione maligna della sua stessa trasformazione, Harry aveva cominciato a comportarsi esattamente come avrebbe fatto un padre normale. O un padre geloso compulsivo. O come un padre ossessivo. O come un serial killer. O come uno che odia i Malfoy e basta.
“Scorpius, papà. Mi chiamo Scorpius”
Ed eccolo che compariva SENZA maglia, nella SUA cucina e lo chiamava PAPÁ. A Malfoy era venuto un colpo quando lo aveva sentito rivolgersi a lui in quel modo ed Harry si era pure divertito assai nel vederlo collassare...ma poi basta, cazzo. Basta! Quel nomignolo gli dava l'orticaria, specie se a pronunciarlo era il figlio di quel bastardo.
“Signor Potter, per te” sibilò con vocetta stucchevole quanto velenosa, guadagnandosi un risolino divertito da parte di sua figlia e un sogghigno – spiaccicato Malfoy – da parte di lui.
“Gradisce una tazza di camomilla?” cinguettò il platinato, sbattendo civettuolo le lunga ciglia bionde e avvicinandosi al cucinino.
Harry si trattenne dal mettere mani alla bacchetta.
“Gradisco che tu te ne vada da casa mia” sbraitò viola in volto, mentre Lily mangiava tutta paciosa i suoi cereali. Portava i capelli rossi sciolti morbidamente sulle spalle esili e una maglia così larga che Harry riconobbe come sua. La sua maglia preferita! Quella dei Puddlemere United, la sua squadra di Quidditch del cuore!
“Comunque, perché no? Io e Lily desideriamo così tanto un figlio!” disse Scorpius, distraendolo un attimo dal pensiero della sua maglia e catalizzando tutta l'attenzione su di sé.
Figlio. Malfoy. Lily.
Harry sbatté confuso le palpebre.
“Come scusa?” domandò, sinceramente confuso.
“Oh...ma non l'avevi ancora detto a tuo padre?” mormorò Scorpius, guardando Lily con dispiacere misto a sorpresa.
Figlio. Malfoy. Lily. E... « non l'avevi ancora detto a tuo padre? »
“Di cosa diavolo sta parlando questo scervellato?” sbottò Harry, cominciando a sentire una strana sensazione serpeggiargli a fondo stomaco.
“Scorpius!” lo richiamò Lily, arrabbiata, ma quello la ignorò alla grande, servendosi il latte ancora caldo nel recipiente sul cucinino e voltandosi a guardarlo con un sorriso smagliante sulla bocca piena.
“Io e Lily abbiamo deciso le date delle nozze... che saranno tra due mesi” sganciò la bomba tutto tranquillo, afferrando una manciata di cereali dalla scatola sul bancone della cucina e buttandoli nella sua tazza dei Puddlemere United.
SBAM. Harry svenne, pallido come un lenzuolo con l'espressione esatta di quel quadro Babbano di cui Scorpius dimenticava sempre il nome... una cosa tipo l'urlo di Punch... mah, uguale comunque.
Così uguale che Lily urlò, precipitandosi dal padre e svegliando tutta casa Potter.
Ops. Forse il “Signor Potter” non aveva preso bene la notizia delle imminenti nozze.

   
 
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