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Autore: JulesBerry    23/09/2015    2 recensioni
Seguito di "I have finally realised I need your love".
[Prevista revisione - e anche piuttosto urgente, Santo Merlino - dei capitoli già pubblicati.]
- Dal capitolo 26 -
«Ci sono sempre stati troppi cocci di me, sul pavimento. Potresti farti del male tentando di raccoglierli e rimetterli insieme» sfilò la mano dalla presa di Fred, percependola più allentata, e si alzò sotto il suo sguardo attonito. «Non sentirti in colpa se non ce la fai più. Non sentirti in colpa se decidi di aprire quella porta. Fosse possibile, sarei la prima a varcarne la soglia per allontanarmi un po’ da me.»
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Fred Weasley, George Weasley, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Che l'amore è tutto, è tutto ciò che sappiamo dell'amore'
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Capitolo 26




Anche la quiete può dare inquietudine,
per timore che passi

 
 


You’ve got a face not spoiled by beauty
I have some scars from where I’ve been
You’ve got eyes that can see right through me
You’re not afraid of anything they’ve seen
 

L’asfalto e i marciapiedi delle strade di Londra erano ancora bagnati, quel pomeriggio del primo giorno di maggio; la pioggia aveva accompagnato l’arrivo del nuovo mese, scandendo ogni singolo istante per mezzo del rumore di quelle leggere gocce che si infrangevano al suolo e che diventavano quasi un tutt’uno con esso.
Una giovane donna percorreva quelle vie con un’andatura un po’ più lenta del normale, probabilmente per paura che quel terreno scivoloso la tradisse, come d’altra parte era già successo fin troppe volte nel passato.
Una timida folata di vento le scompigliò i lunghi capelli corvini, ma i suoi occhi dal colore dell’ambra non smisero di guardare fisso davanti a loro, forse persi in mille e più pensieri.
Conosceva bene la pioggia inglese, lei: essa non è una semplice precipitazione atmosferica, quanto piuttosto una vera e propria forza esterna capace di scavarti sin dentro le ossa, di rimanere in circolo nelle vene, di rimescolare le carte in tavola fino a quando tutto non sembra diverso, fino a quando tu stesso non sei diverso; e, nelle tue narici, l’odore di quell’acqua che ti ha appena bagnato il viso sa degli sbagli che hai commesso, delle scelte che hai fatto, degli amori che ti hanno demolito dall’interno e di quelli per cui hai lottato fino a non avere più aria nei polmoni. La pioggia inglese saprà sempre come costringerti a fare i conti con te stesso: sta a te decidere se lasciarti sopraffare o se combattere per rimanere in piedi.

La ragazza dai capelli corvini si fermò di fronte a una pasticceria, interrompendo la sua passeggiata solitaria su Marylebone High Street: anche lei, d’altronde, aveva diritto al suo sacrosanto tè delle cinque.
Aprì con delicatezza la porta di ingresso ed entrò in quell’accogliente salottino, lasciandosi investire dal delizioso odore di cannella e zenzero dei biscotti appena sfornati; sorrise, ricordando gli anni della sua infanzia e i momenti in cui sua madre le consentiva di assaggiare l’impasto della sua crostata di fragole, per poi darle il solito buffetto sulla guancia paffutella.
Senza esitare ulteriormente, si recò al bancone e ordinò una tazza di tè, dopodiché prese posto a un tavolino libero vicino alla finestra e iniziò a guardare all’esterno, scostando di poco le tendine.
Aveva uno strano presentimento; uno di quelli che non sai definire, ma che senti e basta, con tutto il turbamento che ne può conseguire. Semplicemente, si era svegliata così, con un inspiegabile peso sul cuore e con il desiderio che quella giornata appena cominciata finisse presto, possibilmente senza eccessive complicazioni.
Rigirando lentamente il cucchiaino nell’elegante tazza di porcellana che le era appena stata servita, continuava a osservare tutte quelle persone che sfilavano per le strade, sotto i suoi occhi, come se da esse dipendesse la sua comprensione del mondo. In realtà, si chiedeva soltanto quando anche lei, finalmente, avrebbe potuto camminare per quelle vie senza doversi necessariamente rifugiare nell’identità di qualcuno di cui a stento conosceva il nome.

Si reimmerse nell’aria fresca di quel pomeriggio di primavera, una decina di minuti più tardi, e accelerò il passo per raggiungere una traversa senza uscita poco frequentata; qui, si guardò attorno con attenzione, accertandosi che nessuno l’avesse seguita, e si Smaterializzò.  

Riapparve su una spiaggia apparentemente isolata dal mondo, non molto distante dal punto in cui le onde del mare si infrangevano sulla riva, bagnandone con eleganza la sabbia. In quello scenario, Villa Orchidea si imponeva in tutta la sua fiera, dignitosa bellezza, che nulla avrebbe mai potuto intaccare o scalfire; era come se chiedesse a quella costa del Devon del Sud di ammirarla, di contemplarla nelle sue proporzioni armoniche e di invidiarla, perché inespugnabile e indistruttibile.
La ragazza attraversò il bel portico colonnato e aprì la porta di ingresso, che si chiuse alle spalle una volta entrata. Ancor prima di posare la giacca sull’attaccapanni, scorse una figura maschile dai capelli biondi seduta per terra, troppo concentrata a cullare un piccolo fagotto – ormai addormentato – per accorgersi di lei.
«Ciao, zio» richiamò la sua attenzione, allora, avvicinandosi.
 Desmond Stevens sollevò repentinamente lo sguardo per salutarla, ma rimase paralizzato nel constatare che quella non fosse affatto sua nipote. «E tu chi diavolo sei?!» domandò, allarmato, ma proprio in quell’istante la Pozione Polisucco perse ogni sua efficacia e, in un batter di ciglia, la ragazza dai capelli corvini e dagli occhi del colore dell’ambra fu solo un ricordo, rimpiazzato dal sorriso smagliante e un po’ divertito di un’Abigail più in forma che mai. «Gail, tesoro mio! Ho quarantadue anni, non puoi farmi questi scherzetti: il mio cuore potrebbe non reggere!» commentò l’uomo, sollevato, mentre poggiava nuovamente la testa contro la parete. Lei ridacchiò e mise su un’espressione innocente.
«Non ho resistito» disse con sincerità, accarezzando con delicatezza la testolina del piccolo Richard, che sonnecchiava serenamente tra le braccia del papà.
«Dovrò fare una bella ramanzina a George: ha una cattiva influenza su di te, non va bene» scherzò questi, riflettendo però che era molto più probabile che accadesse il contrario. «Era Pozione Polisucco?»
«In tutto il suo splendore. La preparazione non è stata una passeggiata – quelli del San Mungo mi manderebbero via a pedate, se scoprissero che ho preso in prestito qualche ingrediente –, ma era necessaria: non potevo più andare e tornare da quel posto senza prendere precauzioni, sarebbe stato come fare visita a un’intera popolazione di Ungari Spinati digiuni da due settimane» spiegò Abigail, rabbrividendo al solo pensiero: non ci teneva a sprecare preziose energie per seminare ipotetici Mangiamorte.
Desmond annuì e le indirizzò uno sguardo curioso. «E quella ragazza? Chi era?»
«Una Babbana di Londra: le ho rubato qualche capello circa venti giorni fa; eravamo in fila insieme in una caffetteria, un certo Star-qualcosa. Non si è accorta di nulla, è stato troppo facile» fece lei con allegria, quasi sciogliendosi di fronte al rilassato sorriso nel sonno di quell’adorabile scricciolo di poco più di un mese di età. «Perché sei seduto qui? Il salone è pieno di divani.»
«Oh, mia cara, lo capirai da sola» disse Desmond con noncuranza, probabilmente non volendo anticipare nulla alla nipote.
Questa aggrottò le sopracciglia e tornò a guardare lo zio, stranita. «In che senso?»
«Tu vai» fu l’unica cosa che lui le disse, facendole l’occhiolino.

Abigail, sempre più confusa, si diresse con un pizzico di timore alla porta che conduceva al salone, non avendo idea di che cosa aspettarsi al suo interno.
Dopo un attimo di esitazione, poggiò la mano sul pomello e lo girò. Solo quando la porta si fu aperta, la giovane comprese cosa volesse intendere suo zio: il pianto disumano di Alexander, infatti, la colse tanto alla sprovvista da portarla a chiedersi se per caso non rischiasse che le si perforassero i timpani.

La prima persona che vide nel caos di quella stanza fu Margaret, ferma di fronte all’elegante tavolo da arredamento sul quale, con ogni probabilità, era stato fatto sedere il bambino. La cugina aveva i capelli raccolti in una coda disordinata e acconciata frettolosamente, come dimostravano le numerose ciocche – sfuggite all’elastico – che le ricadevano sul volto a dir poco esausto; la sua attenzione era totalmente rapita da suo cugino Dorian, che sembrava stesse cercando di spiegarle qualcosa al di sopra di quelle urla.
Questi si passò una mano tra i capelli scuri e scosse la testa, come sconfitto, prima di tornare a occuparsi del piccolo, che copriva con la sua figura.
Sulla poltrona accanto, Julia era quasi affranta e si era ormai abbandonata contro lo schienale, tentando di resistere all’intensa emicrania, mentre sui divani Gloria e Vittoria si lanciavano sguardi rassegnati, come se quell’Inferno fosse destinato a non avere mai fine.
«Che cosa sta succedendo? Cos’è, l’Apocalisse?» chiese Abigail, sperando che il suo tono di voce fosse abbastanza alto da essere udito.
Sua nonna, che fu la prima ad accorgersi della sua presenza, sospirò pesantemente e si portò la testa tra le mani. «La preferirei di gran lunga
«Finalmente sei arrivata! Vieni qua, veloce!» la chiamò Meg, senza dubbio sull’orlo di una crisi di nervi, regalandole uno sguardo folle.
Senza farselo ripetere due volte – anche perché, diciamocela tutta, nessun essere umano sano di mente e geloso della propria incolumità avrebbe osato disubbidirle in quell’occasione –, Abigail la raggiunse e, subito dopo, guardò con preoccupazione il bambino, il cui dolce faccino grassottello era diventato un’irriconoscibile maschera urlante di un colore simile al viola e davvero poco raccomandabile.
«Santo Merlino, perché fa così?»
«Ha la febbre alta dall’ora di pranzo, non capiamo quale sia la causa. Io e mia nonna abbiamo provato a somministrargli qualcosa, ma nulla sembra funzionare. Inizio a preoccuparmi» spiegò Dorian, scrutandola con interesse nelle iridi grigie. «Cosa ne pensi?»
«Penso che sia davvero molto strano e insolito» convenne la bionda, prendendo in braccio Alexander per osservarlo con più attenzione. «Hai provato con l’Infuso di Genziana e Sambuco?»
«Certamente, Milady.»
«E l’Essenza di Eucalipto?»
«Senza esitazione» annuì ancora Dorian, che nel frattempo continuava a riflettere su altre possibili soluzioni.
Meg, mani ai capelli, si voltò di scatto verso la piccola elfa domestica, anch’essa stravolta. «Willow, ti prego, salvati da questo delirio e va’ a chiamare Fred e George.»
«Dove sono?» domandò Abigail, che solo in quell’istante si rese conto della loro assenza.
«George stava per impazzire, mentre Fred pensava di competere per il premio “Padre più fottutamente apprensivo dell’intero, maledetto Cosmo”. Li ho rinchiusi nella Stanza Esperimenti» chiarì Meg, sprofondando in una delle poltrone. Tuttavia, non appena ebbe nominato quella stanza, nella mente della cugina si accese la luce: e se...
«Fondenti Febbricitanti» mormorò Abigail, sovrappensiero, convinta che tutto ciò potesse avere perfettamente senso. Dorian, accanto a lei, si costrinse a richiudere la bocca, precedentemente spalancata a causa dello stupore di esser stato tanto ingenuo da non averlo capito immediatamente.
«Adesso cosa c’entrano le Merendine Mar-» Meg si bloccò, esterrefatta, intuendo ciò che l’altra le aveva tacitamente comunicato.

Fu solo quando i gemelli entrarono in salone – seguiti da un giovane ragazzo di quindici anni, che Abigail riconobbe come Lancelot – che la prima si riscosse, fulminandoli con uno sguardo tanto eloquente che entrambi si bloccarono sulla soglia e considerarono con ardore la possibilità di svignarsela di nuovo al piano di sopra.
«Freddie, perché la tua dolce metà sembra desiderosa di staccarci la testa?» bisbigliò George, ma il fratello preferì non rispondere, probabilmente intimorito dalla possibile reazione di Margaret.
«Vi siete forse persi qualche Fondente Febbricitante per casa?» chiese lei, sospettosa, scrutandoli con occhio da investigatore.
«No» rispose d’istinto George, al che Abigail dovette estinguere una risatina in qualche colpo di tosse.
Meg sollevò un sopracciglio, affatto convinta di quella risposta, mentre Fred tentava di mettere in moto i propri neuroni, pregando affinché si rivelassero collaborativi.
Proprio quest’ultimo, però, improvvisamente arrossì come un bambino sorpreso con le mani nella marmellata. «Forse» mormorò, stranamente a disagio, rivolgendo la sua attenzione al tappeto sotto i suoi piedi per evitare lo sguardo omicida della Stevens.
Lei si alzò, incrociò le braccia al petto e corrugò la fronte. «Definisci forse
«Be’...» iniziò il ragazzo, con fare vago, portandosi una mano dietro le spalle. «Potrei averne dimenticato un sacchetto sul tavolo della sala da pranzo, ora che ci penso. Solo per pochi minuti, però! Sono subito tornato a riprenderlo!»
«Il sacchetto era aperto o chiuso?» continuò Meg, assottigliando pericolosamente lo sguardo. Lui deglutì e si guardò attorno in cerca di un appoggio destinato a non palesarsi.
«Temo fosse aperto» ammise, infine, e pensò che Margaret non sarebbe stata da biasimare se avesse deciso di strangolarlo seduta stante per quella stupida ingenuità.
La ragazza, infatti, si puntellò le mani sui fianchi e lo folgorò con un’occhiata di fuoco. «Non ci credo» disse a denti stretti. «Hai dimenticato un sacchetto aperto e pieno di quei dolcetti infernali sul tavolo, nella stessa stanza in cui si trovava un bambino di undici mesi e mezzo capace di far Levitare gli oggetti, e per di più lasciandolo da solo. Si sarà divertito parecchio, mentre eri via, a ingozzarsi di quella roba!»
«Non fare troppi viaggi, ne avrà mangiato solo uno: il sacchetto era ancora pieno, quando l’ho ripreso!» si giustificò Fred, sulla difensiva, assolutamente non disposto ad assistere a una delle solite sceneggiate di Margaret.

Sceneggiata che, naturalmente, non tardò ad arrivare.

«È sempre colpa di quei maledettissimi Fondenti1! E poi, santo Merlino, quante volte ti ho detto di non perderlo di vista?! È diventato troppo imprevedibile, va controllato continuamente!» sbottò lei, che ancora stentava a credere a ciò che era successo; la stanchezza di quell’interminabile giornata la rendeva solo più irritabile del dovuto.
«Stai forse insinuando che io non mi sappia occupare di Alexander?!» disse lui, stavolta offeso, attirando su di sé l’espressione incredula della giovane mamma.
«Non ci provare! Non mi permetterei mai, e tu lo sai
«Eppure mi pare che stia accadendo l’esatto contrario!»
«Ragazzi, per l’amor del cielo, non c’è motivo di fare così per una sciocchezza simile» tentò Dorian, ma venne bellamente ignorato dai due, che continuarono a litigare come se nessuno avesse emesso suono.
«Non ho parlato in Troll, Fred! Sono stata chiara: avresti dovuto stare più attento, ma con ciò non voglio assolutamente dire che tu non ti sappia prendere cura di Alex!» specificò Meg, sgranando gli occhi, e trovò che fosse assurdo che lui dubitasse che lei lo ritenesse all’altezza di crescere un bambino unicamente per via di una piccola distrazione come quella – sebbene, era ovvio, l’avesse fatta infuriare a dismisura.
Lui, però, non sembrava dello stesso parere. «E invece lo pensi, Margaret! Sei sempre sull’attenti, pronta a intervenire su ogni singola cosa, come se io non ne fossi capace! Ti rendi insopportabile, quando ti comporti così!»
«Morgana maledetta, non lo fare» disse piano George, sperando che il fratello fosse abbastanza intelligente da frenare la lingua prima di poter dire qualcosa che, con ogni probabilità, avrebbe fatto trasformare Margaret – già di sasso – in una iena ridens allo stato brado.

Povero illuso.

«Sarebbe stato meglio se non...» continuò Fred, ma ebbe l’accortezza di bloccarsi appena in tempo, rendendosi conto della completa idiozia che era stato sul punto di pronunciare.
«L’ha fatto» commentò Lancelot, dando una gomitata a George, pietrificato accanto a lui.

Meg percepì qualcosa dentro di sé rompersi e precipitare per terra, non prima di averla scheggiata con un’innaturale indifferenza. Le tolse per un attimo il respiro, mentre scendeva giù per l’esofago e rallentava la sua caduta all’altezza del petto, forse solo per il gusto di vederla annaspare in silenzio, mentre all’esterno si mostrava nella sua solita corazza imperturbabile.
Rimase immobile e prese a fissare Fred con un’espressione indecifrabile dipinta sul viso; arricciò le labbra, abbassando lo sguardo per dirigerlo al pavimento.
«Cosa, Fred? Che cosa sarebbe stato meglio?» chiese, tornando a trafiggerlo con quegli occhi verdi che, dietro quell’immancabile sicurezza che li faceva brillare, apparivano comunque feriti. La sua voce, invece, era tanto controllata da far accapponare la pelle. «Sarebbe stato meglio se non mi avessi mai chiesto di sposarti? Sarebbe stato meglio se non avessimo avuto Alexander? Sarebbe stato meglio se non ci fossimo mai innamorati? O forse sarebbe stato ancora meglio se non...» esitò, indecisa, facendo morire la frase in un sospiro. «Rispondimi, Fred, e abbi il coraggio di dirmi che cosa accidenti sarebbe stato meglio.»
«Non... Non intendevo questo, lo sai» si affrettò a dire lui, ovviamente pentito, avanzando di qualche passo. «Non volevo dirlo. Scusami» aggiunse, calmo, come se avesse avuto paura di fare del male a una bambola di porcellana tanto delicata da dare l’impressione di essere fragile. Provò a sfiorarle una guancia, ma lei si scansò e guardò altrove, distaccata.
«Ho bisogno di stare da sola» si limitò a dire, atona, prima di abbandonare il salone e sbattere con violenza la porta.

Abigail e George si scambiarono un lungo sguardo, entrambi sovrappensiero, mentre Gloria prendeva in braccio Alexander e – probabilmente per distrarsi e non rimuginare su ciò che era appena successo – lo stringeva a sé, cullandolo con dolcezza per placare i suoi lamenti. Dorian borbottò qualcosa come “eravamo già abbastanza nervosi senza che loro due completassero l’opera”, ma Fred non gli diede ascolto.
Era rimasto nella stessa posizione di poco prima, di stucco, come se il rumore di quella porta chiusa con forza l’avesse paralizzato.
Aveva capito di aver fatto un errore madornale nello stesso istante in cui lo aveva commesso, e una parte di sé non era per nulla meravigliata che Margaret avesse reagito in quel modo; anzi, pensò di essere stato fin troppo fortunato a non ricevere una bella fattura di prim’ordine che avrebbe stentato a dimenticare. D’altra parte, a quello sguardo deluso e profondamente ferito sarebbe stato più difficile trovare rimedio, e lui lo sapeva: sarebbe stato meglio se lei avesse ribattuto, se gli avesse urlato addosso tutta la sua rabbia; l’avrebbe infinitamente preferito a quell’amaro silenzio.

«Il problema di voi uomini» lo riscosse Vittoria, che si era appena alzata dal divano per approssimarsi con aria severa al nipote acquisito, «è che avete due neuroni in croce che non sono mai stati addestrati ad aiutarvi a pensare prima di dare fiato a quei becchi starnazzanti. Fate tutto alla cazzo, tu compreso
«Mamma! Modera il linguaggio!» la rimproverò la figlia, colpita, lanciando subito dopo un’occhiataccia a una sghignazzante Abigail.
Vittoria la ignorò e proseguì con il suo discorso. «Tuttavia, non pensavo fossi così rincitrullito da non capire che l’ultima cosa di cui quella ragazza ha bisogno è stare da sola» disse, mentre lo colpiva ripetutamente al petto con il dito indice, non curandosi della sua espressione sconvolta. «Noi donne rimuginiamo, tessiamo tele infinite, e le conseguenze possono essere catastrofiche. Non hai idea del numero di assurdi melodrammi cui siamo capaci di dar vita se ce ne viene data l’occasione; se solo lo capiste, evitereste di scavarvi la fossa a ogni singola frase che pronunciate» continuò a snocciolare, avanzando, cosicché anche lui – che, c’è da dire, sembrava più intimorito che altro – fosse costretto a indietreggiare sino all’uscita. «Sarebbe molto più semplice se imparaste a comportarvi come veri uomini, e non come babbei!»

Fred non ebbe neanche il tempo di sillabare una qualsiasi cosa in segno di protesta che Vittoria, risoluta, lo spinse fuori e gli sbatté la porta in faccia.
L’anziana signora, invece, distese il volto in un sorriso soddisfatto e si girò a guardare le altre sei persone rimaste nella stanza, che – fosse stato possibile – l’avrebbero fissata con le mandibole a pochi centimetri dal pavimento. Julia, dalla sua poltrona, le fece un applauso e annuì in segno di approvazione, ma l’improvviso silenzio fu rotto da un nuovo, agghiacciante pianto di Alexander.
«E quindi? Che cosa aspettiamo? Nel glorioso nome di Salazar, gliela volete dare o no questa benedetta pozione?» si irritò di nuovo Vittoria, abbandonandosi teatralmente sul sofà.
Dorian parve ricordarsi improvvisamente del suo compito e annuì. «Certamente! Quella roba non è adatta ai bambini così piccoli, e forse è per questo che l’altra metà del Fondente che avrebbe dovuto far abbassare la temperatura – e che lui ha sicuramente mangiato insieme al resto – non ha funzionato. Credo di poter preparare qualcosa che faccia al caso nostro.»
«Il calderone per le Pozioni Curative è in cucina, ti accompagno» disse Abigail, desiderosa di dare riposo alle sue povere membrane timpaniche, facendogli cenno di seguirla nella stanza adiacente.

Chiuse la porta della cucina e, per qualche istante, anche gli occhi, immensamente grata a quel salvifico silenzio.
Il ragazzo rise, indicando una delle credenze fissate alla parete. «È qui dentro?»
«Sì. Ci sono anche degli ingredienti, se possono servirti.»
«Credo di avere tutto a portata di mano, ma grazie» sorrise, accendendo il fuoco. «Certo che tua nonna è proprio un bell’osso duro.»
Abigail soffocò una mezza risata nel bicchiere d’acqua che si era appena versata. «Mai farla arrabbiare, questo è sicuro.»
«Finalmente capisco a cosa si riferiscano tutti quando dicono che Meg ha ereditato il suo caratterino dalla fazione materna» commentò Dorian, aggiungendo dell’Estratto di Timo al contenuto del calderone. Lei gli indirizzò uno sguardo innocente, mentre si sedeva su uno dei mobili di marmo bianco e accavallava le gambe, trovando comoda quella sistemazione.
«Saresti sorpreso di scoprire che non è l’unica, in famiglia» buttò lì, prima di tornare seria e perdere quel suo bel sorriso. «Anzi, a proposito di famiglia... Lancelot non è più a Hogwarts, quindi» osservò, potendone intuire ogni singola motivazione.
Il viso di Dorian, difatti, si rabbuiò senza alcun preavviso. «Diciamo che da quando Margaret ha pensato di atteggiarsi a Capo Rivoluzionario – scelta che io condivido e ammiro, che non si dubiti di ciò –, l’intera famiglia non ha vissuto quelli che definirei bei momenti, e immagino che anche per voi che appartenete all’altro ramo sia stata la stessa cosa. I miei genitori hanno preferito – come si suol dire – prevenire, anziché curare, e così il mio caro fratellino fracassabolidi non è più tornato a scuola, dopo le vacanze di Natale» spiegò, un tantino corrucciato; aggiunse un’altra Essenza e iniziò a mescolare, alternando il senso orario a quello antiorario ogni cinque giri di bacchetta.
Lei annuì e trasse un profondo respiro. «Hanno fatto bene.»
«Direi proprio di sì, visto cos’è successo a Giselle, due settimane fa.»
«E cosa sarebbe successo? Non ne so niente» fece la giovane, incuriosita ma anche potenzialmente preoccupata. Lo sguardo tetro di Dorian contribuì ad alimentare il suo stato di allerta.
«L’intervento di mia cugina a Radio Potter, il trentuno marzo scorso, ha fatto incazzare un bel po’ di gente, lì fuori. Era solo questione di tempo prima che qualcuno della famiglia, o comunque a noi vicino, iniziasse a subirne le conseguenze.»
«E questo qualcuno è stato proprio Giselle, immagino.»
«Con i suoi genitori, per la precisione» puntualizzò lui, grave. «Lei è riuscita a scappare, ma i signori Edwards sono stati presi, e non sappiamo che fine abbiano fatto, né se sono ancora vivi o meno. Gis è distrutta.»  
«Santo Merlino» bisbigliò Abigail, portandosi una mano alla bocca. Non voleva neanche immaginare cosa si dovesse provare in una circostanza simile, quando si è costretti a vivere con l’ansia di non sapere se sarà mai possibile riabbracciare i propri cari. «L’hai detto a Meg?»
«Sì, occhioni belli, ma ho provato a migliorare la versione dei fatti. Morirebbe di dispiacere, altrimenti, e non voglio che stia male. Non è colpa sua, non le permetterò di pensarlo» disse il ragazzo, convinto di star facendo la cosa più giusta. Poi, guardò dentro il calderone e sorrise tra sé, soddisfatto. «È pronto in tavola, a quanto pare» commentò, quindi, versando quell’intruglio in un bicchiere per dirigersi ancora una volta nella stanza accanto.
 


***
 


You let me into a conversation
A conversation only we could make
You’re breaking into my imagination
Whatever’s in there is yours to take
 

Margaret fece scivolare con noncuranza la porta della sala da pranzo, ignorando il suo cigolio.
Suo padre l’aveva vista passare per il corridoio, spedita e tesa, e le aveva chiesto cosa fosse successo; aveva abbandonato l’idea di ottenere una risposta quasi immediatamente dopo, scoraggiato di fronte al suo svogliato cenno di diniego con il capo.
Stanca, si sedette e abbandonò i piedi sul tavolo, infischiandosene di mantenere anche solo un briciolo di femminilità; certamente, questo non le sarebbe comunque servito a placare il malumore, né tantomeno a scacciare quella fastidiosa quanto tempestiva vocina che, dentro la sua testa, si prendeva gioco di lei.
Rimase immobile, immersa nell’agognato silenzio di quella stanza, mentre gli occhi erano fissi sulle sue gambe, avvolte da quel paio di jeans scuri che mai come in quell’occasione aveva sentito tanto scomodi addosso.
Sbuffò, pensando a quanto ne avesse abbastanza di quel giorno. Era stato un continuo susseguirsi di trambusti, di atteggiamenti insofferenti, di indomabili emicranie; a quel punto, non le restava che sperare che quelle ore che la separavano dal suo morbido e accogliente materasso passassero presto, anche se credeva che neanche il sonno sarebbe riuscito a interrompere l’incessante flusso di considerazioni che stava investendo la sua mente.
Non capiva se avesse più voglia di prendere a pugni Fred – insieme alla sua apparente incapacità di azionare il cervello prima di parlare – o se stessa, ben conscia che anche lei, in tal senso, aveva diverse cose da farsi perdonare. Provò a mettersi nei panni del ragazzo, a immaginare cosa dovesse significare sentirsi costantemente gli occhi di qualcun altro addosso, come in attesa di un qualsiasi passo falso, di un qualsiasi tentennamento, di una qualsiasi umana debolezza.
Era davvero così, lei? Una temibile figura dittatoriale sempre all’erta, pronta a dettar legge su ogni cosa e in ogni circostanza?
Tormentata da questo dubbio, iniziò a odiarsi e a scavarsi dentro con rabbia.
Lei era il carnefice che, in maniera subdola, si calava nella parte della vittima, interpretandola con tanta maestria da riuscire a confondere chi, invece, era costretto a viverlo, quel ruolo. Un aguzzino senza scrupoli o sensi di colpa; si chiese se fosse davvero possibile, la redenzione.

Sollevò il viso solo quando sentì la porta della sala da pranzo chiudersi con delicatezza; Fred la osservava, attento alle sue mosse, probabilmente indeciso se avanzare o meno in quel territorio pericoloso, fatto di parole non dette e di pensieri che non potevano essere annientati.
«Cosa ci fai qui?» Meg ruppe il silenzio, ma pensava di conoscere già la risposta.
Fred si avvicinò a prese posto di fronte a lei, sospirando. «Tua nonna mi ha esiliato dal salone.»
«Prevedibile» commentò lei, svogliata, sedendosi in maniera più composta; le servirono diversi secondi per trovare il coraggio di ricambiare il suo sguardo. «La chiamerebbero Sindrome di Stoccolma, sai?»
«Cosa?»
Margaret incurvò le labbra in un sorriso amaro; i suoi occhi sembravano gridargli di salvarsi. «La tua masochistica ostinazione ad amarmi.»
«Non mi importa» disse lui, deciso, afferrandole una mano prima che lei potesse anche solo programmare di ritirarla. «Quello che ho detto – anzi, che non ho detto...» provò, intensificando la presa, ma lei lo interruppe con così poca grinta, con tanta assenza d’animo da spiazzarlo. Era come se di fronte ai suoi occhi vi fosse un’altra donna.
«Lo so, Fred» annuì piano, tornando a fissare la superficie legnosa del tavolo. «Non sono arrabbiata con te, infatti. Ce l’ho solo con me stessa: forse ti ho chiesto troppo.»
«Cosa...» Fred tentò ancora, confuso, ma fu interrotto una seconda volta con la stessa scarsa vitalità di prima.
«Hai ragione su tutta la linea: sono tanto insopportabile che io stessa ho difficoltà a convivere ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, con una persona come me. Sono prepotente, è vero, e sono anche permalosa. Lunatica, aggressiva, acida, e chi più ne ha più ne metta. Ultimamente, poi, sono ancor peggio di quanto già non fossi.»
«Sei chiusa in questa casa da sette mesi e mezzo, Meg!» protestò lui, cercando i suoi occhi per incatenarli ai propri. «E non dormi come si deve da questo inverno. Sei stressata, siamo stressati. Forse non riesci a capire quanto male ti stia facendo tutto questo.»
Margaret scosse la testa, mentre la sua mano non impegnata iniziava a torcere con impazienza qualche ribelle ciocca di capelli. Non poteva neanche immaginare quanto lui avesse ragione: quella guerra faceva leva sui suoi punti deboli, pressava sui suoi nervi scoperti con l’unico scopo di annientarla, e ne stava dando l’ennesima dimostrazione.
«Per i miei modi tirannici, non voglio attenuanti. Ho un carattere di merda, e l’ho sempre saputo» disse, provando a ignorare quel nascente fastidio alla gola, che aveva appena cominciato a bruciare. «Giuro che ci ho provato, a cambiare, ma non ci sono riuscita. Se sono questa, se sono così, un motivo dovrà pur esserci.»
«Meg» la richiamò Fred, sporgendosi maggiormente verso di lei, ma venne ignorato.
«Sono stata una stupida egoista a pretendere che tu sopportassi, accettassi questa parte di me così controversa... e sono stata una stronza, perché non ho neanche provato a facilitarti questo compito, a renderlo meno gravoso» Margaret continuava a sputare fuori quelle parole dopo averle masticate con lentezza, dopo averne assaggiato quell’amara consistenza che le rendeva troppo pesanti da digerire. «Sono un disastro ambulante, condannata a non poter mai migliorare la mia condizione. Così facendo, penso, ho condannato anche te.»
«Meg» Fred stavolta alzò il volume della voce e scosse la mano che stringeva quella della giovane strega. Non voleva ascoltare altro, non voleva che lei continuasse a vomitare quella valanga di pensieri, perché difficilmente questo l’avrebbe fatta stare meglio.
Lei, però, si comportò come se non lo avesse udito. «Voglio che tu sappia che non trattengo nessuno. Non ti obbligo a rimanermi accanto, non ti obbligo a sorbirti le mie ridicole sfuriate immotivate, non ti obbligo a sorreggermi quando non ho più le forze» trattenne il respiro, pregando quelle maledette lacrime di non uscire. «Ci sono sempre stati troppi cocci di me, sul pavimento. Potresti farti del male tentando di raccoglierli e rimetterli insieme» sfilò la mano dalla presa di Fred, percependola più allentata, e si alzò sotto il suo sguardo attonito. «Non sentirti in colpa se non ce la fai più. Non sentirti in colpa se decidi di aprire quella porta. Fosse possibile, sarei la prima a varcarne la soglia per allontanarmi un po’ da me.»

Margaret mosse qualche passo incerto verso la finestra, ma lo stridio di una sedia appena spostata la convinse a fermarsi, allo stesso modo della mano che si strinse attorno al suo polso.
Fred la attirò a sé con poca grazia, e ciò parve sortire l’effetto desiderato: negli occhi arrossati e senz’altro stupiti della ragazza, sembrava finalmente essersi riaccesa un po’ di vita. «Per una buona volta, Margaret» approssimò il viso a suo, tanto vicino da respirarne lo stesso ossigeno, «sta’ zitta».
Le catturò le labbra in un bacio, portando la mano libera dietro la sua nuca, tra i capelli ormai sciolti, per tenerla ancora più inchiodata a sé. Abbandonò il suo polso quando sentì crollare le sue iniziali resistenze, così da poterle cingere i fianchi in una stretta che, esattamente come quel bacio, per lei aveva tutto il sapore dello zucchero da mettere sulle ferite, cosicché potessero rimarginarsi più in fretta.
Ansante, Meg scostò il viso e si sentì vulnerabile come poche altre volte le era capitato in vent’anni di esistenza. «Fred, io...»
Lui le sorrise dolcemente e, in silenzio, sembrò chiederle di ricambiare il suo sguardo senza alcuna vergogna; una volta incontrati, Fred non poté evitare di pensare che quegli occhi verdi facessero un casino tremendo in ogni loro singola sfumatura. «Sai che ho una passione per i disastri» sussurrò, accarezzandole i capelli disordinati. «E tu sei di gran lunga il mio disastro preferito.»

Aspettò di vedere nascere un caldo e spontaneo sorriso sul suo volto, prima di baciarla di nuovo.
Lei rispose con trasporto e gli strinse i capelli tra le dita, giocando con essi come fossero argilla da modellare a suo piacimento. Presto, avvertì la propria schiena cozzare con non molta delicatezza contro la parete, mentre i respiri si facevano più affannosi e quell’assaporarsi a vicenda non poteva più bastare a soddisfare il desiderio che avevano l’uno dell’altra.
Lui iniziò a slacciarle i primi due bottoni dei jeans, impaziente come un adolescente alle prime armi, con la mente totalmente annebbiata dal modo in cui la bocca di Margaret giocava capricciosamente e con studiata lentezza sul suo collo. Si riappropriò con foga delle sue labbra, quasi a volerne rivendicare il possesso, mordendole per lasciarvi traccia del proprio ripetuto, incessante passaggio; le sue mani iniziarono a scivolare con decisione su quel corpo che ardeva, che sembrava chiedergli sempre di più, e gli ansimi che ne derivavano risuonavano nelle sue orecchie come un richiamo dolcemente irresistibile ad ascoltarne di nuovi, e ad ascoltarne ancora.
Fremente, senza mai abbandonare la sua bocca, si adoperò per abbassarle quei pantaloni di troppo, ma non ebbe neanche il tempo di raggiungere l’elastico degli slip che il sordo rumore della porta appena richiusa – preceduto da un “Ops!” profondamente imbarazzato – lo costrinse a separarsi da lei, le cui guance infuocate davano l’impressione che avesse bevuto diversi bicchieri di vino elfico di troppo.
Di fronte all’espressione stravolta di Margaret – che non doveva essersi accorta di niente –, Fred capì di dovere delle spiegazioni. «Qualcuno è entrato e...» scosse la testa e prese fiato, ancora tutt’altro che lucido, «ed è uscito subito dopo.»

Meg stava per esclamare qualcosa di davvero poco elegante, ma delle voci provenienti dal corridoio all’esterno attirarono d’improvviso tutta la loro attenzione.
«Come ti è saltato in mente di aprire quella porta senza bussare?» era senza ombra di dubbio Abigail, stridula, che per la seconda volta in meno di un anno doveva essersi ritrovata ad assistere a qualcosa che – ne era convinta – l’avrebbe segnata per il resto della sua vita. Peccato che in quest’ultima occasione la colpa non fosse proprio sua.
«Volevo solo accertarmi che non si fossero accoltellati a vicenda e che fossero ancora vivi!» protestò George con vigore, e i due dentro la sala da pranzo erano certi che, senza volerlo, fosse arrossito.
«Oh, se può rassicurarti, mi sono sembrati molto più che vivi! Mi stupirebbe se non tentassero di scuoiare proprio te, piuttosto!» continuò Abigail in tono acidulo, picchiettando con le nocche sulla porta. «Possiamo entrare?»
Meg, per come poté, si diede una sistemata e raccolse i capelli alla bell’e meglio. «Quando volete!» li invitò con impressionante disinvoltura, al che Fred rise tra sé e scosse la testa con fare allegro, osservandola mentre occupava una delle sedie.

George e Abigail, fulminei, entrarono nella stanza e richiusero la porta. La ragazza, com’era prevedibile, era livida.
«Dovete scusarlo, ma ha la stessa attività cerebrale di un mollusco» mormorò a denti stretti, trucidando George con lo sguardo. Questi, però, allargò il viso in un sorriso beffardo e si appoggiò al muro, incrociando le braccia.
«Spiacente, blondie, ma devo dissentire» disse, tornando a guardare il fratello e l’amica con aria dispettosa. «Nel caso in cui l’aveste dimenticato, il primo e il secondo piano sono pieni di camere. Non mi sembra che la sala da pranzo sia il posto migliore per i vostri incontri ravvicinati.»
Fred, allora, ricambiò quel sorriso eloquente e si sedette sul bordo del tavolo, per nulla stupito di quell'osservazione. «Disse Mister “Facciamolo in cucina, dai”.»
Margaret scoppiò a ridere, mentre sua cugina impallidiva e dava l’impressione di volersi scavare la fossa per morirci dentro dalla vergogna e George, spiazzato, si colorava sempre più di rosso man mano che gli istanti passavano.
«Io non l’ho mai detto» mentì, grattandosi la nuca, ma il ghigno perfido del gemello parlava fin troppo chiaro.
«Sì che l’hai detto. Ti ha sentito Meg.»
«Cosa ci facevi, tu, sveglia a quell’ora?» chiese inevitabilmente Abigail, stizzita, guardando la ragazza in cagnesco: non avrebbe potuto quantomeno tenerselo per sé, anziché spiattellarlo in giro?
Margaret continuò a sorridere apertamente e sollevò le sopracciglia, divertita. «Dovevo andare in bagno. Non immaginavo potesse essere così pericoloso.»
 


***
 


I was told I’d feel
Nothing the first time
You were slow to heal
But this could be the night
 

Successe all’improvviso, senza che nessuno potesse prevederlo.  
Avevano terminato di cenare da poco più di un paio d’ore quando Margaret, seduta su un divano del salone insieme agli altri, fu costretta a lasciare il piccolo Richard alle braccia della madre, avvertendo un fastidioso bruciore interessarle il lembo di pelle coperto da una delle tasche dei jeans.
Vi infilò la mano e ne estrasse pigramente il suo galeone falso, risalente ai tempi delle riunioni dell’Esercito di Silente; aveva preso l’abitudine di portarlo sempre con sé, a ogni ora del giorno e in qualunque stanza si spostasse, intenzionata a non perdersi neanche una delle informazioni che gli altri vecchi membri dell’ES non avevano mai tardato a far circolare. In effetti, non vi si era mai separata dal giorno in cui, qualche mese prima, lei stessa si era affidata a quell’ingegnoso mezzo per comunicare agli amici la nascita di Believe the Truth, sulla scia dell’annuncio di Lee della prima messa in onda di Radio Potter. Era un modo per rimanere in contatto, per sentirsi vicini nonostante la lontananza e le avversità, per rassicurarsi gli uni con gli altri che la lotta e la resistenza non si sarebbero mai estinte.
Portò la moneta di fronte agli occhi, curiosa di sapere cosa fosse successo, ma ciò che lesse la fece rimanere di sasso: poche parole, fin troppo chiare, che in nessun modo avrebbero potuto essere fraintese. Sapeva, però, che difficilmente le cose sarebbero state così semplici come avrebbero voluto presentarsi.

«E così Alicia le ha detto: “Meg, sul serio, non puoi lanciare cacca di drago contro la porta dell’ufficio della Umbridge!”» raccontò George, continuando a far ridere i presenti con una serie di aneddoti del loro ultimo anno a Hogwarts. Nessuno si era accorto del mutamento di espressione della giovane, che da divertita e rilassata era appena diventata molto tesa; neppure Abigail, che stringeva affettuosamente il braccio del ragazzo, mentre con l’altra mano si asciugava le lacrime causate dalle eccessive risate silenziose.
«E lei ha risposto: “Allora vorrà dire che la lancerò contro la tua testa, se non ti dispiace”» proseguì Fred, incentivando l’ilarità generale. Si appoggiò contro lo schienale del sofà e si rivolse a Dorian, seduto proprio di fronte a loro. «E forse tu non sai che abbiamo innescato una Palude Portatile nel bel mezzo di un corridoio!»
«Aspettate, io andavo al terzo anno, me lo ricordo!» esclamò Lancelot, gasato, quasi balzando in piedi sul cuscino. «Fosse stato per Vitious, vi avrebbe fatto un monumento!»
«Fermi, io questa storia non la conosco!» constatò Abigail, lanciando a George uno sguardo trasudante di interesse. Lui le cinse le spalle e sorrise con soddisfazione al ricordo di quel glorioso momento.
«Ve la racconterà Meg, vi piacerà» disse, guardando l’amica, ma solo allora si accorse del piccolo oggetto che questa stava fissando, rigirandolo tra le dita. «Meg?»
«Cosa c’è scritto?» chiese Fred immediatamente, poiché doveva aver capito che si trattava del galeone falso dell’ES.
Margaret, dopo aver sollevato lo sguardo per un breve istante, lo riabbassò sulla moneta d’oro finto per leggere quanto vi era riportato. «”Harry è tornato, si combatte”. Questa sì che è una notizia» disse, guardandosi attorno per registrare le reazioni sbigottite di tutte quelle altre persone comodamente sedute nella stanza.

Ci furono diversi secondi di spiazzamento, trascorsi i quali Fred fece un gran sorriso. «Ma è fantastico
«Scusa?» commentarono Meg e Abigail all’unisono, per poi scambiarsi delle occhiate sbalordite.
George, d’altra parte, annuì con convinzione, condividendo il punto di vista del fratello. «Sappiamo che è vivo, e finalmente avremo l’opportunità di mandare via Piton e quei simpaticoni dei Carrow...»
«...a forza di calci nelle loro chiappe pallide, sì» completò Fred per lui, sotto lo sguardo stupito di Margaret. Prima ancora che questa potesse rispondere, suo cugino Lancelot decise di saltare giù dal divano e di esibirsi in ululati di pura gioia.
«Stasera si fa baldoria, gente!» esultò, in preda a un attacco di ipereccitabilità, mentre Alexander – in braccio a un Desmond a dir poco sgomento per via della scenetta del figlio minore di sua sorella – lo scrutava con diffidenza, come se di fronte ai suoi occhi si trovasse un esemplare particolarmente stupido di macaco irlandese.
«Prego?» fu proprio l’uomo a parlare, dando distrattamente degli affettuosi buffetti sulla guancia del piccolo nipotino, come a volergli suggerire di non dare mai troppa confidenza a quello strano cugino di secondo grado.
Quest’ultimo fece finta di non averlo sentito e proseguì indisturbato. «Aspetto questo giorno da mesi, vi rendete conto?»
«Lance, frena» lo richiamò Meg, intimandolo di riprendere posto; dopodiché, guardò i gemelli con un mezzo sorriso divertito con il quale, tuttavia, non riuscì a nascondere una piccola vena canzonatoria. «Voi l’avete capito che, con Harry al Castello, Voi-Sapete-Chi e la sua allegrissima combriccola non ci metteranno molto a raggiungerlo e a farci la festa, vero?»
«Sapevamo che alla fine sarebbe successo, meglio prenderla con lo spirito giusto e cercare di metterne fuori gioco il maggior numero possibile» commentò Fred, scrollando con leggerezza le spalle, salvo poi indirizzarle un sorriso sornione e farle l’occhiolino. «O forse hai paura, Pasticcino
Lei non poté trattenersi dal ridere. «Paura? Io? Ma per piacere!» disse, sventolando la mano con noncuranza, ma sapeva di non essere stata del tutto sincera: forse non aveva paura per se stessa, ma certamente ne aveva per le persone che amava; anche a costo di privarle delle bacchette e rinchiuderle in una stanza, avrebbe preferito andare a Hogwarts da sola, anziché osservarle mentre rischiavano le proprie vite. 

«Muoviamoci, allora!» fece George, sempre più entusiasta, alzandosi. Gli altri lo imitarono, ma Abigail parve improvvisamente ricordarsi di un piccolo compito da svolgere.
«Aspettate altri cinque minuti: provo a mettermi in contatto con i Pedersen, io e Savannah abbiamo sperimentato una cosa molto simile a quel galeone falso» spiegò, sparendo oltre la porta della cucina.
Vittoria, al tempo stesso, si avvicinò frettolosamente a una delle finestre, sfoderando la bacchetta. «Io cercherò di avvertire l’Ordine, avremo bisogno di parecchi rinforzi.»
«Noi dovremmo decidere chi rimarrà qui insieme a Lance e ai bambini» considerò Margaret, afferrando la bacchetta posata sul tavolino per infilarla nella tasca del jeans. Il cugino, nell’udire quelle parole, istantaneamente smise di gongolare e si voltò lentamente verso di lei, convinto di aver sentito male o di aver avuto una qualche ridicola allucinazione.
«Margarina cara, potresti ripetere?» domandò in un tono quasi isterico, mentre Fred e George iniziavano a ridere a causa di quel nuovo nomignolo che – manco a dirlo – non avrebbero esitato un solo istante a riproporre.  
Sul volto di Meg, invece, comparve un eloquente ghigno beffardo che non lasciava alcuno spazio all’immaginazione. «Tu non andrai da nessuna parte, stasera.»
«Non puoi impedirmelo!» sbottò Lancelot, risentito, ma l’imporporarsi delle sue guance contribuì solo a renderlo terribilmente buffo. «Non puoi negarmi tutto il divertimento!»
«Il massimo del tuo divertimento, questa notte» s’intromise Desmond, posandogli una mano sulla spalla, «sarà una maratona di scacchi con Willow. Tua madre potrebbe uccidermi nella maniera più atroce e dolorosa se ti portassimo con noi.»
«Ma zio!» si lamentò il giovane, guardandolo con fare supplichevole. Ci pensò il fratello maggiore a porre fine ai suoi tentativi, che si sarebbero comunque rivelati nient’altro che vani.
«Zio Des ha ragione, Lance. Sei minorenne, non puoi venire con noi.»
«Dorian!» il ragazzo soffiò via una ciocca di capelli castani che gli era caduta sugli occhi, profondamente offeso. «Siete ingiusti! Cosa accidenti dovrei fare io qui?»
«Il baby-sitter! Sai cambiare un pannolino?» fece Meg, gustandosi l’espressione sempre più sconvolta del cugino, che non tardò a spalancare teatralmente le braccia.
«No
«Be’, c’è sempre una prima volta» commentò Fred, facendo spallucce.
Lancelot stava per esplodere dalla rabbia – come lasciavano intendere tutte le sfumature umanamente possibili di rosso di cui il suo viso si stava via via tingendo –, quando Julia gli accarezzò i capelli con tenerezza. «Non preoccuparti, tesoro. Qualcuno rimarrà con te, non potresti cavartela da solo.»
«Bella consolazione, nonna» brontolò lui, allontanandosi dal gruppetto per sprofondare con scarso entusiasmo nel divano.
«Piccolo viziato incosciente! I ragazzini come lui mi fanno rimpiangere con tutta l’anima i tempi in cui andavano di moda le frustate» disse Vittoria a bassa voce, una volta che ebbe inviato il maggior numero di Patronus a quanti più membri dell’Ordine le fu possibile. «E quindi? Chi altri non ci sarà? A quel signorino non affiderei neanche un cactus, figuriamoci due marmocchi.»
«Rimarrò io» annunciò Gloria, sorprendendoli. Aveva uno sguardo triste che testimoniava quanto duro dovesse essere stato prendere quella decisione, ma sapeva che era l’unica cosa che avrebbe potuto e dovuto fare. «Sono un’Auror, ho delle responsabilità, e probabilmente dovrei già essere in viaggio per il Castello, ma non posso lasciare Richard a qualcun altro. È troppo piccolo, ha bisogno di me» si asciugò rapidamente una lacrima che stava per nascere, prima di guardare il marito e la figlia con apprensione. «Non avere vostre notizie mi ucciderà, ma ho fiducia in voi. Sangue freddo, e non abbassate mai la guardia.»
«Come mi hai insegnato» annuì Margaret con un sorriso dolce, abbracciandola.
Sapeva che stava facendo la cosa giusta, e ciò non poté che far accrescere in lei l’ammirazione che provava nei confronti di sua madre; era in momenti come quelli che pensava che, forse, fossero necessari più coraggio e forza d’animo per guardare la propria famiglia uscire di casa e andare a combattere, anziché per prendere personalmente parte all’azione. L’ansia dell’attesa, l’angoscia di non sapere, la paura di non rivedere mai più quei volti tanto amati: erano tutte emozioni che, suo malgrado, lei stessa aveva già provato; era esattamente per questa ragione che poteva capire quanto quella donna, che era sempre stata il suo più grande esempio di vita, stesse soffrendo nel lasciarli andare senza di lei.
«Qualunque cosa accada, voglio che tu sappia che sei il mio più grande orgoglio» le sussurrò Gloria, dandole un bacio sulla fronte. Poi, la donna abbracciò anche Desmond, che ricambiò la stretta e con le labbra le sfiorò i capelli, inalandone il familiare profumo di vaniglia. «Abbi cura di te, Dezi. Ti prego.»
«Starò attento. Te lo prometto» provò a rassicurarla, accarezzandole delicatamente una guancia, mentre un ritrovato calore gli riscaldava il petto; non si sentiva appellare con quel soprannome da quasi vent’anni.

«Abbiamo avvertito la Veela Family, possiamo andare» li informò Abigail, ritornando in salone, seguita da George, che l’aveva raggiunta qualche minuto prima per offrirle aiuto. Tuttavia, i capelli improvvisamente in disordine della prima – così come l’improbabile e sbiadita macchia di rossetto vicino all’angolo della bocca del ragazzo – lasciavano pensare che, in realtà, quei due non si fossero semplicemente limitati a contattare i Pedersen.
«Ci avete messo parecchio, vedo» osservò Fred con finta innocenza, sghignazzando. Considerò ammirevole come quei due, anche in una circostanza come quella, riuscissero sempre a trovare il modo e il tempo di nascondersi da qualche parte per pomiciare come due adolescenti in piena tempesta ormonale.
«Sì. Cioè, no. Insomma, hai capito» farfugliò lei, arrossendo e sistemandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio, paonazzo anch’esso.
Fred continuò a scrutarli maliziosamente. «Veramente no.»
George fece finta di non aver sentito, avviandosi verso la porta del salone che conduceva al corridoio d’ingresso. «Vogliamo andare, fratellino
«Prima devo scambiare due parole con il mio unico erede» disse il primo, così prese in braccio Alexander e gli rivolse uno sguardo furbo, cui il piccolo rispose con una tenera risata divertita. «Devi fare in modo che nonna Gloria non pensi a noi, intesi? Ti autorizzo a farla impazzire, mentre siamo via; non dovrebbe esserti difficile, in fondo ce l’hai nel sangue.»
«Noi torneremo presto, promesso» aggiunse Margaret, che si era appena avvicinata e ne aveva approfittato per sfiorare la testolina di suo figlio, posandovi poi un bacio. Sentiva un nodo stringerle la gola al pensiero di doversi allontanare da lui per avventurarsi in quella che, a tutti gli effetti, aveva l’aria di un’impresa suicida, ma non poteva cedere; era anche e soprattutto per quei grandi ed eternamente curiosi occhi azzurri che aveva deciso di lottare e non arrendersi, affinché essi potessero guardarsi attorno e vivere quel mondo senza averne mai paura. «Ti amiamo infinitamente.»   
  
 


If there is a light you can always see
And there is a world we can always be
If there is a kiss I stole from your mouth
And there is a light, don’t let it go out

 
1: Margaret, in effetti, ha un precedente non molto felice con i Fondenti Febbricitanti. Trovate l’episodio nella OS Tutta colpa di quei maledettissimi Fondenti Febbricitanti (e il titolo già parla da sé). Una piccola connessione con il passato che non ho potuto fare a meno di inserire.


- Angolo dell’autrice

Ed eccoci qui, miei carissimi (nella speranza che qualcuno abbia avuto il coraggio di arrivare fino alla fine di questa... di questa cosa)! 
Miracolosamente puntuale, vi porto il nuovissimo capitolo. La mia intenzione sarebbe stata pubblicarlo domani o dopodomani, ma tra valigie da preparare e ultime cose da mettere a posto non avrei avuto tempo. Volevo comunque lasciarvi qualcosa prima di partire, e dunque ecco a voi questo aggiornamento di ben tredici pagine – e ho anche tagliato delle scene, giusto per farvelo sapere. Non ho il dono della sintesi, a quanto pare (e ne riparleremo dopo). :D
Voglio fare una premessa: ci sono molte cose di questo capitolo che non mi convincono del tutto. Perché l’ho pubblicato, allora? Perché, nonostante abbia provato a rivedere delle parti, addirittura a riscriverle da capo, a sbattermi la testa contro la tastiera pregando per un’illuminazione, non sono riuscita a fare di meglio, e dubito che le cose sarebbero cambiate se avessi lasciato passare qualche tempo. Sta di fatto che la prima parte e la terza, ad eccezione di qualche elemento, mi fanno mettere le mani ai capelli e mi fanno domandare: perché è tutto così maledettamente confusionario?

InsideJules: Forse perché stai descrivendo delle scene che, in effetti, di calmo e tranquillo hanno ben poco? Potrebbe essere una cosa voluta, anche se inconsciamente.

Anyway, andiamo per punti.
Ho voluto aprire il capitolo in maniera un po’ diversa dal solito, piazzando questa figura apparentemente sconosciuta che cammina per le vie di Londra, persa nei suoi pensieri. Mi divertiva l’idea di insinuarvi il dubbio e farvi chiedere “chi sarà mai questa tizia?”. Sarei curiosa di sapere se qualcuno di voi ha pensato fin da subito che potesse trattarsi della nostra Abigail, o comunque quali sono state le vostre ipotesi. ;)
Poi, abbiamo ritrovato il piccolo Richard (
♥_♥), Desmond e Gloria, quel gran figo il cugino Dorian e abbiamo fatto la conoscenza di Lancelot – o Lance, chiamatelo come ve pare –, che – devo necessariamente dirlo – immagino come il classico ragazzino un po’... be’, non so definirlo, per cui riprenderò le parole del testo e lo classificherò come“un esemplare particolarmente stupido di macaco irlandese” (e diciamo che, da quando mio fratello si è deciso a portare a casa i suoi amici, ho avuto modo di osservare i comportamenti di questa strana specie da vicino). Nulla contro i macachi e gli irlandesi, solo l’ho scritto di getto e queste due parole sono state le prime a venirmi in mente – un po’ come quando mio padre mi disse che sono petulante come un cammello giapponese, il che non ha assolutamente senso e forse è per questo che fa ridere.

Ma passiamo al caso psicologico di questo episodio (ditemi che non l’ho detto davvero), facilmente rintracciabile nella crisi di nervi della cara, perfettamente stabile, Margaret.
Era inevitabile che, prima o poi, crollasse anche lei. Sotto assedio da mesi, costretta a rinunciare al suo lavoro per salvarsi la pelle, afflitta dai sensi di colpa causati dall’aver messo in pericolo la sua famiglia (a proposito, la Giselle Edwards di cui parlano Abigail e Dorian è proprio la ragazza di quest’ultimo, dovrei averla menzionata in uno dei capitoli del matrimonio); è esausta, ma chi non lo sarebbe? La guerra è guerra, c’è poco da discutere, e un clima simile rischia di creare astio e conflitti anche tra persone che stanno dalla stessa identica parte, e alimenta tensioni che possono portare a fare o a dire cose che in realtà non si pensano; nel mio piccolo, ho provato a rendere questo aspetto, prendendo una piccola cosa, una semplice discussione, e ingigantendola.
Che poi Fred, oggettivamente, stesse per dire una cazzata (questi maschi!) è innegabile, ma possiamo passarci sopra.
- Con un autocarro?
Meg, per Godric, non ho parole.

E poi c’è Vittoria, che... be’, devo davvero descriverla? Dico solo che aspettavo con ansia il momento in cui l’avrei fatta sbroccare, e tra Fred e Lancelot le ho offerto diversi motivi per dare il meglio di sé. :D

La seconda parte del capitolo è quella forse più introspettiva, ed è quella che preferisco. Ci ho riflettuto molto, e mi sono resa conto che è proprio nei momenti più duri che tendiamo a guardarci dentro con più attenzione e consapevolezza. È esattamente quello che fa Margaret, e qui ci ricolleghiamo al discorso fatto poc’anzi: sta attraversando un periodo di crisi – anche se non vuole ammetterlo né a se stessa, né a chi le sta accanto – e ha bisogno di ritrovarsi, persino a costo di distruggersi e sprofondare in quegli aspetti negativi del suo sé che tanto odia, ma che non può lasciare andare perché costitutivi della sua personalità. Ci passiamo tutti, inutile negarlo, ma il bello sta proprio nell’andare oltre, che è qualcosa di più dell’andare semplicemente avanti.
Lo so, l’Università danneggia gravemente me e chi mi sta attorno. Pensate che casino se alla fine avessi davvero scelto Filosofia. Santo Merlino.

Sulla terza parte, per l’esattezza, non so bene cosa dire, dato che in fin dei conti mi sembra tutto abbastanza lineare.
Mi sembra scontato, comunque, sottolineare che nel prossimo capitolo ritroveremo i Pedersen *ehm-ehm*.

Ed è proprio a proposito del prossimo capitolo che riprendiamo la questione della mia scarsissima capacità di sintesi. Lo dico perché, miei cari, ho già scritto una dozzina di pagine, ma non ho ancora finito; mi sembra assurdo dire che toccheremo la ventina, anche perché sono arrivata a un punto in cui la narrazione dovrebbe velocizzarsi, ma mi conosco troppo bene e quindi mai dire mai. È per questo che vi chiedo: nel caso in cui dovessi superare le quindici/sedici pagine, preferite che pubblichi comunque il capitolo per intero o che lo divida? Tenete conto che i toni delle prime quattro pagine e mezzo saranno molto più leggeri – ci ritroviamo nella Stanza delle Necessità – rispetto ai successivi. Possiamo dire che si passerà senza un minimo preavviso da un’atmosfera a un’altra, quindi il cambiamento a un primo impatto potrebbe risultare un po’ “stonato”, ma l’intenzione è esattamente questa. Dobbiamo comunque considerare che buona parte del capitolo sarà, passatemi il termine, “Meg-centrico”, con tutte le introspezioni del caso – e flashback a mai finire –, quindi non si può certo dire che abbia deciso di puntare sulla leggerezza. Per dire, ci sono piccole parti che mi hanno richiesto più di un’ora di “lavoro” e di riflessione affinché risultassero esattamente come le volevo, e che in altre occasioni avrei buttato giù in dieci minuti scarsi.
Quindi, a voi la scelta:

1 – Pubblico il capitolo per intero;
2 – Lo pubblico in due volte, dividendo le prime quattro/cinque pagine dalla parte successiva, più “intensa”;
3 – Lo pubblico in due volte, dividendolo a metà;
4 – Mi do all’ippica.

E finalmente scopriremo quale sorte toccherà a quel poveraccio di Fred (e non solo a lui, sia chiaro). Questa è l’ultima occasione che avete per recapitarmi le vostre minacce via posta, e-mail, sms, Whatsapp, Twitter, Instagram, Facebook, chiamate nel cuore della notte, appostamenti sotto casa e soprattutto recensioni. Sfruttatela bene. 
♥ 

Adesso che ho terminato di scrivere idiozie, possiamo passare ai credits: il titolo è di Roberto Gervaso, mentre la canzone è Song for Someone, degli U2.

Ringrazio:

Angel_MaryAnnA Black, aurora weasleyAzar, Beatris Humble, bridilepo, brunettes, Catebaggins, Daniela_97, Deader, Delta_Mi, Emmy29, eott56, EzraScarlet, Fanny_Weasley, FedeSerecanie, Fenicestrega31367, FranChan, hufflerin, huntingwithwolves, JeckyCobainjuly95, KariWhite, Krista Kane, ladywLuna Paciock, maryanne armstrong, Meissa AntaresMichela_WonSikOrma_, pintoisreal, Quella che ama i BeatlesSabry_Ace_Will_Never_Die, Secretly_SSoleil Jonestenna96, TheDarkAngelvalepassion95, Vivi_AB, WikiJoe, Zvyagintsevaely, _LenadAvena_, _Sherry_, __Lunatica , che seguono la storia;

And RiddleCalypso_EmmaDiggory15,  feathersx, FedeSerecanie, Fenicestrega31367, JeckyCobain, Jilliana, lililisa_jb69, lolcioppiLollie, Martillaaa, MaryWeasley,  max85, Meissa AntaresMoon95orange_weasley, soxsmile, Spark_, sweet years_giuly_, Trillian_97, Vivi_AB, Welcome to the darkside, Zarael,  _Lola_Uzumaki_, che hanno inserito la storia tra le preferite;

Azazel_Frederique Blackhuntingwithwolves, IpseDixit, Leeyum_isMyBatman, Luna Paciock, maryanne armstrongmax85, Orma_, che l’hanno inserita tra le ricordate;

Meissa Antares, che ha recensito il capitolo precedente. 


E devo ringraziare anche Trash Italiano per buona parte delle gif che inserisco, prima o poi cadrò giù dalla sedia.

Non so dirvi con precisione quando pubblicherò il prossimo capitolo: devo ancora ultimarlo, e se ciò non fosse bastato tra poco ricominceranno le lezioni all’Uni e sarà tutto un gran casino. Comunque sia, se pubblicherò in due parti, la prima dovrebbe arrivare tra un mesetto e la seconda entro la prima o la seconda settimana di novembre. Se a fine ottobre dovessi ancora risultare dispersa, aspettatevi la pubblicazione in unica soluzione (manco stessi andando a pagare le tasse) sempre entro la seconda settimana di novembre.  

InsideJules: Non si è capito una mazza, sappilo.

Per qualsiasi critica, parere sul capitolo, suggerimento, dubbio, curiosità e via discorrendo, sapete come contattarmi.
Non mi resta che salutarvi e mandarvi un abbraccio fortissimo. 
♥ 

A presto, 
Jules ♥ 

- Dal prossimo capitolo:

1.

«Miei dolci amori, credo sia arrivato il momento di chiudere quelle bocche spalancate e di ricomporvi. Neanche il cane dei miei genitori sbava in maniera tanto indecorosa!» le stuzzicò Dorian, scrutandole con un sorriso allegro e canzonatorio a incurvargli le labbra.
Meg arrossì di nuovo – solo più violentemente di prima – e gli lanciò un’occhiataccia di sbieco. «I tuoi genitori non hanno un cane.»
Il ragazzo scrollò le spalle con noncuranza e le arruffò i capelli. «Dettagli irrilevanti, il concetto non cambia» disse pigramente, per poi voltarsi a guardare Abigail con una strana espressione complice. «Credo ti interesserà sapere che ho appena intravisto la cara Virginia Anderson.»
«Dorian!» sbottò Margaret, colpendolo al braccio con uno schiaffone. «Per l’amor di Merlino, ti sembra il caso?» lo rimproverò, occhi sbarrati e voce in un sussurro isterico, quasi non riuscendo a credere che l’avesse fatto per davvero.

2.

Nonostante questa terribile consapevolezza, decise di uscire allo scoperto e di continuare a lottare: l’alternativa sarebbe stata lasciare che fosse proprio il nemico a trovarla, e lei non poteva permettere che ciò accadesse; l’orgoglio era ciò che di più pressante aveva sempre avuto, e l’orgoglio era ciò che avrebbe difeso fino al suo ultimo respiro.
Le gambe si mossero da sole, inconsapevoli, dopo che la schiena fu riuscita a scollarsi dalla parete e da quel senso di protezione che da essa, in minima parte, era riuscita a trarre; abbandonò quel porto che sicuro sarebbe rimasto ancora per molto poco e manifestò la sua presenza a quella minacciosa figura maschile incappucciata e stagliata in fondo al corridoio.
Questa la squadrò da capo a piedi e scosse la testa con disappunto. «Troppi Purosangue che non sanno da che parte devono stare.»
Meg soffiò via una ciocca di capelli cadutale sul viso e guardò il suo avversario con fare sprezzante. «Io sto esattamente dalla parte per la quale vale la pena di lottare.»
 
   
 
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