Liam
«Il
caso Field contro Jackman è stato
archiviato e Jerry ha chiesto una copia dei documenti»
Scartoffie.
«Mrs.
Taylor mi ha chiamato ben
trentasette volte questa mattina e alla trentottesima ho ceduto e le ho
detto
che la riceverai domani»
Altre
scartoffie.
«I
gemellini dei Ferguson dopo il
disperato tentativo di rapimento da parte del loro squilibratissimo
genitore
sono stati momentaneamente affidati alle cure dei nonni materni in
attesa
dell'udienza di giovedì»
Una
pila di scartoffie sempre più
alta e pericolante si stava formando davanti al mio naso man mano che
Diana, la
mia efficientissima segretaria, snocciolava aggiornamenti e promemoria
in modo
ordinato e quasi meccanico.
Fissavo
distratto quei fogli su cui
venivano riportati per filo e per segno vicende di decine di coppie.
Tanti
caratteri fitti fitti battuti a computer da una diligente impiegata.
Fascicoli
diligentemente etichettati e catalogati.
«...Mr.
Van Houten ha chiesto di-»
«Mr.
Van Houten ha telefonato?». Mi
riscossi rapidamente sentendo quel nome, nome che suscitava sempre
dentro di me
una serie di emozioni contrastanti che andavano dal rispetto tendente
alla
venerazione alla cieca invidia per ciò che quell'uomo era
riuscito a creare. Mi
alzai agitato dalla sedia, «Diana, ha chiamato qui in
ufficio?»
La
povera donna, presa in contropiede
dal mio repentino sbalzo d'umore, annuì e mi
spiegò balbettando che meno di due
ore prima aveva parlato al telefono con la segretaria personale di Mr.
Van
Houten, il quale desiderava incontrarmi.
La
cosa mi mise ancora più in ansia;
perché l'uomo a capo di uno dei più importanti ed
influenti studi legali del
paese voleva vedermi?
«Che
ore sono ora?», lanciai
un'occhiata al mio orologio da polso mentre facevo avanti e indietro
tra la
scrivania e la finestra, «È troppo tardi adesso.
Domani la prima cosa che farai
appena arriverai sarà ricontattare il suo ufficio e fissare
un appuntamento per
qualsiasi giorno e in qualsiasi luogo egli desideri. Diana, non esitare
a
cancellare qualsiasi appuntamento, udienza o trasferimento avevo in
programma,
sono stato chiaro?»
Montgomery
Van Houten era una
leggenda in campo legale. Erede di una famiglia che aveva fatto
dell'azienda
farmaceutica il proprio impero aveva voltato le spalle a tutto
ciò per gettarsi
anima e corpo nell'avvocatura.
Avevo
letto tutte le nove biografie
non autorizzate uscite sul suo conto e sapevo benissimo delle nottate
passate a
fare il turno di notte in un'azienda siderurgica per riuscire a pagare
il mutuo
del piccolo stabile che aveva acquistato in Florida per fondare il
proprio
studio legale. Ora quell'uomo dormiva tra lenzuola di fine seta cinese,
mangiava salmone norvegese freschissimo, beveva il pregiato vino
prodotto dalla
sua cantina in Toscana e viveva in una villa che come estensione si
avvicinava
ai dieci campi da football, senza contare il giardino e il campo da
golf. Aveva
costruito un regno partendo da un vecchio magazzino abbandonato e lo
aveva
fatto semplicemente tirandosi su le maniche e lavorando sodo. Per
questo aveva tutta
la mia ammirazione.
Quella
era stata una giornata
stranamente tranquilla perciò decisi che sarebbe stato
più saggio andarsene via
dall'ufficio in anticipo piuttosto di passare la serata a fare il solco
nel mio
prezioso tappeto persiano scervellandomi riguardo alla telefonata
misteriosa.
Salutai
tutti quanti e mi diressi
verso il parcheggio. Infilai la mano nella tasca della giacca alla
ricerca
delle chiavi dell'auto ma invece di trovare lo squadrato telecomando
nero le
mie dita si imbatterono in una singola chiave. La estrassi e la fissai.
Era
rimasta lì da quando Matthew me l'aveva consegnata tre
settimane prima e me ne
ero quasi dimenticato. La scomoda questione di quella
eredità inaspettata era
stata parcheggiata momentaneamente in un cassetto della mia mente, in
attesa
del momento giusto per affrontarla e risolverla una volta per tutte.
Sul fatto
che me ne sarei liberato non nutrivo dubbi, dovevo solo stabilire come
e
quando.
Il
mio iPhone prese a vibrare nel
taschino interno della giacca e già dalla suoneria capii chi
fosse. Solo lei
poteva salvarsi usando Womanizer di
Britney Spears.
Così
ogni volta che mi chiamava era
come se sentissi la sua fastidiosa vocetta da ragazzina che mi
rimproverava e
agitava il dito facendomi segno che no, non mi stavo comportando per
niente da
bravo bambino.
Womanizer,
Woman, Womanizer
You're
a Womanizer, oh
Womanizer oh
You're
a Womanizer, baby
Lo
pescai in tutta fretta prima che
qualcuno nel passarmi accanto sentisse quelle parole poco lusinghiere
rivolte
al sottoscritto e mi rivolgesse uno sguardo indignato.
Sapendo
di non avere scampo, lanciai
uno sguardo sconsolato al sorriso diabolico stampato sul volto che mi fissava dallo
schermo del telefono e
accettai la chiamata, «Dimmi tutto, adorata sorella»
«Dovunque
tu sia non muoverti.
Terremoti, uragani, meteoriti: nulla varrà come scusa. Non
osare spostarti da
dove ti trovi ora». Dopodiché il cellulare mi
restituì un vuoto tu-tu-tu,
chiaro segno che la mia folle interlocutrice, dopo avermi lanciato
intimidazioni e ordini categorici, mi aveva bellamente chiuso il
telefono in
faccia.
Approfittai
del tempo d'attesa per
controllare i dati della borsa, leggere un articolo sul sito del Financial
Times e chiamare Matthew.
«Carissimo,
mi hai preceduto per una
frazione di secondo. Stavo per contattarti per conto della tua migliore
amica»
Mi
appoggiai al cofano della mia
auto, così lucido e splendente da non farmi temere per la
sorte dei miei
pantaloni Hugo Boss. «Hillary Clinton?»
«Indovinato!
Vorrebbe organizzare
un'uscita a quattro: tu, lei, Bill e Monica Lewinsky. Che ne
dici?»
«Dico
che sono deliziato dall'idea di
una cosa a quattro...», ridacchiai divertito.
«Bando
alle ciance! Mildred ti ordina
di venire a cena domani sera, volente o nolente»
Sbuffai
infastidito, quella donna era
sempre più soffocante ed importuna. Chissà chi
l'aveva eletta Cupido dei
poveri. «Non avevamo un patto noi due? Quando Mildred mi
invita io sono sempre
in viaggio. Sempre, anche se in realtà sono a fare i pesi a
due isolati da voi
o a sorseggiare Martini nel suo locale»
Un
rombo assordante seguito da uno
stridere di freni mi avvertì che la pazzoide era vicina.
«Scusa
amico, ma questa volta Mildred
mi ha convinto, anzi sarebbe meglio dire corrotto»
Una
Chevrolet arancio carota fece il
suo ingresso nel parcheggio ai centotrenta chilometri orari,
dirigendosi
inesorabile nella mia direzione.
«Che
ti ha promesso? Di scavarsi una
fossa e seppellircisi da sola? Avrei accettato anche io
allora»
«Molto
meglio amico mio: una bella
sculacciata su quel suo bel sederino aristocratico!»,
strillò esultante nel mio
orecchio.
Nel
frattempo l'auto color capelli
della famiglia Weasley, con una manovra da film d'azione, aveva
effettuato un
parcheggio a L, svoltando nel posteggio senza accennare a frenare fino
all'ultimo momento.
La
portiera si aprì e un piedino
fasciato da un paio di scarpe da corsa color melanzana
sbucò. Mi affrettai a
chiudere la chiamata.
«È
qui. Devo andare»
L'ultima
cosa che sentii fu la risata
roca di Matt prima di infilarmi il telefono in tasca e dirigermi verso
il
folletto alto un metro e cinquanta appena sceso dalla sua zucca.
L'unica
cosa che avevo in comune con
Judith Carter Wright era il patrimonio genetico, dopodiché
non c'era persona
alcuna che credeva che fossimo fratelli se non dopo aver controllato i
nostri
documenti e relativi certificati di nascita, aver ascoltato la
testimonianza
dei nostri genitori e aver interpellato il ginecologo che, seppur
sbalordito,
assicurava che quelle due creature erano uscite dal medesimo grembo.
Judy
se si allungava sulle punte dei
piedi riusciva forse a cingermi la vita con le sue minuscole braccine e
durante
i suoi momenti di travolgente affetto fraterno non esitava ad
arrampicarsi su
di me, proprio come farebbe una scimmia sul tronco di un albero di
banane, per
raggiungere l'altitudine necessaria a
lasciarmi un bacio sulla guancia. Quel giorno era avvolta in una felpa
stinta
ed extralarge dell'università di Stanford e in un paio di
jeans sdruciti che
avevano sicuramente visto tempi migliori. Portava i capelli tagliati
nel
medesimo caschetto spettinato fin da quando aveva quattro anni,
nonostante
fossero di un meraviglioso rosso aranciato.
«Raggiunto!
Che si fa di bello?»,
domandò entusiasta chiudendo la macchina e mettendosi a
tracolla la sua inseparabile
borsa porta computer.
La
squadrai sospettoso. Prima non
avevo pensato ad un piccolo particolare...
«Come
facevi a sapere dove mi
trovavo?»
Lei
scrollò le spalle e si passò una
mano nei capelli, scompigliandoli ancora di più. Un'upupa
avrebbe trovato
davvero accogliente quel cespuglio che si ostinava a tenere in testa
mia
sorella.
«Semplice.
Ho installato un
dispositivo GPS sulla tua auto». Me lo spiegò come
se fosse la cosa più
naturale del mondo. D'altronde chi non nasconde dispositivi di
localizzazione
nelle auto dei propri cari?
«E
perché lo avresti fatto?»,
domandai cercando di non infuriarmi.
La
compagnia di Judy consisteva
sempre in un perenne e costante esercizio di autocontrollo sulla
rabbia. Quella
puffetta era stata creata per mandarmi fuori dai gangheri.
Lei
sembrò rifletterci per un attimo
prima di sorridermi candida, «Perché è
divertente!»
Ormai
nulla di lei mi sorprendeva più
perciò sorvolai appuntandomi mentalmente di setacciare
l'interno della mia auto
alla ricerca del malefico aggeggio spia in futuro.
«Riformulo
la domanda: che si fa?»
Così
piccola eppure così fastidiosa.
«Io
vado a casa mia, tu non so...»,
borbottai aprendo la portiera e sedendomi al posto di guida.
Una
manina sgusciò al di sotto del
mio braccio e si infilò rapida nella mia tasca.
«Tadaaan!»,
strillò brandendo la
celebre chiave. «Tu guidi e io dormo»
«Come
farai allora ad assicurarti che
non mi diriga da tutt'altra parte e ti scarichi in un fosso?»
Lei
scosse la testa e ridendo di
gusto circumnavigò la vettura per dirigersi dal lato
passeggero. «Ricordati che
qui sono io il genio della tecnologia. Se imposto un percorso e tu fai
una
deviazione, io verrò avvertita e allora saranno guai.
Grossi, grandi e
potenzialmente invalidanti a vita guai».
Pescai
dal cruscotto i miei occhiali
da sole Persol e, dopo aver messo in moto, ingranai la retromarcia per
uscire
dal parcheggio e annettermi nel pigro traffico delle cinque e trenta di
pomeriggio.
«Ovviamente
non dovrebbe sorprendermi
il fatto che tu sia a conoscenza di tutta questa buffa storia
dell'eredità...»,
commentai mentre svoltavo verso lo svincolo della superstrada.
«Ovviamente!
La chiave te l'ho messa
io nella tasca della giacca stamattina!»
Voltai
la testa di scatto nella sua
direzione, «Com'è possibile? E come facevi a
sapere del testamento?»
Lei
mi rivolse uno sguardo di
rimprovero prima di togliersi le scarpe e mettere in bella mostra i
suoi
piedini fasciati in calzini color giallo limone sul mio cruscotto
lucido.
«Fratellino caro, così mi offendi. Diciamo che
potrei aver ricattato Inés,
potrei aver derubato Matthew e potrebbero esserci delle cimici in casa
tua. È
tutto al condizionale quindi stiamo parlando di ipotesi...»
Dal
suo ghigno diabolico compresi che
di ipotetico non c'era proprio nulla. Neppure il fatto che fossi un
imbecille
facile da abbindolare era più un'ipotesi ma ahimè
un dato di fatto.
Un
quarto d'ora più tardi, dopo
un'estenuante chiacchierata con la mia adorata sorella, arrivammo alla
strada
sterrata che conduceva alla casa di Tobias.
Ricordo
che una volta il vialetto
d'ingresso era contornato da due file ordinate di splendidi alberi di
nocciolo,
sui quali io mi arrampicavo nonostante i continui divieti di nonna. Ora
solo
qualche tronco solitario, attorniato da secche sterpaglie, ci diede il
benvenuto.
La
casa, una volta dipinta di un
rilassante color turchese, appariva ora solitaria e abbandonata.
L'intonaco si
era scrostato e l'edera rampicante aveva coperto metà
facciata donando al tutto
un'aria spettrale. Il legno delle persiane era marcito e una parte del
portico
laterale era crollata sotto il peso del tempo e della trascuratezza.
«Nonna
teneva a questa casa come ad
un figlio, la curava con amore e ne era una padrona orgogliosa e
felice. Pensa
se potesse vedere tutto ciò...». Il tono mesto di
Judy mi fece tornare alla
mente i pomeriggi d'estate trascorsi qui.
Raccoglievamo
pesche e ciliegie dal
frutteto sul retro, aiutavamo la nonna a fare le conserve, nonostante
il nostro
aiuto consisteva principalmente nell'infilare le dita nella marmellata
appena
fatta per assaggiarla, e facevamo merenda sotto il portico tutti
insieme.
L'interno
non era messo molto meglio.
Polvere e ragnatele facevano da padrone, i mobili coperti da vecchie
lenzuola e
le finestre oscurate.
«Hai
intenzione di venderla, vero?».
Judy si era fermata di fronte ad una cornice appesa alla parete della
sala da
pranzo.
La
raggiunsi e mi fermai alle sue
spalle. Era una foto del giorno del matrimonio dei miei nonni. Una foto
molto
austera, pose rigide e vestiti inamidati della domenica, eppure erano
tutti lì,
i sette fratelli di nonna e i dieci di nonno. Cognate, suoceri, nipoti,
prozie
e cugini. Una grande famiglia. E al centro, cuore di tutto
ciò, le mani
intrecciate dei due novelli sposi.
«L'idea
era quella...», mormorai
piano.
Mia
sorella si volse all'improvviso e
mi cinse tra le braccia. «Non farlo. Per favore, non farlo.
So che sta andando
tutto in rovina e so che aggrapparsi alla speranza di una nuova futura
famiglia
unita e gioiosa ad abitare queste mura non è tra i tuoi
progetti ma...»
Le
accarezzai piano i capelli
continuando a fissare lo sguardo deciso di Tobias e gli occhi dolci di
sua
moglie in quella vecchia fotografia in bianco e nero. «Non ho
tempo di curarmi
di una vecchia casa», mormorai come scusa.
Lei
si staccò e mi rivolse uno
sguardo duro, «Non è solo una vecchia casa. Questa
è la nostra casa. Capisci
cosa voglio dire, Liam? Qui abbiamo passato i momenti più
felici e pieni della
nostra infanzia. Qui, senza le pressioni costanti di papà o
i continui
rimproveri di nostra madre. Qui eravamo dei semplici bambini che
avevano il
diritto di giocare, correre liberi e mangiare cioccolata a
volontà. Se non lo
vuoi fare per te allora fallo per me. Io ti aiuterò,
Cambridge non è lontana e
le mie ricerche posso continuarle anche da qui...Ti prego, Liam, ti
prego...».
Cosa potevo rispondere? C'era un'unica risposta in grado di spazzare
via la
tristezza da quegli occhioni color nocciola e fu quella che diedi.
«Posso
provarci, ma tu devi darmi una
mano, un aiuto concreto e non una delle tue solite idee tutte unicorni
e
arcobaleni e-». Non riuscii a terminare la frase
perché mia sorella si gettò
letteralmente tra le mie braccia e mi strinse in un abbraccio
mozzafiato. Continuava
ad alternare ringraziamenti ad appiccicosi bacetti sparsi per tutto il
volto e
ci vollero due minuti buoni prima che riuscissi a farle posare
nuovamente i
piedi per terra, lontano dalla mia persona.
«Ok,
ok, ho recepito la tua
gratitudine. Ora...», di nuovo non riuscii a concludere il
mio pensiero perché
Judith sparì dalla stanza ad una velocità
sbalorditiva.
Rimaneva
un mistero per me il come
facessero a coesistere nel medesimo gracile corpicino quel folletto
tutto pepe
e saltelli e la geniale nerd che lavorava al M.I.T., i cui studi in
campo
informatico erano stimati dai più eminenti scienziati.
«Liam,
corri subito qua!», la sua
vocetta autoritaria mi raggiunse e così la seguii fino a
trovarla accovacciata
sui gradini d'ingresso con il portatile posato sulle gambe e il naso
appiccicato allo schermo.
Mi
sedetti accanto a lei e attesi
delucidazioni in merito a quello scoppio di entusiasmo.
«Ho
trovato la persona che fa al caso
nostro. Leggi qui!»
Cambiò
schermata e mi indicò una
scritta contornata da violette e api digitali che recitava: Felicity's
Garden.
Una
breve introduzione raccontava di
questa Felicity, di professione architetto paesaggistico, che aveva
fondato tre
anni prima questa piccola attività e che di fatto si
occupava di trasformare
erbacce e gramigna in oasi fiorite e tavolozze di colori e profumi.
Il
sito era tutto un tripudio di
tinte pastello, principalmente sui toni del rosa Barbie, caratteri
arzigogolati
e descrizioni fiabesche.
«Non
avevo detto niente unicorni e
arcobaleni?», chiesi esasperato.
Mia
sorella mi ignorò e cliccò sulla
galleria del sito. Una serie di foto di lavori svolti in passato da
questa
Felicity si parò davanti ai miei occhi increduli.
Apine
ronzanti e candide margheritine
a parte, questa tizia sembrava davvero sapere il fatto suo. Ogni
immagine era
accompagnata da una foto che raffigurava il giardino prima dell'inizio
dei
lavori e il divario tra il prima e il dopo era impressionante.
«Qui
c'è il suo indirizzo email,
scrivile e prenota un appuntamento. Il primo sopralluogo e la bozza del
progetto sono gratuite. Lo so, sono geniale oltre che bellissima e
simpaticissima», si gongolò mentre in due
nanosecondi esatti faceva copia e
incolla con il recapito di Felicity e me lo inviava per posta
elettronica.
«Già.
Com'è fortunato Karl!»,
esclamai sarcasticamente.
Lei
chiuse il pc e mi allungò uno
scappellotto. «Karl mi ha piantato, diceva che non lo
lasciavo respirare. Come
se avessi io il controllo sulla quantità di ossigeno
effettivamente inspirata
dal suo nobile naso...»
Le
passai un braccio intorno alle
spalle e la strinsi a me, «Per caso avevi installato un GPS
anche sulla sua
auto?»
«Può
darsi...», borbottò strofinando
la guancia contro la mia camicia. «Comunque non mi importa.
Il suo livello di
quoziente intellettivo raggiungeva a malapena i 167...»
«Ah
bè, uno con un Q.I. pari solo
a quello di Isaac
Newton è meglio
perderlo che trovarlo», la presi in giro lasciandole un
bacino sulla zazzera
spettinata.
Quella
sera, dopo aver riportato Judy
a recuperare la macchina e avere preso al volo due pizze da asporto,
avevamo
fatto rientro al mio appartamento e ci eravamo guardati tutti gli
episodi
arretrati di The Big Bang Theory, nonostante solo mia sorella riuscisse
a capire
tutto ciò di cui parlava Sheldon Cooper.
La
radiosveglia sul mio comodino
segnava mezzanotte meno un quarto eppure il sonno non arrivava. Judith
era
andata a dormire già mezz'ora prima, considerato che la
mattina seguente si
sarebbe dovuta mettere in viaggio all'alba per avere il tempo di
tornare a
Cambridge per la sua lezione delle 8.30.
Accesi
il portatile e, mentre
etichettavo come spam un po' di email, mi capitò sott'occhio
il messaggio
inviatomi oggi pomeriggio da mia sorella.
Aprii
un nuovo messaggio, copiai
l'indirizzo email, cercando di non ridere di fronte all'immagine
abbinata al
profilo della signorina, la principessa Gommarosa di Adventure Time, e
iniziai
a scrivere.
Da:
l.carter.wright@gmail.com
A:
felicity.vh@gmail.com
Object:
Informazioni
Ms.
Felicity,
Ho
visionato il vostro sito
internet e sarei interessato a fissare un appuntamento con Lei, sempre
se
disponibile, per fare un sopralluogo dell'area verde che necessita di
un
intervento quanto prima.
Cordialmente,
L.
Carter Wright