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Autore: PuccaChan_Traduce    18/09/2015    3 recensioni
Bilbo Baggins torna a casa profondamente addolorato dopo la Battaglia delle Cinque Armate. Tutta la Terra di Mezzo ha saputo che Thorin Scudodiquercia e i suoi due nipoti sono caduti in battaglia. Sembra che a Bilbo non resti altro da fare che vivere un’esistenza tranquilla, seppur solitaria; una notte però il Fato, sotto forma di una giovane Elfa incinta, bussa alla sua porta...
Bilbo Baggins, a quanto pare, non è destinato ad avere una vita tranquilla.
Disclaimer: questa fanfiction è una TRADUZIONE che viene effettuata con il permesso del legittimo autore; tutti i personaggi citati appartengono ai rispettivi autori.
QUESTA STORIA È INCOMPIUTA!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bilbo, Kili, Tauriel, Un po' tutti
Note: Movieverse, Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autrice: Garafthel (Tumblr / Profilo AO3)
Fandom: Il Signore degli Anelli / Lo Hobbit
Coppie: Kìli/Tauriel; Bilbo Baggins/Thorin Scudodiquercia

~

Il prigioniero sognava.
Nel sogno, sapeva che il suo nome era Thorin e che era gravemente ferito, forse addirittura in punto di morte. Tuttavia il pensiero di raggiungere i suoi antenati lo faceva sentire in pace, poichè aveva già avuto modo di scusarsi con colui che aveva così terribilmente offeso, e Bilbo aveva accettato le sue richieste di perdono, anche se ciò era più di quanto Thorin meritasse.
Sentendo di essere sul punto di perdere di nuovo conoscenza e non sapendo se si sarebbe mai risvegliato, Thorin si era concesso un ultimo atto di estremo egoismo e, raccogliendo le ultime forze, aveva pronunciato i voti matrimoniali nei confronti di Bilbo. Anche se sapeva che il suo amato non poteva comprendere le parole in Khuzdul, aveva provato una grande gioia allorchè lo aveva sentito ripeterle. Indubbiamente lo Hobbit si sarebbe infuriato se avesse saputo cosa aveva fatto Thorin, ma per lo meno avrebbe raggiunto i suoi antenati con la consapevolezza di aver finalmente onorato il suo amato così come egli meritava.
Thorin fluttuò a più riprese nell’incoscienza mentre veniva trasportato su una barella attraverso lunghi corridoi polverosi. I Nani che erano con lui gli erano del tutto estranei, ma riconobbe l’accento dei Colli Ferrosi nella loro parlata e presumette che fossero uomini di suo cugino Dàin. Da alcuni frammenti della loro conversazione indovinò che lo stavano portando nel cuore della montagna, nelle stanze sacre che ogni montagna scavata da Nani recava. A volte, narrava la leggenda, un Nano in punto di morte poteva essere riportato in vita, purchè venisse condotto nelle sacre camere di Mahal e Mahal stesso lo giudicasse degno.
Fu in quel momento che Thorin apprese che i figli di sua sorella erano caduti nel tentativo di proteggerlo dalla furia di Azog.
Oh Dìs, sorellina, mi dispiace tanto di averti deluso, pensò. Il senso di colpa al pensiero che le sue azioni scellerate avevano condotto Fìli e Kìli alla morte pesava su di lui come un macigno. Aveva promesso a Dìs che avrebbe tenuto i suoi figli al sicuro e aveva fallito, come del resto in qualsiasi altra cosa.
Bilbo era vivo, però; vivo e incolume, anche se non certo grazie a lui. Nonostante le parole di perdono che il suo amato aveva pronunciato, Thorin sapeva che il senso di colpa per ciò che aveva detto e fatto a Bilbo lo avrebbe accompagnato fino alla tomba. Ossia, certamente ancora per un breve tratto, egli pensò con amaro umorismo.
I portatori poggiarono la lettiga a terra e la fitta dolorosa che lo scosse fu quasi sufficiente a rispedirlo nell’incoscienza, ma con uno sforzo di volontà egli riuscì ad evitare che le tenebre lo avvolgessero. Se Mahal fosse davvero venuto da lui come raccontava la leggenda, Thorin sapeva che avrebbe avuto una sola cosa da fare: implorarlo per la vita dei suoi nipoti in cambio della propria.
Il sogno poi fece un balzo in avanti, lasciandolo senza alcuna reminiscenza di ciò che era successo dal momento in cui i portatori lo avevano poggiato a terra, nel buio più completo della grotta, fino a quando aveva aperto gli occhi vedendo un guaritore sconosciuto chino su di lui.
“È vivo, mio signore.”
Thorin avrebbe voluto chiedergli perchè sembrasse tanto deluso da quella notizia, ma aveva la gola talmente secca che quando aprì bocca non riuscì ad emettere altro che un rauco gemito.
“Cugino! Sei vivo!” Dàin spinse da parte il guaritore e lo guardò con fare raggiante. “Sapevo che non potevi esser morto, brutto imbroglione che non sei altro!”
Thorin provò ancora a parlare ma riuscì soltanto a tossire, cosa che gli spedì delle fitte talmente dolorose in tutto il corpo che per poco non perse di nuovo i sensi; poteva non essere più in punto di morte, ma certo era ben lungi dall’essere guarito.
“Non temere, anche i ragazzi di tua sorella ce l’hanno fatta. Se non li avessi visti respirare con i miei occhi non ci avrei mai creduto. Si vede che Mahal non era ancora pronto ad avere tre teste calde come voi nelle sue Sale!” Dàin ridacchiò alla sua stessa battuta.
“Mio signore, mi duole informarti che è proprio come temevo: tutti e tre soffrono della malattia dell’oro,” disse il guaritore.
No, questo era sbagliato... Thorin sapeva benissimo che fìli e Kìli non avevano mai sofferto della malattia dell’oro. Cercò di spiegarlo, ma non riusciva ad emettere suono senza cadere preda di dolorosissimi spasmi causati dalla tosse. Evidentemente Azog e la sua mazza ferrata dovevano avergli rotto un bel pò di costole.
“Dannazione, questa è proprio una pessima notizia. Fa male ammetterlo, ma l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una ripetizione del regno di Thror,” borbottò Dàin pensieroso. La sua armatura e i suoi capelli erano ancora schizzati di sangue di Orco, e si appoggiava al suo martello come se senza quel sostegno non riuscisse a stare in piedi.
“Posso suggerire che sarebbe meglio per tutti se Thorin e i suoi nipoti restassero morti?”
Le dita di Dàin si flessero minacciosamente sul manico del suo martello. “Confido che non intendevi metterla nel modo in cui l’ho recepita io?”
“Mio signore, mi scuso per non essermi spiegato bene,” replicò il guaritore. Thorin notò che armeggiava con qualcosa tenendo le mani dietro la schiena; poi uno strano odore dolciastro si diffuse nell’aria, ma con una nota talmente amara che lui quasi diede di stomaco. “Volevo semplicemente dire che sarebbe meglio restassero presunti morti fino a che non sarò in grado di curare la loro malattia. Non credi che sarebbe preferibile all’avere un altro re folle sul trono di Erebor?”
Thorin cominciava a sentirsi insopportabilmente assonnato. Restare cosciente era diventata un’impresa, ma perseverò, certo che la reazione di Dàin alle parole infide di quel verme sarebbe stata memorabile; con suo grande stupore, invece, suo cugino restò in silenzio per lunghi istanti prima di rispondere, con voce stranamente impastata: “Forse hai ragione, Skalgar.”
L’ultima cosa che Thorin vide prima di perdere la sua lotta contro l’incoscienza fu il sorriso compiaciuto e sinistro di quel cosiddetto guaritore.
 
~

 
Il prigioniero si svegliò– no, non ‘il prigioniero’. Thorin. Il suo nome era Thorin.
I ricordi del suo sogno svanivano man mano che i secondi passavano, ma egli si aggrappò con forza al suo nome. Poteva essere l’ultima cosa rimastagli.
Erano trascorse settimane da quando aveva udito le guardie parlare dei prigionieri evasi, ma ancora non aveva trovato il modo di fuggire a sua volta. Spronato da quella possibilità, per quanto nebulosa, si era allenato ogni notte fino all’esaurimento nel tentativo di rafforzare i muscoli atrofizzati; era stato difficile e frustrante, ma adesso poteva dire che i suoi sforzi cominciavano a dare i loro frutti. Camminare intorno alla cella non era più una fatica gravosa, però, man mano che la sua salute migliorava, crescevano anche la noia e la sua frustrazione.
Origliava qualsiasi discorso udisse al di là della porta; sfortunatamente, le guardie dicevano di rado qualcosa di interessante. Per lo più riempivano quelle ore tediose parlando di giochi con le carte e spettegolando sulle altre guardie. Riuscì tuttavia a raccogliere qualche informazione: quel regno si chiamava Erebor ed era governato da un re di nome Dàin. Le guardie inoltre sembravano nutrire grande timore verso una persona che chiamavano ‘il guaritore’, o più raramente Skalgar.
Thorin si rigirò quei nomi nel cervello senza sosta, sperando che lo aiutassero a ricordare; ma non gli tornò nulla in mente, neanche un barlume di ricordo.
Non c’erano specchi perchè potesse guardare com’era fatto, perciò dovette ricorrere alle proprie mani. Scoprì di avere un viso scarno e allungato, con un naso piuttosto aquilino. Aveva i capelli neri con alcuni fili argentati. La sua barba era molto corta: sicuramente doveva averla tagliata, in passato, a causa di un grande dolore o di un’altrettanto grande vergogna. I tatuaggi che aveva sulle braccia e sul petto e le numerose cicatrici gli dicevano che era un guerriero, e che doveva aver visto molte battaglie.
Aveva la sensazione che il simbolo ricorrente del corvo nei suoi tatuaggi fosse significativo; forse il corvo era l’emblema del suo casato, il che poteva voler dire che era un nobile. L’idea, per qualche motivo, gli sembrava giusta, ma non riusciva a ricordare nulla che la supportasse. Non capiva perchè ricordava questioni di poco conto, come il possibile significato dei suoi tatuaggi, e non riusciva invece a ricordare niente del suo passato.
Oltre ai nomi aveva dei brandelli di ricordi, impossibili però da decifrare senza contesto. Ricordava due bambini Nani, uno dai capelli scuri e l’altro biondi, che ridevano con espressioni birichine sui visetti sporchi di terra; erano forse i suoi figli? Poi ricordava una mappa spiegata su un tavolo di legno. La mappa poteva essere significativa, ma dove conduceva? E poi ricordava una montagna che si stagliava contro il cielo, dai pendii scoscesi e la cima coperta di neve; una spada con un’incisione elfica lungo la lama; una ghianda sorretta da una mano tremante.
Spesso, in quei frammenti di memoria, vedeva lo stesso uomo, da un’angolazione che rendeva evidente che venisse osservato a sua insaputa. Aveva i capelli castani e leggermente ricciuti, due intelligenti occhi color nocciola e un viso espressivo. Era più basso di un Nano e aveva le orecchie a punta come gli Elfi, ma di certo non era un Elfo, non con quei grossi piedi pelosi.
Perchè aveva così tanti ricordi di quella piccola creatura dall’aria puntigliosa? Cosa rappresentava per Thorin, e cosa Thorin per lui?
Aveva tempo in abbondanza per riflettere su quelle domande, poichè, a parte il momento dei pasti in cui il cibo gli veniva regolarmente passato attraverso una botola sul fondo della porta, non aveva altro modo di spezzare la noia della sua prigionia. I giorni si susseguivano tutti uguali, uno dopo l’altro, fino a che tre guardie vennero ad aprire la porta della sua cella ordinandogli di uscire.
Nonostante il tempo trascorso ad allenarsi, Thorin sapeva di non avere possibilità contro tre uomini robusti e ben addestrati, e perciò non oppose resistenza. Tenne la testa china ma gli occhi spalancati, pronto a cogliere qualunque occasione di fuga. Le guardie però stavano all’erta e i suoi riflessi erano rallentati dalla prigionia; in più, non aveva idea di dove si trovasse. Presumeva di essere in una prigione, ma i corridoi lungo i quali lo stavano conducendo erano finemente decorati. No, quella non era una prigione; piuttosto sembrava un palazzo residenziale.
“Skalgar vuole che lo portiamo nella Camera di Consiglio, giusto?” chiese una delle guardie a quella che sembrava il capo.
“No, lo portiamo nella tribuna sopra la Camera; immagino che Skalgar voglia che osservi qualcosa.” Gli altri risero come se il compagno avesse detto qualcosa di esilarante. “Ora chiudete il–”
Uno sguardo colmo di meraviglia passò sul viso della guardia mentre fissava la lama che gli spuntava, come per magia, dal petto.
Piombò a terra in un lago di sangue. Le altre due guardie non ebbero quasi il tempo di sguainare le spade poichè altri tre Nani, che indossavano armature da guardia, li sopraffarono rapidamente senza che loro riuscissero ad emettere neppure un gridolino.
Sperando si trattasse di un salvataggio e non, ad esempio, di un colpo di stato in cui un prigioniero come lui aveva pari possibilità sia di essere ucciso che di esser lasciato libero, Thorin sollevò le mani incatenate in segno di resa. “Non sono armato!”
Uno dei nuovi arrivati, una donna, lasciò cadere la spada e lo fissò con evidente turbamento. “Thorin?”
“...Tu mi conosci?”

~
 
Dwalin era pessimista di natura. Cercava di non aspettarsi ogni volta il peggio dal prossimo, ma la sua negatività si era dimostrata nel giusto così tante volte che era difficile aspettarsi qualcosa di diverso.
Non era rimasto sorpreso quando Nori si era offerto di andare a prendere Dìs a Ered Luin. Per essere precisi, si fidava del fatto che il ladro l’avrebbe avvertita, ma quanto al tornare... no, Dwalin era sicuro che oramai Nori si fosse stabilito sulle Montagne Blu e vivesse felice e contento lontano dai casini di Erebor.
Onestamente, però, quel pensiero non l’aveva deluso più di tanto. Dwalin era un pessimista, ma sotto la sua scorza spinosa batteva il cuore di un vero romantico. Era stato abbastanza stupido da innamorarsi di un ladro, questo sì, ma perlomeno la vocazione di Nori gli assicurava un forte senso di autoconservazione. Nori era al sicuro, e così Dwalin poteva andare incontro al boia con quel pensiero a sostenerlo.
O almeno era a questo che pensava quando Nori fece capolino alla grata della porta della sua cella a Erebor.
“Oh, bene, temevo che avremmo dovuto perlustrare un altro paio di ale,” disse il ladro con tutta tranquillità, come se non fosse appena sbucato lì dal nulla quando avrebbe dovuto trovarsi dall’altra parte della Terra di Mezzo.
Dwalin attraversò la cella con due falcate e si aggrappò alle sbarre con tanta forza da farsi sbiancare le nocche. “Nori? Cosa ci fai qui?”
Nori gli rivolse un’occhiata che diceva chiaramente che dubitava della sua intelligenza. “Sono venuto a tirarti fuori da questa cella. Cos’altro dovrei farci?”
“Ma non dovresti essere qui. Dovresti essere a Ered Luin.”
Il ladro tirò fuori dalla manica un paio di ferri appuntiti e iniziò a darsi da fare con la serratura. “Beh, sono terribilmente spiacente di deluderti, ma sono già stato a Ered Luin e sono tornato.” Socchiuse gli occhi. “Credevi che non l’avrei fatto, vero? Credevi che ti avrei lasciato– cioè, che avrei lasciato la Compagnia e i miei fratelli e avrei pensato solo a salvarmi la pelle.”
“Non è questo che–”
“Mi spiace deluderti,” ripetè Nori mentre la serratura mandava un clangore decisivo e la porta si spalancava, “ma sono qui, e tu sei qui, e anche il Principe Kìli con la sua moglie-Elfo incinta e no, non intendo spiegare quest’ultimo punto.”
“Cosa?!” Dwalin, uscito di cella, lo fissava a bocca aperta.
“Quale parte di ‘non intendo spiegare quest’ultimo punto’ non ti è chiara?”
Dwalin trasse un respiro profondo. Ritorno miracoloso o no, anche se era scioccamente innamorato di quel ladro ci erano voluti solo cinque minuti perchè Nori riuscisse, come sempre, a dargli sui nervi. Mahal doveva proprio divertirsi molto con lui. “Bene. Non ti chiederò niente. Posso almeno sapere qual è il piano, adesso che mi hai tirato fuori di cella?”
Nori distolse lo sguardo. “Ah. Sì. Il piano...”
“Non c’è alcun piano, vero?” sospirò Dwalin.
Nori emise un verso esasperato. “Ce l’avevo, eccome! Il mio piano era salvare voi ragazzi e fuggire il più lontano possibile da Erebor prima che la Principessa Dìs mi facesse la pelle per aver esposto Kìli a un pericolo mortale proprio adesso che è appena scampato alla morte, e questo senza neanche nominare il coinvolgimento di sua moglie – Elfa e incinta. Anzi, sarò fortunato se Dìs si limiterà ad uccidermi. Comunque, gli altri erano di parere diverso e purtroppo, anche che io sembro essere il solo sano di mente in questa combriccola, il mio piano è stato scartato.”
“Ti spiace spiegarmelo di nuovo in un modo che abbia il benchè minimo senso?”
“Il piano è che cattureremo Dàin.” Nori sollevò il mento e gli sorrise mostrando tutti i denti, dopodichè si voltò e iniziò ad allontanarsi.
Che cosa?”
Il ladro agitò una mano nella sua direzione senza rallentare il passo. “Non prendertela con me, non è il mio piano.”
Dwalin si affrettò a tenere il passo, notando lungo la strada i corpi di alcune guardie riversi al suolo. Dopo aver girato un paio di corridoi scorse Kìli, l’Elfa dai capelli rossi capitano delle guardie, e un altro Elfo dai capelli scuri che non aveva mai visto. Erano insieme a Bombur, Bifur e Dori davanti a una cella, al cui interno stavano ancora prigionieri Balin, Oin e Gloin. Nori s’inginocchiò davanti alla serratura e prese a lavorare coi suoi ferri.
“Signor Dwalin!” Kìli gli rivolse un largo sorriso, saltellando come un cagnolino eccitato e trascinandosi dietro l’Elfa, che lo teneva per mano. Gli occhi di Dwalin si posarono su di lei per un momento, con disinteresse, poi ripensò a quello che gli aveva detto Nori e la osservò per bene: incinta, aveva detto il ladro. Eh sì, decisamente lo era.
Cercò di immaginare la reazione di Dìs a quella notizia. Da una parte, una nuora elfica; dall’altra, il suo primo nipote. Mahal onnipotente, non riusciva davvero ad immaginarlo. E rifiutò decisamente di immaginare quale sarebbe stata la reazione di Thorin.
Poi il suo cervello registrò il fatto che Kìli era là, che non era morto; Dwalin lo raggiunse rapidamente e lo stritolò in un forte abbraccio. “È bello rivederti, ragazzo.”
“È bello anche per me,” rispose Kìli con voce soffocata.
“Tuo fratello? Thorin?”
“Fìli è vivo. Thorin... non ne siamo sicuri. Dàin – o meglio, il suo guaritore – lo tiene prigioniero, pensiamo. Speriamo.”
Nori riuscì ad aprire la porta della cella e gli ultimi prigionieri vennero fuori, borbottando (Gloin), lagnandosi di tutto (Oin) e sorridendo come se il salvataggio fosse stata solo opera sua (Balin, ovviamente).
“Fratello!” Dwalin poggiò la fronte contro quella di Balin e si sentì molto meglio; non c’era avversità grande abbastanza che lui e suo fratello non potessero fronteggiare insieme, ne era certo.
Dopo un affollarsi di domande da parte degli ultimi liberati, fu chiarito che Nori e Bofur erano tornati da Ered Luin con Dìs e che in qualche modo, lungo la strada, avevano reclutato anche i figli di Lord Elrond e il figlio di Thranduil. Dwalin decise di incolpare l’Elfa di Kìli per tutti quegli Elfi che ficcavano il naso nelle loro faccende.
Kìli annunciò che progettavano di unirsi a Fìli Dìs, Ori e Bofur nel salvataggio di Thorin, e tutti approvarono. Nori roteò gli occhi e lanciò un’occhiata a Dwalin come per dirgli, ‘Vedi con cosa ho a che fare?’; Dwalin emise uno sbuffo divertito.
Dopo aver spogliato delle armi i cadaveri delle guardie, s’incamminarono rapidamente attraverso il passaggio segreto, diretti all’ingresso. Seguirono il corridoio che faceva diverse svolte, tornarono nel passaggio segreto principale, attraverso la stessa porta nascosta che la Compagnia aveva trovato la prima volta, fino ad un tunnel che conduceva, come Nori disse loro, agli appartamenti reali.
“Non avevo idea dell’esistenza di questo passaggio.” Balin sembrava disapprovare profondamente la cosa.
“Mamma dice che l’ha fatto costruire il nostro bisnonno,” disse Kìli.
“Dove andiamo una volta raggiunti gli appartamenti reali?” chiese Dwalin.
Kìli si grattò il mento con aria perplessa. “Beh, sai, non ne sono del tutto certo.”
Dwalin si trovò a considerare, e non per la prima volta, se non avesse fatto meglio a diventare un venditore di spade lasciando che la stirpe di Durin si arrangiasse da sè. Alla fine decisero di cercare prima nelle camere da letto; se non avessero trovato niente lì, sarebbero passati alla Camera di Consiglio.
Anni dopo, Dwalin avrebbe ancora sudato freddo al pensiero di cosa sarebbe successo se avessero smarrito la strada per le camere da letto e avessero cercato prima nella Camera di Consiglio.

~
 
“Di che stai parlando? Certo che ti conosco.” La donna si tolse l’elmo, rivelando capelli neri striati di grigio, occhi azzurri e un volto regolare dal naso allungato. “Sono io, Dìs. Tua sorella!”
Basandosi su quanto sapeva del proprio aspetto, Thorin pensò che poteva esserci una certa somiglianza tra loro due; tuttavia, con suo grande disappunto, il vedere quella donna non gli riportò alla mente il minimo ricordo. “Mi dispiace, ma non mi ricordo di te. Non mi ricordo di niente, in realtà.”
Un altro dei nuovi arrivati, un Nano piuttosto giovane dai capelli biondi e gli occhi blu, dopo essersi tolto a sua volta l’elmo gli chiese: “Non ricordi proprio nulla?”
Thorin scosse il capo. “Solo immagini sfocate, facce, oggetti, luoghi... niente di definito. Però ricordo un bambino con i capelli biondi. Si tratta di te?”
“Sì, esatto. Io sono Fìli, il figlio di tua sorella.” Il giovane parve esitare, poi si fece avanti. Thorin si irrigidì al pensiero che quello sconosciuto, per quanto suo parente, volesse abbracciarlo; invece, l’altro si limitò a porgli una mano sulla spalla e a dargli una strizzatina, rivolgendogli al contempo un sorriso luminoso. “È un gran sollievo averti ritrovato, zio Thorin.”
Lui tossicchiò, imbarazzato. “Ah. Grazie.”
“Thorin...” La donna, Dìs, stese una mano verso di lui, ma poi la lasciò ricadere; aveva ancora un’aria profondamente turbata.
Vennero rapidamente raggiunti da altri due Nani in abiti civili e, per quanto a Thorin paresse incredibile, da due Elfi. Tutti lo fissavano e Thorin cominciava a sentirsi francamente a disagio: non sapeva come comportarsi con quegli estranei che dicevano di essere suoi amici e familiari (anche se non capiva come questi termini potessero applicarsi a due Elfi), la testa gli girava per tutti quei nomi nuovi ed era sicuro che non sarebbe mai riuscito a tenerli a mente.
La donna Nana che non aveva ancora parlato si schiarì la gola. “Odio disturbare questa riunione dopo la vostra lunga separazione, ma vi ricordo che le guardie stavano dicendo che lo avrebbero portato ad osservare qualcosa per conto di Skalgar.”
“Tofa ha ragione. Le guardie dicevano che stavano portando zio Thorin alla tribuna sopra la Camera di Consiglio. Dovremmo cogliere questa opportunità per scoprire cosa intende fare Skalgar,” disse Fìli.
Lei annuì. “Se i tre di noi vestiti con le armature fingeranno di scortare Thorin, penso che riusciremo a raggiungere la tribuna senza destare troppa attenzione.”
“Una volta che avremo avuto ragione delle guardie nella tribuna, dovremo scendere al piano terra,” disse Fìli.
“Ricordo di aver osservato il Consiglio da lì. La balconata deve essere ad almeno otto metri di altezza dal pavimento sottostante,” fece notare Dìs.
L’Elfo biondo tirò fuori una corda sottile da una tasca della sua cintura. “Potrete usare questa per calarvi giù.”
“Sei certo che reggerà?” Fìli pareva dubbioso.
“Ti assicuro che non si spezzerà. È fatta con tela di ragno, più resistente del più puro acciaio.”
Uno dei Nani, il cui nome Thorin aveva già dimenticato, si grattò la testa al di sotto dello strano cappello provvisto di orecchie che indossava e disse: “E mentre voi sarete sulla tribuna a far finta di essere guardie, noialtri che faremo?”
“Bofur, Ori, Legolas ed Elladan, ho bisogno che voi siate pronti ad irrompere nella Camera di Consiglio dopo che noi avremo fatto la nostra mossa. Ori, sai come aprire le porte?” Uno dei Nani più giovani annuì. Quindi Fìli rivolse un cenno col mento agli Elfi dicendo: “So quant’è buono il vostro udito, perciò state all’erta per ogni minimo rumore che provenga dall’interno e poi correte alle porte.”
I due Elfi assentirono.
“E poi cosa facciamo?” chiese Dìs.
“E poi... ci regoleremo in base alla situazione,” rispose Fìli. “Abbiamo dalla nostra l’elemento sorpresa e abbiamo ottime probabilità di riuscire ad acciuffare Dàin o Skalgar. Muoviamoci. Mamma, vai avanti tu: le guardie potrebbero riconoscere me o Tofa se ci vengono troppo vicino. Bilbo, tu vieni con noi.”
Thorin non sapeva quale di loro fosse Bilbo, ma non ci fu il tempo di chiederlo poichè ripresero a trascinarlo lungo il corridoio, mentre il resto del gruppo restava a nascondere i corpi delle guardie.
Non aveva molta fiducia nella riuscita di quel piano, ma in fondo che altra scelta aveva? Aveva creduto di essere solo al mondo e adesso saltava fuori che aveva non soltanto una sorella, ma persino un nipote. Di quali altri familiari non ricordava l’esistenza? Nonni? Genitori? Figli suoi? Moriva dalla voglia di sapere tutto, ma allo stesso tempo aveva paura di fare domande. Non che ce ne fosse il tempo, in ogni caso.
“Bilbo, una volta arrivati, dovresti legare le corde alla ringhiera della balconata,” disse piano Fìli. “Continua a restare invisibile e non credo che le guardie si accorgeranno di nulla.”
“Beh, spero davvero che tu abbia ragione.”
La risposta era sembrata giungere dal nulla, da qualche parte alla sua destra. Thorin guardò, ma non vide nessuno. “Uno di voi è invisibile?” Anche con la sua poca memoria, aveva la sensazione che si trattasse di un fatto fuori dal comune.
“Proprio così. Quando questa storia sarà finita, dovrai conoscere il nostro scassinatore. Sono proprio curioso di sentire cosa ne pensi.”
Thorin ebbe la sensazione che le parole di Fìli avessero un qualche significato recondito, ma non c’era tempo di indagare: svoltarono l’angolo e videro due guardie davanti a una porta dall’aspetto anonimo.
“Eccovi qua. Skalgar vuole che il prigioniero sia imbavagliato,” disse uno dei due. “E tenetelo ben stretto anche quando sarete là fuori. Non vogliamo che inizi a creare scompiglio e rovini l’annuncio.”
Un’aura di minaccia accompagnò quelle parole. Thorin avvertì un improvviso sollievo al pensiero che il gruppo di Fìli lo aveva trovato prima di quel fantomatico ‘annuncio’. Cercò di mostrarsi debole e inerme mentre gli altri lo imbavagliavano con rapidità ed efficienza.
La tribuna consisteva in un’ampia balconata che correva lungo tre lati della stanza, e che Thorin stimò essere larga nove metri e lunga diciotto. Il lato più corto, da cui erano entrati, era schermato da un muro di pietre traforate in luogo di una ringhiera, così che chiunque stesse al di sotto non poteva vedere chi c’era lassù. Gli altri due lati avevano ringhiere normali. All’estremità del lato più corto stava una guardia, che fece loro cenno di restare al di là della parete traforata.
Attraverso i fori del muro, Thorin potè vedere che la Camera di Consiglio si trovava a una decina di metri al di sotto del livello della tribuna. Al centro della stanza stava un enorme tavolo di legno rettangolare, con una piattaforma a una estremità di modo che il Re avrebbe potuto, stando seduto, ergersi più in alto degli altri. Una rumorosa riunione era già in corso quando entrarono. A quel che Thorin potè capire, stavano discutendo di un’imposta sui beni commerciali, ma c’erano anche velati riferimenti ad una ‘eccessiva influenza’ che una certa persona sembrava avere, e della quale i membri del Consiglio sembravano riluttanti a parlare direttamente.
“Vai, Bilbo,” sussurrò Fìli. “È la tua occasione, ora che le guardie non sono del tutto all’erta.”
“Giusto,” rispose la voce senza corpo, altrettanto piano. “Allora vado.”
“Ancora nessun segno di Dàin o di Skalgar.”
“Probabilmente aspettano di poter fare un’entrata a effetto,” fece Dìs. “È quel che usava fare anche il tuo bisnonno. Lasciamo che continuino a discutere tra loro e scivoliamo nella stanza mentre sono distratti dalle rimostranze contro di voi.”
Come Dìs aveva predetto, dopo alcuni minuti un Nano che indossava una grande corona nera e dorata sui capelli rossicci fece il suo ingresso nella stanza, seguito da un altro Nano di aspetto più anonimo – le trecce nella sua barba bianca indicavano che si trattava di un guaritore – e da una dozzina di guardie. I membri del Consiglio continuarono a discutere anche dopo che il Re si fu seduto sul trono; dopo aver osservato la scena per qualche istante, egli calò un pugno sul bracciolo con fragore clamoroso.
Il brusio nella stanza cessò di colpo. Dàin rivolse ai membri un sorriso gelido. “Allora, se avete finito di blaterare come minatori in una cava, ho un lieto annuncio da fare prima di addentrarci nel Consiglio vero e proprio. Come voi tutti sapete, il nostro fedele amico Skalgar ha servito come Guaritore Reale per parecchi anni; il bastardo, anzi, ha tanta umiltà da essersi praticamente logorato per il bene del nostro regno senza mai ottenere uno straccio di riconoscimento!”
Dàin fece una pausa fino a che alcuni membri si lasciarono sfuggire una poco convincente risatina.
“Ebbene, dopo molte insistenze, sono finalmente riuscito a convincerlo ad accettare gli onori che tanto merita. Skalgar, il nostro fedele guaritore, sarà d’ora in poi il nostro Ciambellano Reale nonchè Custode delle Volte.”
A queste parole scoppiò un altro trambusto, ma nessuno sembrava poter contrastare direttamente il decreto del Re. Dàin sorrise affabilmente e ordinò un brindisi per celebrare la nomina del nuovo Ciambellano.
Mentre alcuni servitori cominciavano a girare per la stanza e a versare del vino rosso nelle coppe, Fìli emise un soffocato verso di allarme. “Skalgar deve aver versato la sua malefica pozione nel vino,” sibilò. “Non possiamo lasciare che i membri del Consiglio lo bevano!”
 
  
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