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Autore: Aleena    17/09/2015    1 recensioni
Nel regno di Lolth, ogni ottantotto anni i figli bastardi di Che'el Phish, la
Città Rossa, devono correre nell'arena. Non c'è possibilità di salvezza per i maschi, solo
una rapida morte.
Rakartha pensa che il suo sangue di femmina la salverà, ma la crudele divinità dei Drow,
Lolth, ha in serbo per lei una sorpresa che le cambierà la vita.
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Storia vincitrice dell'Oscar per il "Miglior Trucco e Acconciatura" agli Oscar EFPiani 2016
[1a classificata al contest "Sangue, Slash e Fantasy" indetto da Ynis sul forum di efp
2a classificata al contest "Of Monsters and Masters" indetto da La sposa di Ade sul forum di efp]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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  Lo schiavo muscoloso era chinato su di lui, intento a spalmargli sul volto e sul petto una sostanza che odorava di pesce morto da giorni.
«Vuoi che ti apra un altro sorriso in gola?» furono le prime parole di Rakarth. Uscirono strozzate, simili a un rantolio stentato.
«Buongiorno, mio signore.» L’uomo sembrava insolitamente allegro. Apriva la bocca a ritmo regolare, quasi stesse per mettersi a canticchiare, e sfiorava la pelle di Rakarth con una delicatezza che lo jaluk non avrebbe creduto possibile, in lui.
«Vaffanculo.» La gola e l’interno della bocca scottavano come se vi ardesse un incendio. L’impiastro sul volto emanava un odore di zolfo che esasperava l’olfatto fine, dandogli capogiri violenti. Non sentiva le braccia, ma poteva essere ancora l’effetto della droga che gli avevano iniettato.
Non l’avrebbero mutilato. A cosa serviva un combattente senza braccia o gambe?
«Perché dovrei? Penso che tu possa raccontarmelo con più precisione. Com’è prenderlo in culo quando non lo vuoi?»
«Cerchi delle scuse, schiavo?»
«Sai, credo che se avessi qualche secolo di tempo le riceverei. Ma sono abbastanza soddisfatto di quel che vedo.» l’uomo si allontanò di mezzo passo, poggiando una scodella di plastica sul piccolo comodino. Rakarth cercò di girarsi, ma muovere la testa era un’utopia. Sentiva però gli occhi dell’altro su di sé, e improvvisamente si rese conto di quanto doveva essere vulnerabile. Inferiore, di nuovo!
«Mi hai fatto tentare la fuga di proposito!» Rakarth cercò di recuperare il fiato per gridare, ma fu una pessima scelta: la pelle ustionata del collo si spezzò mentre la tosse violenta tagliava le ultime sillabe. Un grumo di sangue salì alla gola, inondandogli il palato.
«Prima o poi l’avresti fatto comunque.» L’uomo prese a trascinare una delle pesanti poltrone al fianco del capezzale, producendo un rumore d’inferno – le grida di anime dannate torturate a morte. «Sai, credo che tu non abbia capito nulla di Jaracas. Non l’hai osservato, come non osservi nessuno di quelli che ti stanno intorno. Tu e lui… bhe, siete uguali. Fate sesso per mostrarvi superiori e cercare di sfogare le vostre frustrazioni. Tu combatti e lui scommette per lo stesso motivo. E per aver ragione, ovvio, per poter dire “te l’avevo detto”. E siete entrambi due bastardi di società che provano solo odio e disprezzo per voi.» Lo schiavo aveva le gambe incrociate e le mani protese. Usava le dita per contare le caratteristiche, come un bambino, e il movimento faceva traballare il corto coltello rituale che aveva poggiato sulle cosce. L’arma che Rakarth aveva usato su tanti schiavi, lì dentro. «Non lo sapevi, vero? Quello che ti tiene per le palle non è neanche potente. Suo padre, il vampiro antico, lo è; ma lui è un dampyr, il figlio bastardo di un vampiro e un’umana. Sai perché e finito fra i drow? Perché è figlio di un nobile, e come tale doveva avere una posizione privilegiata, ma allo stesso tempo è inferiore al più giovane fra i vampiri, quindi meno è fra loro meglio è. Nessun vampiro vuole vivere fra i drow: siete una razza talmente meschina e barbara che ovunque vi disprezzano. Quindi quale soluzione migliore che dargli soldi e prestigio mandandolo nelle fogne?» domandò, con calma. Il sorriso si era fatto ancora più largo, un’espressione di gioia soddisfatta che fece saltare l’ennesimo nervo allo jaluk.
«Perché stai continuando a parlare?»
«Perché voglio che tu sappia ogni cosa. Voglio che la consapevolezza ti ossessioni ogni giorno da qui alla fine della tua misera vita da schiavo. È l’ultima cosa che devo fare, e voglio farla per bene.»
«Te l’ha ordinato lui?» domandò Rakarth, cercando di inghiottire il sangue e la paura che aveva in bocca.
«Tu e Jaracas avete l’oro e i servi, ma non siete né liberi né potenti. Odiate voi stessi ma siete troppo vigliacchi per scappare. Io ti ho osservato e ho capito… e mi sono bastate due settimane.»
«Tu non hai capito un cazzo di niente!» gridò Rakarth, e questa volta il suono fu più squillante. Un rivolo di sangue scese lungo le labbra pallide, bagnando il cuscino, ma lo jaluk non se ne rese conto. L’uomo aveva sollevato l’arma e si chinava su di lui, adesso.
«E invece si. Ma lo accetterai anche tu, prima o poi… e allora soffrirai molto più di noi!»
«Che cosa stai dicendo?» strillò Rakarth, isterico.
«Noi, quelli che hanno avuto il coraggio di alzare la testa per davvero. Quelli che hanno avuto la forza di capire le alternative, le vere alternative.» L’uomo fece una pausa e sollevò lo sguardo al soffitto, gli occhi velati. «Sai, non c’è molta scelta. Quando arrivi qua sotto dopo… dopo tutta la libertà e l’infinito potenziale che c’è su, in superficie… beh, questa vita comincia a starti stretta. Io ho passato anni a pensare alle possibilità. Scappare e morire nell’arena non sono ipotesi tanto diverse: sono da vigliacchi entrambe, e da dove vengo io esserlo è un disonore. E poi, perché avrei dovuto cercare i tunnel? Per morire di pazzia nel buio o venir ripreso e finire… beh, come te? No. Non c’è onore a morire da schiavo nell’arena, combattendo per niente, come non ce n’è nella fuga. Il vero onore è qui.» Il coltello brillò nella luce fredda del neon mentre l’uomo lo portava al livello degli occhi di Rakarth. «Sai cosa si dice da me? “La vera libertà è quella che riposa sulla punta di un coltello.”» La testa dell’uomo scese lentamente finché il naso di lui non fu quasi a livello della fronte dello jaluk. Si puntava la lama alla gola con salda fermezza, senza nemmeno un tremito. Anche la voce era rimasta solida e decisa… e divertita. «Io sto per raggiungerla, e un paradiso di onore mi attende lassù. Tu, invece… dimmi, padrone, sai qual è la vera libertà? E sei abbastanza forte per raggiungerla?»
«Che cazzo…?» Rakarth cercò di dimenarsi, in preda a un panico che non faceva caso al dolore fisico.
«Che tu sia mille volte maledetto dal sangue, Rakarth il drow. Che tu possa avere una lunga vita, carica di dolore!» gridò l’uomo, e quando anche l’ultima lettera dell’anatema fu scagliata, il coltello gli squarciò la gola.
Un fiotto di sangue caldo scivolò sul volto di Rakarth, denso e ferrigno. Gli invase naso, occhi e bocca, entrò nella gola come dotato di vita propria e Rakarth lo deglutì, per non morire soffocato. Il corpo massiccio del suicida, scosso dagli spasmi sempre più deboli, cadde su quello fragile e provato di Rakarth, mozzandogli il respiro. Il sangue lo avvolse completamente, rivestendolo come un sudario – come il realizzarsi di una condanna.
«Maledetto… pazzo! Schiavi… Schiavi!» prese a urlare Rakarth, cercando di muovere le mani nell’aria e di scacciare quelle forme nere e rapide che gli danzavano davanti agli occhi come ragni. Sbatté le palpebre e calde lacrime tentarono di lavare via il rosso, senza riuscire. E quegli esseri striscianti si facevano più vicini, insinuandosi in lui, nella sua pelle chiara…
Poi qualcuno spalancò la porta e lo liberò dal peso del cadavere. Mani violente e dure gli pulirono il viso mentre una donna strillava, nel corridoio. Venne accesa una luce e portato un panno freddo da un maschio che gridava ordini in una lingua squillante e sottile. E sopra a tutto, sopra alle voci e ai rumori e al sibilo dei passi, la voce di Rakarth si alzava come un urlo, come l’eco di un coro di dannati.
«Ripulitelo! Levate via tutto questo maledetto sangue! E, per le otto dannatissime zampe della Dea, portatemi qualcosa per il dolore!»    

 
 
 
  
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