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Autore: _Lady di inchiostro_    17/09/2015    7 recensioni
«Chiudi gli occhi e pensa a qualcosa di bello.»
La frase che Rufy sentiva mormorare a Sabo prima di addormentarsi.
La frase che Rufy voleva infondere ad Ace quando urlava nel sonno.
La frase che accompagnò Rufy quando si trovava a riposare da solo.
La frase che Rufy sussurrò a Sabo per farlo dormire.
E se chiudeva gli occhi, c’erano sempre delle belle immagini che l’aspettavano. Come il volto sorridente e soddisfatto di Ace.
***
{ASL ♥} {Brothership} {Angst&Fluff}
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Monkey D. Rufy, Portuguese D. Ace, Sabo
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Parla l’autrice e iniziano a piovere schifezze: 
E l’antro della pazzia torna con questa… Cos’è?
No, seriamente, quella che seguirà non sarà per voi una storia, ma una… cosa.
Una cosa nata in una notte in cui non avevo sonno, in cui mi sono messa a rammentare le teorie di Freud sui sogni, in cui mi sono messa a fare considerazioni strane su mie vecchie storie. E lo giuro, io non volevo pubblicare niente, è stata mia sorella a insistere, dicendo cose del tipo: “Il fandom ne ha bisogno!”, seguita a ruota da colei che considero la mia personale beta, LysL_97.
(tanto per la cronaca, mie care, se state leggendo quest’angolo di parole insulse e a casaccio, vi avviso che la storia è dedicata a voi u.u <3)
Comunque, la storia/cosa è davvero molto piccola, scritta per buttare giù quattro idee. Ho ripreso, per l’appunto, qualche idea che avevo sviluppato in una mia vecchia storia, e ho anche aggiunto una mia versione personale di quello che non è accaduto nel capitolo 794. Sono stata molto vaga, eh, quindi mi sembrava stupido aggiungere l’avvertimento “Spoiler!”; ho inserito il “What if?” perché, ora come ora, era doveroso.
Che altro dire? Niente, godetevi la cosa e tenetevi pronti per le bastonate che mi darete a fine lettura :’D (?)
Bon, l’antro della pazzia vi saluta,
_Lady di inchiostro_



 
Sogni e incubi



Quando era piccolo, a Rufy non capitava spesso di avere degli incubi.
Erano casi rari, rarissimi, e quando accadeva, Sabo era sempre lì, pronto a consolarlo. 
Non che tra i due fratelli maggiori lui avesse il sonno più leggero, ma in qualche modo era l’unico tra i due che sentiva Rufy mentre scalciava via le coperte, o si agitava, o cacciava qualche urlo sommesso.
A quel punto, Sabo gli si faceva vicino, gli accarezzava la testa corvina per farlo calmare, sussurrandogli di non piagnucolare, altrimenti Ace si sarebbe svegliato e avrebbe dato a entrambi un sonoro pugno sulla testa. Il più delle volte, Rufy si ritrovava a dover tirare su col naso, a raccontare al fratello quello che aveva sognato e a singhiozzare con sempre più frequenza. 
C’era una cosa, però, che Rufy ricordava con più intensità, una cosa che faceva sempre Sabo dopo che aveva finito di ascoltare il suo sfogo. Il biondo si metteva più comodo, in modo che entrambi stessero distesi uno difronte all’altro, metteva la piccola mano di Rufy sul palmo della sua e gli diceva di chiudere gli occhi, pensando solo a qualcosa di bello.
«Tipo una carrettata di carne?»
«Sì, qualcosa del genere» gli diceva sempre Sabo, ridendo, perché non si poteva non ridere alle scemenze di Rufy.
Certo, il giorno dopo nessuno dei due si ritrovava nella stessa posizione con cui si erano addormentati – figuriamoci, quelle tre pesti non stavano ferme neanche durante il sonno! –, ma Rufy, per quanto gli venisse difficile ricordare, si svegliava con un sorriso più grande del solito. 
Sorriso che rivolgeva subito a Sabo, con una carica di energia tutta nuova e che sentiva scorrergli lungo le vene, capace persino di saltare sopra ad Ace per svegliarlo, ignorando le minacce di morte del lentigginoso. 
Ed era in quei momenti, nei momenti in cui Sabo ricambiava il sorriso con il suo un poco sghembo, nei momenti in cui Ace si lasciava stropicciare come una bambola di pezza fingendosi contrariato, che Rufy si sentiva infinitamente fortunato ad avere due fratelli così.
Perché, con loro, gli incubi svanivano come neve al sole.

Quando Sabo non c’era più, gli incubi divennero più frequenti per Rufy.
Ed erano sempre sul fratello scomparso, su quella maledetta barca che affondava, la sua mente che si prefigurava tutta la scena pur non avendola vista per davvero. In quel vorticare d’immagini, Rufy gridava, gridava sempre, impotente, mentre Ace spariva misteriosamente; poi, Sabo gli appariva accanto, completamente zuppo e con la pelle di uno strano colorito bluastro, puntandogli un dito contro e accusandolo della sua morte, di essere uno schifoso debole. Anche Ace compariva a dargli corda, le braccia incrociate al petto e il viso contratto in un’espressione di disgusto.
Rufy si ritrovava in un angolo, sempre, ogni volta, finché non riusciva a trovare la forza per aprire gli occhi.
Rufy sobbalzava, ogni santa volta, ma non urlava, poiché sapeva che ad Ace potesse dar fastidio.
Invece, affondava le dita nella canotta del fratello, nel tentativo di svegliarlo senza il reale bisogno di chiamarlo per nome, le lacrime che già gli rigavano il viso.
Ace non era come Sabo, non si sarebbe mai comportato in maniera più morbida con lui. Eppure, a Rufy questo non importava, perché sapeva che Ace gli avrebbe permesso di cingere il suo bacino con entrambe le braccia, di premere la guancia contro la sua schiena. 
Così come Rufy sapeva che, se fosse accaduto lo stesso ad Ace, sarebbe stato pronto a stringerlo per farlo smettere di urlare, a fargli sentire che c’era, che gli stava trasmettendo tutto il calore possibile a cancellare la sensazione di freddo che solo delle immagini talmente vivide e raccapriccianti possono dare. 
E non l’avrebbe giudicato mentre si sfogava un po’, mentre staccava le dita dal suo busto per unirle alle sue, piangendo sommessamente, proprio come faceva Rufy stesso con Sabo.
E, ancora, Rufy sapeva che questo valeva per entrambi come magra consolazione.

Quando era all’inizio del suo arduo allenamento biennale, Rufy aveva un incubo ogni nove notti su dieci.
Di certo, questa non era una scusante valida per interrompere il lavoro di Rayleigh, anche se quest’ultimo lo fissava con aria grave mentre Rufy si svegliava di soprassalto e tracannava litri di acqua per lo spavento.
Era brutto, per Rufy, dover rivivere quel senso di orrore che, da quando era diventato il capitano di una ciurma tutta sua, non provava più.
Era brutto dover rivivere la stessa scena ogni volta, i suoi compagni che sparivano uno dietro l’altro senza che lui potesse far niente per evitarlo.
Era brutto dover rivivere la sensazione del sangue di Ace sulla mano, o la disperazione alla morte di Sabo.
Al risveglio, era sempre ricoperto da uno strato di sudore e paura, una sostanza vischiosa e appiccicosa, simile all’inchiostro sulla pelle candida di una mano. 
Rufy doveva rassegnarsi all’idea di trovare un metodo tutto suo. Che non c’erano più Ace e Sabo a consolarlo, ma che doveva riuscirci da solo, con le proprie forze.
Lui non era un debole. Se stava facendo tutto questo, era solo per i suoi amici, perché loro avevano bisogno di lui, del loro capitano, della loro guida. 
E Rufy aveva bisogno di loro, perché erano l’unica famiglia rimastagli. 
Le prime sere, Rufy chiudeva gli occhi e respirava profondamente, come gli aveva insegnato Sabo, e pensava solo a ciò che lo rendeva felice.
Pensava ai suoi amici, a quante ne avessero passate insieme, a come sarebbe stato il loro futuro incontro. Pensava, inevitabilmente, ad Ace e Sabo, alle loro corse nei boschi, ai loro sogni urlati ai quattro venti, e a Rufy pareva quasi di sentirli. 
Di sentire Ace dietro le sue spalle che, lentamente, intrecciava le dita alle sue, o di sentire il palmo caldo e vivo di Sabo sotto la sua mano.
Ed era una cosa stupida, stupida, stupida, si diceva, perché sapeva che non era vero, che loro non c’erano, ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di passare le dita sulla ferita che aveva nel petto – sperando, chissà, di raggiungere direttamente la lacerazione che aveva nel cuore – e di versare lacrime amare. 
Per lo meno divenne più facile, per lui, sopportare il risveglio mattutino. Era solo una questione di tempo, in fondo. 
Il dolore non se ne sarebbe andato, ma almeno Rufy sapeva come fare per attutirlo. 
Ci sarebbe riuscito, sarebbe diventato più forte e avrebbe mantenuto la promessa fatta alle persone a lui più care. 
Doveva solo alzarsi col suo solito sorriso luminoso e concentrarsi sugli ordini di Rayleigh.
I bei sogni, ne era certo, alla fine sarebbero arrivati da soli.

Da quando si era ricongiunto alla sua ciurma, a Rufy non era più capitato di fare degli incubi. 
Anzi, a dirla tutta non gli era più capitato di sognare proprio i suoi fratelli. 
Ricapitò soltanto a Dressrosa, dopo che era caduto stremato dallo scontro con Mingo.
Fu un sogno normale, normalissimo, uno di quelli che Rufy non faceva da tempo; uno di quei sogni che mischia i ricordi alla fantasia, che sa di gioia ma che lascia sulla lingua il sapore pungente della nostalgia. 
Fu uno di quei sogni in cui Rufy si ritrovava a correre con suo fratello Ace lungo la scogliera, quando entrambi ambivano a solcare per il mare, il più grande che sfuggiva alla vista del più piccolo. Ma stavolta non sarebbe sparito, no, l’avrebbe aspettato.
L’avrebbe aspettato alla fine della scogliera stessa, l’amato cappello arancione calato sulla testa. Erano entrambi diventati grandi, improvvisamente, come se il tempo fosse fluito via in un batter d’occhio. 
«Vedo che sei riuscito a domare i tuoi brutti sogni, zuccone dei miei stivali!» Ace gli aveva scompigliato i capelli mentre parlava, aveva riso, riso come solo lui sapeva fare. Una risata cristallina che non fuoriusciva mai, che faceva venir voglia a Rufy di ricambiarla e di gettarsi comunque sul fratello a piangere.
«Cerca di aiutare anche quell’altro idiota a riuscirci, va bene? So che lo puoi fare!»
E in quel momento, mentre tutto diventava bianco, mentre il sorriso del fratello s’infrangeva in mille cristalli, Rufy si rese conto del perché avesse fatto quel sogno.
Del perché nel sogno non ci fosse Sabo: suo fratello, per cui era stato notti intere a piangere, non gli avrebbe più puntato il dito contro. 
L’avrebbe abbracciato, l’avrebbe ringraziato di essere sano e salvo.
Sabo era vivo. Ed era lui quella che aveva bisogno del suo aiuto. 
Rufy lo comprese meglio non appena si svegliò. Dovevano essersi rintanati tutti in qualche dimora di fortuna, compreso suo fratello, che probabilmente era rimasto ad attendere che lui si svegliasse. 
Cosa che era, di fatto, accaduta, e per giunta grazie alle sue urla.
Rufy si fece piccolo piccolo mentre lo sentiva muoversi, agitato, confuso, frastornato. Era come se volesse scappare, come se volesse andarsene al più presto, come se la sua presenza fosse obsoleta e servisse solo a ridestare i sonni degli altri – in verità, l’unico sveglio era Rufy, cosa al quanto incredibile data tutta la situazione. 
Il sole doveva essere sorto da poco, dato che Rufy riuscì a scorgere la chioma biondiccia del giovane non appena si girò dall’altra parte. 
«Sabo? Dove vai?» 
«Rufy? Dio, non volevo svegliarti…»
«Sabo, hai avuto un incubo?»
«Cosa? No… Volevo solo andarmene, sarebbe la cosa migliore…»
«Hai sognato… Ace?»
«No, Rufy cosa stai…»
L’intera conversazione era stata uno scambio di sorrisi tirati, di parole sconnesse e cariche di preoccupazione, senza che nessuno dei due posasse gli occhi sull’altro. Fino a quando non fu Sabo stesso ad alzarli, a prestare effettivamente attenzione allo sguardo del suo fratellino.
Rufy non voleva le bugie, voleva la verità, voleva che gli parlasse liberamente. Non doveva avere paura di spaventarlo, poiché era Rufy il più forte tra i due, in quel momento.
«… Sì» sussurrò, abbassando il capo, il volto coperto da qualche ciocca di capelli. 
Rufy gli lasciò un po’ di spazio sul letto e gli ordinò di distendersi accanto a lui, gonfiando le guance come un bambino capriccioso. Sabo lo fece, non senza qualche segno di ritrosia, mettendosi comodo sotto le coperte. 
Tutto il resto, fu solo opera di Rufy. 
Fu Rufy a prendere la sua mano e a posizionarla sul suo palmo fasciato. 
Fu Rufy che gli sorrise e che chiuse gli occhi, prendendo un bel respiro. 
E anche se non lo vedeva, Rufy sapeva che Sabo stava fissando le due mani congiunte a occhi sgranati.
«Chiudi gli occhi e pensa a qualcosa di bello.»
Rimase un pochino in silenzio, prima di aggiungere: «Te lo ricordi? Questo era il metodo che utilizzavi tu per farmi dormire.»
Sentì il fratello tirare su col naso. «Sì… ora me lo ricordo.»
«Piangi Sabo?»
«Piango perché la cosa cui sto pensando è davvero tanto bella!»
E rideva Rufy. Rideva come quando era piccolo, come quando si svegliava la mattina e si ritrovava con i suoi due fratelli accanto.
Sorrideva, perché sapeva che Sabo adesso era tranquillo.
Sorrideva, perché era riuscito a scacciare i suoi incubi. Proprio come gli aveva chiesto Ace.
  
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