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Autore: HannibalLecter    18/09/2015    3 recensioni
Liam Carter Wright è un giovane avvocato esperto in divorzi e furiosi litigi, tipico topo di città la cui unica idea di contatto con la natura comprende un dissetante cocktail servito in una noce di cocco, calda sabbia bianca e donne dalla pelle dorata dal sole.
Felicity Van Houten, testa tra le nuvole e lentiggini, invece lavora quotidianamente immersa nel verde e ogni sera si rifugia nella sua casetta di campagna alquanto malandata, circondata da un vero e proprio paradiso fiorito, che la tiene impegnata a tal punto da farle scordare di fare la spesa o pagare le bollette.
Il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata. Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse
le viole sono blu
Liam Carter Wright è una testa di cactus
e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.
«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Liam

 

«Il caso Field contro Jackman è stato archiviato e Jerry ha chiesto una copia dei documenti»

Scartoffie.

«Mrs. Taylor mi ha chiamato ben trentasette volte questa mattina e alla trentottesima ho ceduto e le ho detto che la riceverai domani»

Altre scartoffie.

«I gemellini dei Ferguson dopo il disperato tentativo di rapimento da parte del loro squilibratissimo genitore sono stati momentaneamente affidati alle cure dei nonni materni in attesa dell'udienza di giovedì»

Una pila di scartoffie sempre più alta e pericolante si stava formando davanti al mio naso man mano che Diana, la mia efficientissima segretaria, snocciolava aggiornamenti e promemoria in modo ordinato e quasi meccanico.

Fissavo distratto quei fogli su cui venivano riportati per filo e per segno vicende di decine di coppie. Tanti caratteri fitti fitti battuti a computer da una diligente impiegata. Fascicoli diligentemente etichettati e catalogati.

«...Mr. Van Houten ha chiesto di-»

«Mr. Van Houten ha telefonato?». Mi riscossi rapidamente sentendo quel nome, nome che suscitava sempre dentro di me una serie di emozioni contrastanti che andavano dal rispetto tendente alla venerazione alla cieca invidia per ciò che quell'uomo era riuscito a creare. Mi alzai agitato dalla sedia, «Diana, ha chiamato qui in ufficio?»

La povera donna, presa in contropiede dal mio repentino sbalzo d'umore, annuì e mi spiegò balbettando che meno di due ore prima aveva parlato al telefono con la segretaria personale di Mr. Van Houten, il quale desiderava incontrarmi.

La cosa mi mise ancora più in ansia; perché l'uomo a capo di uno dei più importanti ed influenti studi legali del paese voleva vedermi?

«Che ore sono ora?», lanciai un'occhiata al mio orologio da polso mentre facevo avanti e indietro tra la scrivania e la finestra, «È troppo tardi adesso. Domani la prima cosa che farai appena arriverai sarà ricontattare il suo ufficio e fissare un appuntamento per qualsiasi giorno e in qualsiasi luogo egli desideri. Diana, non esitare a cancellare qualsiasi appuntamento, udienza o trasferimento avevo in programma, sono stato chiaro?»

Montgomery Van Houten era una leggenda in campo legale. Erede di una famiglia che aveva fatto dell'azienda farmaceutica il proprio impero aveva voltato le spalle a tutto ciò per gettarsi anima e corpo nell'avvocatura.

Avevo letto tutte le nove biografie non autorizzate uscite sul suo conto e sapevo benissimo delle nottate passate a fare il turno di notte in un'azienda siderurgica per riuscire a pagare il mutuo del piccolo stabile che aveva acquistato in Florida per fondare il proprio studio legale. Ora quell'uomo dormiva tra lenzuola di fine seta cinese, mangiava salmone norvegese freschissimo, beveva il pregiato vino prodotto dalla sua cantina in Toscana e viveva in una villa che come estensione si avvicinava ai dieci campi da football, senza contare il giardino e il campo da golf. Aveva costruito un regno partendo da un vecchio magazzino abbandonato e lo aveva fatto semplicemente tirandosi su le maniche e lavorando sodo. Per questo aveva tutta la mia ammirazione.

Quella era stata una giornata stranamente tranquilla perciò decisi che sarebbe stato più saggio andarsene via dall'ufficio in anticipo piuttosto di passare la serata a fare il solco nel mio prezioso tappeto persiano scervellandomi riguardo alla telefonata misteriosa.

Salutai tutti quanti e mi diressi verso il parcheggio. Infilai la mano nella tasca della giacca alla ricerca delle chiavi dell'auto ma invece di trovare lo squadrato telecomando nero le mie dita si imbatterono in una singola chiave. La estrassi e la fissai. Era rimasta lì da quando Matthew me l'aveva consegnata tre settimane prima e me ne ero quasi dimenticato. La scomoda questione di quella eredità inaspettata era stata parcheggiata momentaneamente in un cassetto della mia mente, in attesa del momento giusto per affrontarla e risolverla una volta per tutte. Sul fatto che me ne sarei liberato non nutrivo dubbi, dovevo solo stabilire come e quando.

Il mio iPhone prese a vibrare nel taschino interno della giacca e già dalla suoneria capii chi fosse. Solo lei poteva salvarsi usando Womanizer di Britney Spears.

Così ogni volta che mi chiamava era come se sentissi la sua fastidiosa vocetta da ragazzina che mi rimproverava e agitava il dito facendomi segno che no, non mi stavo comportando per niente da bravo bambino.

Womanizer, Woman, Womanizer

You're a Womanizer, oh Womanizer oh

You're a Womanizer, baby

Lo pescai in tutta fretta prima che qualcuno nel passarmi accanto sentisse quelle parole poco lusinghiere rivolte al sottoscritto e mi rivolgesse uno sguardo indignato.

Sapendo di non avere scampo, lanciai uno sguardo sconsolato al sorriso diabolico stampato sul volto  che mi fissava dallo schermo del telefono e accettai la chiamata, «Dimmi tutto, adorata sorella»

«Dovunque tu sia non muoverti. Terremoti, uragani, meteoriti: nulla varrà come scusa. Non osare spostarti da dove ti trovi ora». Dopodiché il cellulare mi restituì un vuoto tu-tu-tu, chiaro segno che la mia folle interlocutrice, dopo avermi lanciato intimidazioni e ordini categorici, mi aveva bellamente chiuso il telefono in faccia.

Approfittai del tempo d'attesa per controllare i dati della borsa, leggere un articolo sul sito del Financial Times e chiamare Matthew.

«Carissimo, mi hai preceduto per una frazione di secondo. Stavo per contattarti per conto della tua migliore amica»

Mi appoggiai al cofano della mia auto, così lucido e splendente da non farmi temere per la sorte dei miei pantaloni Hugo Boss. «Hillary Clinton?»

«Indovinato! Vorrebbe organizzare un'uscita a quattro: tu, lei, Bill e Monica Lewinsky. Che ne dici?»

«Dico che sono deliziato dall'idea di una cosa a quattro...», ridacchiai divertito.

«Bando alle ciance! Mildred ti ordina di venire a cena domani sera, volente o nolente»

Sbuffai infastidito, quella donna era sempre più soffocante ed importuna. Chissà chi l'aveva eletta Cupido dei poveri. «Non avevamo un patto noi due? Quando Mildred mi invita io sono sempre in viaggio. Sempre, anche se in realtà sono a fare i pesi a due isolati da voi o a sorseggiare Martini nel suo locale»

Un rombo assordante seguito da uno stridere di freni mi avvertì che la pazzoide era vicina.

«Scusa amico, ma questa volta Mildred mi ha convinto, anzi sarebbe meglio dire corrotto»

Una Chevrolet arancio carota fece il suo ingresso nel parcheggio ai centotrenta chilometri orari, dirigendosi inesorabile nella mia direzione.

«Che ti ha promesso? Di scavarsi una fossa e seppellircisi da sola? Avrei accettato anche io allora»

«Molto meglio amico mio: una bella sculacciata su quel suo bel sederino aristocratico!», strillò esultante nel mio orecchio.

Nel frattempo l'auto color capelli della famiglia Weasley, con una manovra da film d'azione, aveva effettuato un parcheggio a L, svoltando nel posteggio senza accennare a frenare fino all'ultimo momento.

La portiera si aprì e un piedino fasciato da un paio di scarpe da corsa color melanzana sbucò. Mi affrettai a chiudere la chiamata.

«È qui. Devo andare»

L'ultima cosa che sentii fu la risata roca di Matt prima di infilarmi il telefono in tasca e dirigermi verso il folletto alto un metro e cinquanta appena sceso dalla sua zucca.

L'unica cosa che avevo in comune con Judith Carter Wright era il patrimonio genetico, dopodiché non c'era persona alcuna che credeva che fossimo fratelli se non dopo aver controllato i nostri documenti e relativi certificati di nascita, aver ascoltato la testimonianza dei nostri genitori e aver interpellato il ginecologo che, seppur sbalordito, assicurava che quelle due creature erano uscite dal medesimo grembo.

Judy se si allungava sulle punte dei piedi riusciva forse a cingermi la vita con le sue minuscole braccine e durante i suoi momenti di travolgente affetto fraterno non esitava ad arrampicarsi su di me, proprio come farebbe una scimmia sul tronco di un albero di banane,  per raggiungere l'altitudine necessaria a lasciarmi un bacio sulla guancia. Quel giorno era avvolta in una felpa stinta ed extralarge dell'università di Stanford e in un paio di jeans sdruciti che avevano sicuramente visto tempi migliori. Portava i capelli tagliati nel medesimo caschetto spettinato fin da quando aveva quattro anni, nonostante fossero di un meraviglioso rosso aranciato.

«Raggiunto! Che si fa di bello?», domandò entusiasta chiudendo la macchina e mettendosi a tracolla la sua inseparabile borsa porta computer.

La squadrai sospettoso. Prima non avevo pensato ad un piccolo particolare...

«Come facevi a sapere dove mi trovavo?»

Lei scrollò le spalle e si passò una mano nei capelli, scompigliandoli ancora di più. Un'upupa avrebbe trovato davvero accogliente quel cespuglio che si ostinava a tenere in testa mia sorella.

«Semplice. Ho installato un dispositivo GPS sulla tua auto». Me lo spiegò come se fosse la cosa più naturale del mondo. D'altronde chi non nasconde dispositivi di localizzazione nelle auto dei propri cari?

«E perché lo avresti fatto?», domandai cercando di non infuriarmi.

La compagnia di Judy consisteva sempre in un perenne e costante esercizio di autocontrollo sulla rabbia. Quella puffetta era stata creata per mandarmi fuori dai gangheri.

Lei sembrò rifletterci per un attimo prima di sorridermi candida, «Perché è divertente!»

Ormai nulla di lei mi sorprendeva più perciò sorvolai appuntandomi mentalmente di setacciare l'interno della mia auto alla ricerca del malefico aggeggio spia in futuro.

«Riformulo la domanda: che si fa?»

Così piccola eppure così fastidiosa.

«Io vado a casa mia, tu non so...», borbottai aprendo la portiera e sedendomi al posto di guida.

Una manina sgusciò al di sotto del mio braccio e si infilò rapida nella mia tasca.

«Tadaaan!», strillò brandendo la celebre chiave. «Tu guidi e io dormo»

«Come farai allora ad assicurarti che non mi diriga da tutt'altra parte e ti scarichi in un fosso?»

Lei scosse la testa e ridendo di gusto circumnavigò la vettura per dirigersi dal lato passeggero. «Ricordati che qui sono io il genio della tecnologia. Se imposto un percorso e tu fai una deviazione, io verrò avvertita e allora saranno guai. Grossi, grandi e potenzialmente invalidanti a vita guai».

Pescai dal cruscotto i miei occhiali da sole Persol e, dopo aver messo in moto, ingranai la retromarcia per uscire dal parcheggio e annettermi nel pigro traffico delle cinque e trenta di pomeriggio.

«Ovviamente non dovrebbe sorprendermi il fatto che tu sia a conoscenza di tutta questa buffa storia dell'eredità...», commentai mentre svoltavo verso lo svincolo della superstrada.

«Ovviamente! La chiave te l'ho messa io nella tasca della giacca stamattina!»

Voltai la testa di scatto nella sua direzione, «Com'è possibile? E come facevi a sapere del testamento?»

Lei mi rivolse uno sguardo di rimprovero prima di togliersi le scarpe e mettere in bella mostra i suoi piedini fasciati in calzini color giallo limone sul mio cruscotto lucido. «Fratellino caro, così mi offendi. Diciamo che potrei aver ricattato Inés, potrei aver derubato Matthew e potrebbero esserci delle cimici in casa tua. È tutto al condizionale quindi stiamo parlando di ipotesi...»

Dal suo ghigno diabolico compresi che di ipotetico non c'era proprio nulla. Neppure il fatto che fossi un imbecille facile da abbindolare era più un'ipotesi ma ahimè un dato di fatto.

Un quarto d'ora più tardi, dopo un'estenuante chiacchierata con la mia adorata sorella, arrivammo alla strada sterrata che conduceva alla casa di Tobias.

Ricordo che una volta il vialetto d'ingresso era contornato da due file ordinate di splendidi alberi di nocciolo, sui quali io mi arrampicavo nonostante i continui divieti di nonna. Ora solo qualche tronco solitario, attorniato da secche sterpaglie, ci diede il benvenuto.

La casa, una volta dipinta di un rilassante color turchese, appariva ora solitaria e abbandonata. L'intonaco si era scrostato e l'edera rampicante aveva coperto metà facciata donando al tutto un'aria spettrale. Il legno delle persiane era marcito e una parte del portico laterale era crollata sotto il peso del tempo e della trascuratezza.

«Nonna teneva a questa casa come ad un figlio, la curava con amore e ne era una padrona orgogliosa e felice. Pensa se potesse vedere tutto ciò...». Il tono mesto di Judy mi fece tornare alla mente i pomeriggi d'estate trascorsi qui.

Raccoglievamo pesche e ciliegie dal frutteto sul retro, aiutavamo la nonna a fare le conserve, nonostante il nostro aiuto consisteva principalmente nell'infilare le dita nella marmellata appena fatta per assaggiarla, e facevamo merenda sotto il portico tutti insieme.

L'interno non era messo molto meglio. Polvere e ragnatele facevano da padrone, i mobili coperti da vecchie lenzuola e le finestre oscurate.

«Hai intenzione di venderla, vero?». Judy si era fermata di fronte ad una cornice appesa alla parete della sala da pranzo.

La raggiunsi e mi fermai alle sue spalle. Era una foto del giorno del matrimonio dei miei nonni. Una foto molto austera, pose rigide e vestiti inamidati della domenica, eppure erano tutti lì, i sette fratelli di nonna e i dieci di nonno. Cognate, suoceri, nipoti, prozie e cugini. Una grande famiglia. E al centro, cuore di tutto ciò, le mani intrecciate dei due novelli sposi.

«L'idea era quella...», mormorai piano.

Mia sorella si volse all'improvviso e mi cinse tra le braccia. «Non farlo. Per favore, non farlo. So che sta andando tutto in rovina e so che aggrapparsi alla speranza di una nuova futura famiglia unita e gioiosa ad abitare queste mura non è tra i tuoi progetti ma...»

Le accarezzai piano i capelli continuando a fissare lo sguardo deciso di Tobias e gli occhi dolci di sua moglie in quella vecchia fotografia in bianco e nero. «Non ho tempo di curarmi di una vecchia casa», mormorai come scusa.

Lei si staccò e mi rivolse uno sguardo duro, «Non è solo una vecchia casa. Questa è la nostra casa. Capisci cosa voglio dire, Liam? Qui abbiamo passato i momenti più felici e pieni della nostra infanzia. Qui, senza le pressioni costanti di papà o i continui rimproveri di nostra madre. Qui eravamo dei semplici bambini che avevano il diritto di giocare, correre liberi e mangiare cioccolata a volontà. Se non lo vuoi fare per te allora fallo per me. Io ti aiuterò, Cambridge non è lontana e le mie ricerche posso continuarle anche da qui...Ti prego, Liam, ti prego...». Cosa potevo rispondere? C'era un'unica risposta in grado di spazzare via la tristezza da quegli occhioni color nocciola e fu quella che diedi.

«Posso provarci, ma tu devi darmi una mano, un aiuto concreto e non una delle tue solite idee tutte unicorni e arcobaleni e-». Non riuscii a terminare la frase perché mia sorella si gettò letteralmente tra le mie braccia e mi strinse in un abbraccio mozzafiato. Continuava ad alternare ringraziamenti ad appiccicosi bacetti sparsi per tutto il volto e ci vollero due minuti buoni prima che riuscissi a farle posare nuovamente i piedi per terra, lontano dalla mia persona.

«Ok, ok, ho recepito la tua gratitudine. Ora...», di nuovo non riuscii a concludere il mio pensiero perché Judith sparì dalla stanza ad una velocità sbalorditiva.

Rimaneva un mistero per me il come facessero a coesistere nel medesimo gracile corpicino quel folletto tutto pepe e saltelli e la geniale nerd che lavorava al M.I.T., i cui studi in campo informatico erano stimati dai più eminenti scienziati.

«Liam, corri subito qua!», la sua vocetta autoritaria mi raggiunse e così la seguii fino a trovarla accovacciata sui gradini d'ingresso con il portatile posato sulle gambe e il naso appiccicato allo schermo.

Mi sedetti accanto a lei e attesi delucidazioni in merito a quello scoppio di entusiasmo.

«Ho trovato la persona che fa al caso nostro. Leggi qui!»

Cambiò schermata e mi indicò una scritta contornata da violette e api digitali che recitava: Felicity's Garden.

Una breve introduzione raccontava di questa Felicity, di professione architetto paesaggistico, che aveva fondato tre anni prima questa piccola attività e che di fatto si occupava di trasformare erbacce e gramigna in oasi fiorite e tavolozze di colori e profumi.

Il sito era tutto un tripudio di tinte pastello, principalmente sui toni del rosa Barbie, caratteri arzigogolati e descrizioni fiabesche.

«Non avevo detto niente unicorni e arcobaleni?», chiesi esasperato.

Mia sorella mi ignorò e cliccò sulla galleria del sito. Una serie di foto di lavori svolti in passato da questa Felicity si parò davanti ai miei occhi increduli.

Apine ronzanti e candide margheritine a parte, questa tizia sembrava davvero sapere il fatto suo. Ogni immagine era accompagnata da una foto che raffigurava il giardino prima dell'inizio dei lavori e il divario tra il prima e il dopo era impressionante.

«Qui c'è il suo indirizzo email, scrivile e prenota un appuntamento. Il primo sopralluogo e la bozza del progetto sono gratuite. Lo so, sono geniale oltre che bellissima e simpaticissima», si gongolò mentre in due nanosecondi esatti faceva copia e incolla con il recapito di Felicity e me lo inviava per posta elettronica.

«Già. Com'è fortunato Karl!», esclamai sarcasticamente.

Lei chiuse il pc e mi allungò uno scappellotto. «Karl mi ha piantato, diceva che non lo lasciavo respirare. Come se avessi io il controllo sulla quantità di ossigeno effettivamente inspirata dal suo nobile naso...»

Le passai un braccio intorno alle spalle e la strinsi a me, «Per caso avevi installato un GPS anche sulla sua auto?»

«Può darsi...», borbottò strofinando la guancia contro la mia camicia. «Comunque non mi importa. Il suo livello di quoziente intellettivo raggiungeva a malapena i 167...»

«Ah bè, uno con un Q.I. pari solo a  quello di Isaac Newton è meglio perderlo che trovarlo», la presi in giro lasciandole un bacino sulla zazzera spettinata.

Quella sera, dopo aver riportato Judy a recuperare la macchina e avere preso al volo due pizze da asporto, avevamo fatto rientro al mio appartamento e ci eravamo guardati tutti gli episodi arretrati di The Big Bang Theory, nonostante solo mia sorella riuscisse a capire tutto ciò di cui parlava Sheldon Cooper.

La radiosveglia sul mio comodino segnava mezzanotte meno un quarto eppure il sonno non arrivava. Judith era andata a dormire già mezz'ora prima, considerato che la mattina seguente si sarebbe dovuta mettere in viaggio all'alba per avere il tempo di tornare a Cambridge per la sua lezione delle 8.30.

Accesi il portatile e, mentre etichettavo come spam un po' di email, mi capitò sott'occhio il messaggio inviatomi oggi pomeriggio da mia sorella.

Aprii un nuovo messaggio, copiai l'indirizzo email, cercando di non ridere di fronte all'immagine abbinata al profilo della signorina, la principessa Gommarosa di Adventure Time, e iniziai a scrivere.

 

Da: l.carter.wright@gmail.com

A: felicity.vh@gmail.com

Object: Informazioni

 

Ms. Felicity,

Ho visionato il vostro sito internet e sarei interessato a fissare un appuntamento con Lei, sempre se disponibile, per fare un sopralluogo dell'area verde che necessita di un intervento quanto prima.

Cordialmente,

L. Carter Wright

 

  
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