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Autore: Ciarun    27/09/2015    0 recensioni
1492, Colombo salpa alla ricerca di una nuova via per l'oriente, ma non trova le Indie... e nemmeno l'America. Storia dove il fantasy e lo storico si mescolano. (Chiedo scusa per la qualità dei miei disegni fatti a mano, ma non sapevo in quale altro modo fare)
Genere: Avventura, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(“Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare”Moby Dick, di Herman Melville)
Quinta pars:  de regum Nelniae
Lo stato dell’isola di Nelnash è, tecnicamente, un regno. Scrivo tecnicamente per una ragione precisa: il loro re è in pratica impotente all’interno del suo stato. Secondo i dati raccolti, un tempo non era così, il sovrano aveva pieni poteri, come Dio ha sempre voluto che fosse, per quanto questi infedeli non abbiano la concezione del Santo Padre. Poi però, i mercanti e i ricchi dell’isola, usando la forza del vil denaro, pretesero una sempre maggiore influenza nel governo, ridimensionando i poteri regali. Quando una regina decise di opporsi  (tra le altre cose gli indios hanno la cattiva abitudine di far governare anche le donne, come gli inglesi), le cose degenerarono. Venne allestita un’assemblea segreta che dichiarò decaduta la regina e che incoronò al suo posto sua sorella come legittima sovrana. Si scatenò una guerra, ricordata come la guerra delle due regine, che si concluse con la vittoria dei ribelli. Da quel giorno la monarchia divenne elettiva, come nell’Impero Germanico,  ed ebbe soltanto il compito di guidare l’esercito e di occuparsi della politica estera. La politica interna invece è controllata da un concilio composto dai maggiori esponenti del paese e che, oltre ad eleggere il re o la regina, è anche in grado di deporlo se quest’ultimo viene considerato inadeguato…
  (Brani tratti dal De Columbia, dell’eminente Bartolomé de las Casas, A.D 1521)
 
Quando Francesco vide per la prima Atisabvoc si rese conto che non avrebbe mai capito chi era se non fosse stato per i suoi abiti. L’uomo ricopriva il prestigioso titolo di Fapogu che, come gli avevano spiegato, era traducibile come Gran Messaggero ed era la carica religiosa più importante di Nelnash; una sorta di papa locale insomma. Il fatto però che la persona in questione fosse quasi scheletrica e molto, molto vecchia, la rendeva più simile ad un poveraccio morto di fame che ad un papa. Gli abiti invece erano semplici ma molto eleganti, neri, con una grossa stella ricamata sul farsetto e adornati da un ampio mantello blu notte, chiuso sulla gola da una spilla d’oro circolare, per  una metà modellata a forma di sole e per l’altra a forma di luna.
“Benvenuto nobile messaggero,” gracchiò incespicando su un grosso bastone da passaggio, “è un piacere incontrarvi. Sono sicuro che l’incontro tra le nostre culture e religioni sarà proficuo per entrambi.”
Spieltilil, un ragazzino indio che gli era stato offerto come interprete, cominciò subito a tradurre per suo beneficio.
“E’ un grande onore anche per me reverendo Fapogu e per il Santo Padre che io rappresento. Spero che il nostro rapporto sia fruttuoso come voi dite.” Dopo quelle parole notò uno scintillio di offesa negli occhi del vecchio, “A proposito, mi rincresce molto che il vostro… come lo chiamate? Ah si, papa, non sia potuto venire. Immagino abbia degli affari della massima importanza da sbrigare.” Francesco era arrivato solo da poco nel Nuovo Mondo ma aveva imparato fin da subito a familiarizzare con la boria dei locali. Evidentemente Atisabvoc non doveva aver apprezzato che quello che considerava un suo parigrado avesse preferito mandare un messo piuttosto che venire di persona. “E’ proprio così,” si affrettò a dire, “purtroppo Sua Santità ha impegni improrogabili nella nostra terra a oriente. C’è una grave guerra nel continente.” L’ultima cosa che voleva era ferire l’orgoglio del vecchio e alla fine quella non era nemmeno una bugia; dopotutto le mosse francesi in Italia impensierivano sul serio la Santa Sede. Tutti a Roma speravano in una vittoria dell’imperatore Carlo. In ogni caso Atisabvoc non sembrò essersi offeso e cominciò subito ad interrogarlo con sincero interesse sugli usi cattolici; a dire il vero prese proprio a tartassarlo di domande. Nonostante l’età gli occhi del Fapogu sembravano brillare quando sentiva qualcosa di nuovo che stimolasse la sua curiosità intellettuale. Questo sembrava confermare quanto aveva saputo riguardo alla religione locale.
Gli avevano detto che a Nelnash non esisteva un ordine o un clero vero e proprio, l’unica cosa che gli si avvicinava erano le cosiddette Cinquecento Voci. Queste erano le persone più colte e istruite del paese, che ottenevano il titolo di Voce degli Dèi dopo anni di lungo studio e si occupavano di astronomia, di teologia e delle erbe magiche. Con sua grande sorpresa aveva scoperto che non facevano proselitismo come dei preti. Infatti un’infarinatura religiosa veniva data insieme alla cultura di base nelle scuole per chi se lo poteva permettere. Al resto del popolo bastava conoscere il mito, come in Europa ai tempi dei pagani. Però anche loro avevano una sorta di elezione papale, in cui i Cinquecento eleggevano il più saggio e colto, spesso anche il più vecchio, di loro come Gran Messaggero. Francesco credeva che, come a Roma, altri fattori influissero sulla scelta, per esempio i soldi o la condizione sociale,  ma non poteva esserne sicuro. Dopotutto le Cinquecento Voci e il Fapogu non avevano stipendi o privilegi particolari, almeno sulla carta, ma non ne avevano bisogno di solito. Infatti solo i nobili e i più ricchi potevano permettersi di pagare i lunghi e costosi corsi che permettevano di accedere alla carica.
Mentre questi pensieri affollavano la sua mente e le domande di Atisabvoc continuavano a grandinare, la carrozza che li trasportava imboccò un’ampia strada. Da lì, risalendo la collina, sarebbero arrivati a destinazione. Intorno al percorso le case si pressavano come una piccola folla e non era raro che qualche carro o persona attraversasse all’improvviso la strada. Ad un certo punto, addirittura,  dei bambini mezzi nudi si piazzarono davanti alla carrozza ridendo, tra le bestemmie del cocchiere e i nitriti dell’animale. Francesco capiva la loro curiosità; il cavallo era una novità da quelle parti e veniva chiamato: “ippogrifo a metà”. L’animale era tutt’ora una delle merci più richieste dai ricchi nelnashiani e ciò faceva la gioia dei mercanti europei, nonostante la richiesta stesse calando da quando branchi di cavalli selvaggi avevano cominciato a diffondersi nel continente. Mentre il cocchiere cercava di allontanare i monelli il Fapogu si interruppe per squadrarlo con sospetto. “Non mi sembrate molto interessato, vi sto forse annoiando?” Francesco corse subito ai ripari, “No, ma cosa avete capito! Quei bambini mi hanno distratto ma ora sono tutto orecchie. Che mi stavate dicendo?” Il Gran Messaggero non sembrò molto convinto ma decise di concedergli il beneficio del dubbio, “Vi stavo dicendo che mi sembrava piuttosto strana la vostra convinzione che questo Gesù sia risorto. Andiamo, va contro tutto le leggi della natura.” Il frate si indignò, “Trovo offensiva la vostra domanda. Le opere di Nostro Signore sono ampiamente documentate da affidabilissime prove scritte e la vostra infedeltà non vi da il diritto di offendere la sua sacra parola. E poi non è forse nella natura divina il potere di interferire con leggi che, a noi poveri mortali, sembrano inviolabili? I vostri dèi sono forse da meno?” Francesco fu abbastanza lucido da pentirsi di quelle parole appena gli uscirono dalla bocca. Non era certo stato diplomatico e non poteva che aspettarsi una risposta dello stesso tono. Invece Atisabvoc sfoderò un sorriso sornione, “I nostri dèi giovanotto avevano poteri immensi, inimmaginabili, capaci addirittura di modificare la forma della natura, ma non certo di andare contro le leggi più basilari dell’esistenza. Non avranno avuto il potere di sconfiggere la morte ma in compenso ci hanno lasciato prove tangibili della loro venuta. Prove che sono sotto i vostri stessi occhi.” A quel punto l’indignazione in Francesco lasciò il posto alla curiosità, “Di cosa state parlando?” Che si riferisse a delle reliquie? Se fosse stato così non sarebbe stata poi una gran prova, ma aveva la sensazione che non fosse di quello che voleva parlare. “ Sto parlando della nostra stessa cultura e delle particolarità della nostra terra, ma forse per spiegarvi meglio è necessario raccontarle tutta la storia dall’inizio.” E così l’anziano sacerdote cominciò a narrare la sua storia, “Vedete una volta questi luoghi erano disabitati e le belve e le foreste ne facevano da padroni. Poi, agli albori del tempo, dall’estremo nord-ovest giunsero dalle loro terre gelate gli Uomini dei Ghiacci, che scendendo colonizzarono tutto il mondo. O almeno quello che consideravamo tutto il mondo prima che arrivaste voi. Comunque sia gli Uomini dei Ghiacci erano primitivi, non conoscevano ne la scrittura, ne la coltivazione del suolo, vivevano di caccia e nelle barbarie più assolute. Poi un giorno,  giunsero gli dèi dalla loro casa oltre le stelle. Secondo la tradizione approdarono qui, nella stessa Nelnash. In ogni caso con i loro immensi poteri modificarono il modo di vivere dei nostri antenati. Gli insegnarono l’arte dello scrivere, l’agricoltura, la metallurgia, la storia della loro origine e molto altro. Non si limitarono però a questo ma crearono, forse per gioco o per curiosità, nuove creature, come i grifoni, i draghi e gli ippogrifi e donarono all’umanità la nobile pianta egudoit.” L’uomo si fermò un attimo ad osservare la reazione del giovane, che era effettivamente molto preso dal racconto. Aveva sentito parlare dell’egudoit, la pianta che permetteva ad un uomo di compiere magie e stregonerie diaboliche, il cui segreto era gelosamente custodito. A pensarci bene quella storia dava una spiegazione sul perché quell’erba, come pure gli altri strani di esseri, fossero presenti solo lì e non nel resto del mondo. “Continuate.”, lo esortò e quello riprese. “Cosa stavo dicendo? Ah si, come dicevo ad un certo punto gli dèi se ne tornarono in cielo, facendosi promettere dagli uomini che avrebbero vissuto e prosperato, secondo i loro insegnanti. Il loro unico compito sarebbe stato custodire la terra fino al loro ritorno. E così questi fecero per innumerevoli anni; col tempo però, nel corso dei secoli, l’umanità si dimentico in gran parte degli dèi e dalla loro promessa. Solo poche comunità ne conservarono il ricordo. Poi un giorno giunsero dal nord delle tribù barbare, i Kunaki, che, uccidendo e sterminando, si insediarono nelle terre dei fiumi e nella stessa Nelnash. Così nel continente si smise del tutto di venerare le divinità. Qui però non andò così; gli invasori riconobbero la verità e abbandonando le loro false credenze accettarono i  nostri culti e si mescolarono con gli antichi creando la nostra grande civiltà. Ora avete capito cosa intendo quando dico che ci hanno lasciato segni tangibili.” Francesco annuì titubante, “Beh certo è un bel mito ma questo non lo rende per forza vero.” Atisabvoc fece per rispondere, ma la voce del cocchiere lo interruppe. Erano arrivati. Francesco si affacciò dalla carrozza e fissò stupito l’edificio che si stagliava poco oltre, nel mezzo di un’ampia piazza circolare.
Il tempio in pietra scura si ergeva sul cucuzzolo della collina, poggiando su una base quadrata ai cui lati si innalzavano torrette slanciate. Al centro invece si ergeva una struttura cilindrica, sormontata da un tetto conico che sembrava toccare il cielo. Sul davanti era stata scolpita in oro una grossa stella iscritta in un cerchio, circondata da scene mitologiche. A colpo d’occhio poteva ricordare lontanamente Hagia Sophia come forma, ma solo a primo acchito. Le forme aggraziate e i complicati intarsi, per non parlare della mole, ricordavano subito l’origine straniera.
L’anziano sacerdote sorrise amabilmente di fronte alla sua espressione, “Bello vero? Sapete il Nuovo Tempio è l’edificio più grande di tutta la nostra nazione e fu edificata dal re Zelshegherbisa più di un secolo fa…” Continuò a parlare ma Francesco, troppo rapito da quella bellezza, non lo stava più ascoltando.
 
Leonor si era abituata velocemente alla sua nuova vita, anche se la situazione non era poi così rosea come aveva sperato.
Abitava al secondo piano della torre, in una bella stanzetta per gli ospiti, insieme a Magda. Quella parte dell’edificio era pressoché disabitata perché, oltre al loro appartamento, c’erano solo la biblioteca e la sala dell’astronomia. Questo gli dava massima libertà. I padroni di casa, invece, vivevano al primo piano e i servi nei due piani rimasti sotto al loro.
 Una volta aveva chiesto a Nashnisa perché tutti i nobili si fossero trasferiti sull’isola per sfuggire alle ire del popolo, se poi mantenevano tutti quei servitori nella loro stessa casa. La donna aveva risposto con uno sbuffo, “Noi abbiamo paura delle rivolte del popolino. Quella è gente perfida e incapace, che non ha ricevuto dagli dèi la capacità di sollevarsi dalla terra che lavora ed è in grado solo di usare la violenza. I servi che lavorano nelle nostre case sono istruiti ed efficienti, la cui famiglia spesso ha servito la nobiltà per generazioni, non sono certo come dei contadini zotici. Inoltre guadagnano uno stipendio, oltre al vitto e all’alloggio, non avrebbero motivo di ribellarsi.” Aveva risposto con aria saccente, allora come al solito, ma anche stavolta Leonor riuscì a controllarsi. In effetti il comportamento indisponente di Nashnisa era uno dei  lati peggiori del suo trasferimento, però aveva imparato a passarci sopra e ad ignorarla il più delle volte.
Ma non era solo questo. La verità era che la nobildonna si era buttata a capofitto in quel trasferimento senza pensare alle conseguenze, sperando di trovare lì la felicità che le era sempre mancata a casa. Adesso stava però provando il disagio di essere praticamente sola in un luogo per lo più sconosciuto, dove gli europei venivano guardati con estrema diffidenza e costretta ad abitare con un’acida padrona di casa.
  Ma se per lei era dura per Magda era peggio. Non apprezzava la cultura del posto e si lamentava spesso di non avere nemmeno una piccola chiesa dove pregare alla domenica. Non che a Leonor importasse molto delle sue lamentele. Poi le sembrava strano che la serva sentisse il dovere di comportarsi da brava cristiana nonostante quello che le faceva fare ogni notte. Forse una confessione bastava a liberarsi dei peccati carnali, chi lo sapeva. In ogni caso in tutto questo c’era un lato positivo: l’esplorazione della città.
 Zalid sembrava infinita, si estendeva in centinaia di vicoli stretti l’uno all’altro, in cui case basse erano intervallate da torri affusolate e monumenti complicati. La nobildonna non si stancava mai di gironzolare per i suoi quartieri, cosa che in Spagna non aveva mai potuto fare e Nashnisa gli aveva anche fornito due servette che l’accompagnassero e la guidassero. Le due erano giovani, silenziose ma anche istruite, infatti la aiutarono anche ad imparare il nelnashiano. Leonor si dimostrò una brava allieva e in poco tempo riuscì a parlarlo quel tanto che bastava per intrattenere una semplice conversazione.
Quel giorno comunque, vista la pioggia, decise di non uscire e, non avendo niente di meglio da fare, cercò di fare un po’ di conversazione con la padrona di casa. La trovò nell’ampio salotto al primo piano, china su dei fogli di carta, la quale era un’altra merce europea molto richiesta nel Nuovo Mondo. Discretamente cercò di buttarci un occhio sopra per vedere che cosa fossero di preciso, ma si rese presto conto di non conoscere minimamente quei simboli, così decise di chiederglielo direttamente. “Sono numeri,” rispose senza neanche alzare gli occhi dalle carte, “sto sbrigando alcuni affari.” “Affari?” esclamò Leonor stupita, “Non dovrebbe pensarci tuo marito?” Nashnisa la guardò con disapprovazione, “E perché dovrebbe? Se gli stessi dèi quando vennero qui trattarono allo stesso l’uomo e la donna, non vedo perché gli uomini dovrebbero fare diversamente. Ma d’altronde cosa mi aspetto? Vieni da una cultura barbara.” La spagnola sentì l’irritazione montare. Per quanto fosse colpita e apprezzasse la libertà concessa alle donne a Nelnash  cominciava a stancarsi dell’aria di superiorità della donna. “ Verrò anche da una cultura barbara, ma dalle mie parti i nobili non hanno bisogno di lavorare. Solo i poveracci che non se lo possano permettere sono costretti a sporcarsi le mani. Io stessa non ho mai lavorato in vita mia.” Leonor lo aveva detto in senso positivo, d’altronde tutta la nobiltà spagnola aveva questa convinzione, ma Nashnisa non sembrava della stessa idea. “E te ne compiaci?”, commentò sprezzante, “Non so come la pensate dalle vostre parti, ma qui essere dei parassiti non è un vanto. A Nelnash tutti lavorano e si danno da fare per contribuire alla società e per migliorare la propria condizione. Si può essere orgogliosi solo di ciò che si è guadagnato con le proprie forze, non per ciò che si è ereditato. Il fatto che tu la pensi diversamente dimostra ancor di più il tuo essere barbara.” Con quella risposta la pazienza di Leonor si esaurì. Pensava di poter sopportare quell’irritante matrona, ma si sbagliava. “La tua risposta invece dimostra ancor di più la tua maleducazione. Perché devi essere sempre così scortese nei miei confronti?” “Signore, vi prego calmatevi. Non mi sembra che sia il caso di litigare per così poco.”, solo l’arrivo di Ebacbad, il marito di Nasnisa, le impedì di dirle cose peggiori.
Ebacbad era un uomo basso, piuttosto grassottello, dalla faccia paffuta e dal sorriso amabile. Vestiva sempre elegantemente e non stava mai fermo, sia nel lavoro che nella vita quotidiana. A causa dei suo impegni Leonor lo vedeva raramente, ma quando si incontravano l’uomo si dimostrava gentile e premuroso nei suoi confronti, al contrario della moglie. Si chiedeva spesso cosa l’avesse spinto a sposarla.
“Non è colpa mia,” si schermì Nashnisa, “la tua amica, incurante dell’ospitalità che generosamente gli offriamo, si permette lo stesso di mettere becco nei nostri affari.” “Ma di quale generosità stai parlando?” proruppe furiosa Leonor, “io pago profumatamente per abitare qui e in più vengo trattata come una fastidiosa straniera indesiderata!” “Su, su non diciamo cose di cui ci potremmo pentire.”, si intromise Ebacbad prima che la situazione degenerasse, “Cara Leonor,  perché non mi accompagni a fare un giretto nel giardino? Così avrai tempo per calmarti e mi farai compagnia prima che io torni al lavoro.” La spagnola gli sorrise, grata del diversivo che le veniva offerto, “ Accetto molto volentieri.”, e si avviò all’uscita prendendolo a braccetto. “Fai come ti pare Ebacbad,” sbuffò Nasnisa contrariata, “ basta che me la porti lontano.” Leonor fece per rispondere, ma il suo accompagnatore si affrettò a trascinarla via prima che potesse farlo.
Il giardino nei dintorni della torre era incantevole; una nutrita schiera di giardinieri provvedeva a curarsene quotidianamente ed era un piacere passeggiare tra le file di cespugli perfettamente regolari, circondati dal profumo dei fiori. I minuti trascorsero piacevolmente chiacchierando; Leonor gli raccontò della sua vita passata in Spagna ed Ebacbad gli parlò del suo lavoro al porto.
L’uomo infatti era un mercante, in particolare commerciava l’oro grezzo, estratto nelle miniere sul continente e rivenduto a prezzi esorbitanti agli orefici dell’isola. Questo, considerato anche che Nashnisa era un’importante proprietaria terriera, rendeva la loro famiglia una delle più ricche della città.
Ebacbad si stava appunto lamentando di dover incontrare un cliente difficile quel giorno, quando un fiore attirò l’attenzione di Leonor. “Che colori! Non è avevo mai visto uno così.”, constatò ammirata, “Non sarà mica quella famosa pianta chiamata egudoit?” L’uomo ridacchiò facendo segno di no, “Magari lo fosse! Costa una fortuna, ma sole le Cinquecento Voci o l’ordine dei maghi, come lo chiamate voi europei, hanno il permesso di coltivarla.” “Ma è vero che ottenebra la mente?”, chiese ancora, piena di curiosità. “Oh si, se fumata o bollita provoca forti allucinazioni e annebbia i pensieri, questo solo se non si sa controllarla. Chi ha ricevuto un adeguato addestramento riesce ad entrare in contatto con gli spiriti magici e ad usarli a proprio vantaggio.” “Beh deve essere un’esperienza interessante da provare, in tutti e due i casi.”, commentò la donna e l’altro ridacchiò, poi si fermò un attimo a fissarla e sorrise. “Anche stare con te è un’esperienza interessante.” Leonor si stupì di quell’affermazione; possibile che il buon padrone di casa fosse attratto da lei?  Decise di non farci caso e di cambiare subito argomento. “Senti, volevo chiederti scusa per oggi. Per me è un onore essere ospite nella vostra bellissima casa e nella vostra bellissima terra, ma purtroppo mi arrabbio facilmente ed è difficile per me relazionarmi con Nashnisa. E’ sicuramente una donna piena di risorse ma è, come dire… un po’ difficile da trattare.” Ebacbad rise di nuovo, “Non ti devi scusare, so bene com’è mia moglie. Nonostante tutti questi anni di matrimonio ci sono volte in cui fatico anch’io a sopportarla. Da quando poi i nostri figli se ne sono andati per la loro strada è stato ancora più difficile.” Tacque per un attimo e la fisso di nuovo con sguardo pensoso. “Sai, io avrei bisogno di una donna paziente e affettuosa, che sappia farmi ridere, una donna come te…” detto ciò, dopo averla attirata a sé con un abbraccio, tentò di baciarla. “Dio mio, non può essere vero!”, pensò esterrefatta mentre girava il volto per evitare le labbra del mercante. La delusione si dipinse sul volto di Ebacbad quando la sentì sgattaiolare via dalla sua stretta e cercò subito di scusarsi. “Mi dispiace, io ho esagerato, ma credevo…credevo.” “Devo andare, scusami.”, riuscì solo a dire prima di allontanarsi a passo svelto. Non voleva umiliare ancor di più il suo ospite ma l’imbarazzo e la delusione erano diventati troppo grandi. Alla fine anche quell’uomo, così buono all’apparenza, si era dimostrato uguale a tutti gli altri che aveva incontrato. Cambiava il continente ma la sostanza rimaneva la stessa. Lui comunque non cercò di trattenerla e si limitò a fissarla sconsolato.
Arrivata a casa si affrettò a chiamare Magda e le due servette nelnashiane. “Preparatevi, voglio fare un giro nei bassifondi.”, le informò.
Con bassifondi intendeva la parte bassa di zalid. Infatti la città vecchia, estesa  fino alla cerchia delle ampie mura, era molto ben costruita e vivibile, essendo stata edificata per prima e secondo un progetto preciso. Oltre, fino alla base della collina, si estendevano i quartieri popolari, ampie distese di basse case di legno o di mattoni, cresciute disordinatamente come funghi, dove le fognature spesso neanche arrivavano. Leonor li aveva visitati già altre volte, per curiosità, mescolandosi al popolino, cosa che per lei era abbastanza facile grazie alla sua pelle scura; bastava coprirsi bene il volto. Ora però lo faceva solo per il bisogno di allontanarsi il più possibile dai suoi padroni di casa. “Signora, è davvero necessario?”, implorò Magda. Era terrorizzata all’idea che quei poveracci le potessero fare del male, oltre che disgustata dall’idea di doversi muovere per miglia a piedi e di doversi vestire di stracci. “Lo è.”, disse in un tono che non ammetteva repliche. Le serve si affrettarono ad ubbidire.
 
Cortés guardò sconsolato il fondo del suo bicchiere di pacholi; il forte liquore, estratto da una pianta locale, era già finito. Gli sarebbe piaciuto molto prenderne un altro, ma preferiva mantenere la mente lucida. Si potevano scoprire notizie interessanti anche in luoghi squallidi come la Vento del Mare, soprattutto se si conosceva il nelnashiano. Aveva approfittato della lunga licenza per visitare e studiare a fondo la città; sapeva bene che gli sarebbe servito in futuro per mettere in atto il suo piano. D’altro canto il tempo cominciava a stringere. Le informazioni ci mettevano molto a giungere da un continente all’altro, soprattutto per colpa della guerra in Europa, ma prima o poi sarebbero arrivate. Era quasi sicuro che ci sarebbe stato un ordine di rimpatrio immediato per tutti i soldati ed esploratori spagnoli e questo Cortés non se lo poteva permettere. Non poteva permettersi però neanche di agire con leggerezza. Ogni errore poteva essergli fatale ed era difficile per lui metterlo in testa ai suoi complici, soprattutto ai più irrequieti come Marcos.
 “Hernan,” continuava a ripetergli, “non possiamo più aspettare. Potrebbero richiamarci in Spagna da un momento all’altro.”, e lui doveva esortarlo a mantenere la calma. Ma aveva faticato soprattutto nel trattare con Jorge, che continuava ad essere sospettoso.
“Sentimi bene damerino,”gli aveva detto un giorno a muso duro, “ci ho pensato a lungo e mi è venuto da riflettere. Non è che tutta questa decisione di uccidere Velasquèz servirà solo per farti eleggere comandante dalla flotta?” Cortés aveva imprecato tra sé; era facile ingannare gli altri, ma Jorge aveva più acume ed esperienza e spesso riusciva ad intuire i suoi piani. “E se anche fosse?”, gli aveva risposto, “Vi ho fatto delle grandi promesse ma per poterle mantenere devo avere più potere di quello che ho adesso.” A quel punto l’altro lo aveva afferrato per il bavero, “Sentiamo, perché dovrei mettere in pericolo le mie chiappe per assicurarti un posto comodo e ben pagato? Ti sembro forse una puttana? Perché mi sembra che tu abbia l’intenzione di fottermi.” Cortés si era liberato dalla sua presa, “ Non capisco perché te la prendi tanto. Per fare quello che abbiamo in mente abbiamo bisogno di qualcuno al posto di comando e l’unico che ha le credenziali per arrivarci sono io. Poi te l’ho già detto, mi metto in gioco io quanto voi e vedrai che una volta che sarò comandante potrò ricompensarvi come meritate.” Alla fine Jorge, pur continuando ad offenderlo, si era lasciato convincere.
Cortés sospirò. Faticava sempre di più a mantenerlo calmo e temeva che quel bastardo sospettoso potesse mandare a monte tutto. Per consolarsi decise di mettere da parte gli indugi e di ordinare un altro boccale di pacholi.  Chiese allora ad una graziosa ragazza e, per buona misura, le assestò una calorosa pacca sul sedere, ma quella gli schiaffeggiò subito la mano. “Non sono una cameriera!”, esclamò allontanandosi indignata. Hernan sospirò di nuovo. Per quanto trovasse eccitante ed interessante la libertà concessa alle donne in quella terra non riusciva ad abituarsi del tutto. Concepiva ancora a fatica che una ragazza potesse frequentare un locale di quel genere come cliente e non come inserviente. Per evitare ulteriori equivoci andò a fare l’ordinazione direttamente al bancone. Stava proprio per bere il liquore quando sentì un suono familiare che lo stupì: era spagnolo, ma pronunciato da una voce femminile.
Quattro donne erano entrate nel locale; due di esse erano chiaramente indie, le altre due invece dovevano essere delle sue compaesane anche se cercavano di nasconderlo con cappucci e abiti di foggia locale. Era stata la più alta del gruppo, probabilmente la padrona, a parlare prima. Aveva sibilato un aspro rimprovero all’altra spagnola nella loro lingua nativa, poi però si era resa conto del proprio errore e aveva ripreso a parlare in nelnashiano, guardandosi intorno spaventata.
“Señorita!”, la richiamò usando il castigliano, “Si dico a voi, non fate finta di non sentirmi, so che capite quello che dico.” La donna lo fissò stupita, ma rimase indecisa se avvicinarsi o meno sotto gli sguardi minacciosi degli indios. Sembrava carina sotto le pieghe del cappuccio “Non temete,” la esortò ancora, “sono un soldato. Questi selvaggi non vi toccheranno finché ci sarò io a proteggervi. Su, avvicinatevi, non mordo mica.” Così, seppur ancora timorosa, la ragazza si sedette vicino a lui e lo stesso fecero le servitrici, mantenendosi però in disparte. “Che sorpresa!” esordì lui quando si fu accomodata, “E’ sempre un piacere incontrare un altro spagnolo in mezzo a tutti questi musi rossi, ma incontrare una donna spagnola fa ancora più piacere.” A quel punto la dama si abbassò il cappuccio mostrando un viso decisamente piacevole e dai tratti lievemente esotici. Aveva anche la pelle scura tipica degli arabi. “Una  bella donna oltretutto,” aggiunse Cortés sorridendo, “ ma scusatemi, mi sono dimenticato di presentarmi. Io sono il capitano Hernan Cortés; con chi ho il piacere di parlare?” Pur riluttante decise di rispondere alla sua domanda, “Sono la duchessa  Leonor Lòpez Alvarez, da Maiorca.” Hernan, a quelle parole, sobbalzò, “Siete duchessa? E cosa ci fa una nobildonna del vostro calibro in questo postaccio?” Lei fece spallucce, “Qualche volta si ha bisogno di evadere. Una prigione per quanto dorata resta sempre una prigione.” Cortés sentendola ridacchiò, “Ben detto! Raramente si trovano nobili così aperti di mentalità.”, poi, però, lo raggiunse la consapevolezza di chi gli si trovava davanti e il sorriso si spense. “Spero vogliate perdonarmi, Dama, per il modo brusco in cui vi ho chiamata prima. Se avessi saputo chi eravate non mi sarei mai permesso.” Leonor, ora visibilmente più rilassata, lo rassicurò con un gesto, “Non preoccupatevi, non potevate saperlo; e poi quando vengo da questi parti lo faccio proprio per fuggire da tutto, dalle convenzioni, da tutto quell’ambiente in cui vivo. Non mi aspettavo certo delle riverenze quando sono entrata qui.” “Permettetemi almeno di offrirvi qualcosa da bere per farmi perdonare.” Leonor ci pensò su per un po’, ma alla fine annuì, “Va bene, di solito non bevo così presto, ma posso fare un’eccezione.” In quel momento però, una delle servitrici, quella spagnola si accostò alla nobildonna e le sussurrò qualcosa all’orecchio, ma lei la scacciò via. “Non ti impicciare Magda, so decidere da solo qual è la cosa giusta da fare.”
Cortés sorrise sotto i baffi; evidentemente la donna doveva averle detto qualcosa su come non si addicesse al suo rango dare tutta quella confidenza ad uno sconosciuto, tantomeno ad un volgare soldato. Leonor però l’aveva rimessa al suo posto con decisione; stranamente la padrona di casa aveva dimostrato più buonsenso della padrona. Di solito accadeva il contrario.
Sempre sorridendo ordinò altri due pacholi. Cortés guardò la duchessa con grande interesse. Non aveva mai apprezzato i  grandi nobili, erano sempre con la puzza sotto il naso e guardavano tutti dall’alto in basso, ma lei non sembrava così.  Non si era fatta problemi a venire in un posto che, anche un popolano, avrebbe definito poco raccomandabile e nel parlare con lui non ostentava nessun’aria di superiorità. Certo, non riusciva a nascondere del tutto le sue origini, bastava vedere la sua espressione mentre sorseggiava il pesante liquore. Evidentemente doveva essere abituata ad annate pregiate e vini delicati. Anche nel porsi con la sua serva aveva usato modi poco delicati, ma non si poteva pretendere molto da chi era stato abituato fin dalla nascita a dare ordini alla gente. Faceva parte dell’essere potenti e Cortés desiderava molto essere potente. Che soddisfazione, che deliziosa soddisfazione sarebbe stata diventare, lui, un signorotto di provincia nato a Medellìn, la persona più potente del Nuovo mondo e sbatterlo in faccia a quegli arroganti dal sangue blu. Ancor più soddisfacente però, sarebbe stato fare tutto questo con una donna di alto rango al suo fianco. Leonor sarebbe stata perfetta: aperta di mente, decisa e anche molto bella. Non ci aveva mai pensato prima; finora l’appuntamento settimanale con la sua puttana preferita era stato l’unico contatto femminile di cui aveva sentito il bisogno, tuttavia quell’incontro gli aveva aperto magicamente un’altra prospettiva. Guardò ancora quel volto dalla pelle scura, notò la curva abbondante del seno sotto il vestito e sentì qualcosa risvegliarsi nelle brache. Quando poi la voce della donna lo risvegliò dal suo sonno ad occhi aperti si sentì scosso, “Sentite señor Cortés, prima avete detto che siete un soldato. questo vuol forse dire che fate parte degli uomini del comandante Velasquèz? Quelli che hanno fatto scoppiare l’epidemia?” Il sospetto tornò ad oscurare il suo volto e questo irritò il capitano. “Si, Dama, faccio parte dell’esercito di Velasquèz ma non è stata colpa nostra se è successo quel che è successo. Alcuni nostri uomini soffrivano il vaiolo, cosa normalissima e comune in Europa, ma in queste terre non sembravano essere a conoscenza né di questa né delle altre più comuni malattie. Inoltre non sembrano avere né le conoscenze mediche né le capacità fisiche per resistere; così appena uno di loro si ammala muore subito per poi infettarne un altro. Quello muore e diffonde il male ad un altro e poi ad un altro e così via senza che si sappia cosa fare. Noi non c’entriamo nulla in tutto questo.” Leonor continuò a guardarlo, ma senza più la sospettosità di prima, “Sarà come dite ma gli indios non sembrano pensarla allo stesso modo. Quando sono venuta qui non mi aspettavo certo un accoglienza calorosa ma neanche tutta questa diffidenza.” Quella risposta accese una scintilla nella testa dell’uomo, “A proposito, mi è venuto in mente solo ora, sono indiscreto se vi chiedo per quale motivo vi trovate qui? Posso capire un uomo comune in cerca di opportunità ma perché una nobildonna dovrebbe avventurarsi in questa terra lontana? Per caso vostro marito aveva un impegno qui e voi lo avete seguito?” Lei scosse la testa, “Affatto; sono qui per conto mio. Come dicevo prima a volte il bisogno di scappare da tutto è troppo forte. Speravo di poter cominciare una nuova vita qui, ma non è andato tutto rose e fiori. Quanto all’essere sposata, per fortuna non ho ancora un marito che mi dica cosa e come fare.” Gli rivolse poi un primo, timido sorriso, “Sa señor Cortés, mi fa piacere chiacchierare con lei; a forza di parlare quasi solo il nelnashiano mi si stava intrecciando la lingua. A quanto pare neanche io riesco a fare a meno di provare nostalgia di casa.” “Il piacere è tutto mio.”, rispose Cortès facendosi versare un altro bicchiere di pacholi. Quando sentì il liquido rovente scendere a infiammargli lo stomaco la sua mente annebbiata prese a galoppare veloce.
Quella donna gli piaceva sempre di più. Doveva essere molto ricca, visto che poteva permettersi di mantenersi da sola in terra straniera ed era per di più senza marito. Sembrava un dono del cielo. Di regola, pensò con soddisfazione, le giovani  di nobile famiglia non consumavano prima del matrimonio, anche se non si poteva mai sapere. C’erano buone possibilità che fosse ancora vergine. Il pensiero di penetrare quella piccola fessura inviolata lo eccitò a tal punto che l’erezione riprese con vigore ancora maggiore. Perché non farsi avanti allora? Il buon senso gli diceva che lei non l’avrebbe presa bene, dopotutto non sapeva come ci si comportava con donne di quel rango e rischiava di offenderla, ma una strana baldanza sembrava possederlo. Non si era mai fatto intimidire dal sangue blu e non vedeva perché avrebbe dovuto tirarsi indietro ora. Presto o tardi, lo sapeva, avrebbe potuto prendere tutto quello che desiderava, sarebbe finalmente entrato nel novero dei potenti. Allora perché non allungare la mano e prendere anche quella ragazza che lo eccitava così tanto? In fondo le donne erano tutte uguali, lo dicevano sempre anche i preti. Potevano fingersi altezzose e verginee ma dentro di sé volevano divertirsi tanto quanto gli uomini. E lui era disposto ad offrirle quel divertimento, insieme alla ricchezza e al successo.
Così, con un’intraprendenza che se fosse stato più lucido non avrebbe avuto, appoggiò delicatamente la mano sulla coscia di Leonor. “Sentite, questo non è il luogo più adatto per parlare, soprattutto per una signora. Se mi seguirete vi mostrerò un bel posto, dove potremo proseguire il discorso con tranquillità.”, le disse continuando ad accarezzarla con la mano. “Cosa state facendo?”, domandò  lei scandalizzata. “Niente, cara duchessa, speravo solo di poter approfondire la nostra conoscenza.” Leonor per tutta risposta si alzò dalla sedia con espressione disgustata, “Come vi permettete? Mi avete preso per una delle vostre sgualdrine?” Cortés si sentì offeso e cercò di trattenerla afferrandole il polso, “Non mi sembra il caso di fare troppo la schizzinosa,” sibilò infiammato dalla rabbia, “potrebbe venire un giorno in cui dovrete strisciare ai miei piedi e allora vi farà comodo che abbia un buon ricordo di voi.” Aveva decisamente parlato, e bevuto, troppo ma ormai era troppo tardi per rimangiarselo. Leonor strattonando il braccio si liberò dalla sua stretta, “Lasciatemi! Non voglio parlare con voi un attimo di più.” Detto ciò imboccò l’uscita, subito seguita dalle tre servitrici. “Hija de puta!”, le gridò contro quando ormai non poteva più sentirlo.
Che gli era preso? Il liquore doveva avergli annebbiato i pensieri così tanto da fargli credere che quell’altezzosa duchessa fosse diversa da tutta la sua specie. Anche l’apparenza aveva contribuito all’inganno ma lui c’era caduto troppo facilmente. Come aveva potuto pensare di condividere con qualcuno il potere, il futuro frutto dei suoi piani? Tutto quello che avrebbe ottenuto lo avrebbe ottenuto solo per sé, com’era sempre stato nei suoi piani e lo avrebbe dimostrato quella sera stessa. Rabbiosamente buttò giù un’altra sorsata di pacholi.
 
Leonor si fiondò come una furia nell’ intreccio di vicoli sporchi, cercando di sbollire la rabbia. Che umiliazione! Come poteva essere stata così stupida da dar confidenza a quel perfetto sconosciuto? Non fidarsi degli sconosciuti non era forse la prima regola che veniva insegnata ai bambini? “Aspettate signora, non riusciamo a starvi dietro!”, le ansimarono dietro Magda e le altre due, ma lei si limitò a lanciargli un’occhiataccia. “Muovetevi,” replicò spazientita, “Voglio tornare a casa il prima possibile.” In fondo ormai Ebacbad doveva essere tornato al lavoro. “Capisco che siate arrabbiata, ma io vi avevo avvertito di non fidarvi di quel soldato.”, insistette Magda con una nota di rimprovero nella voce, ma questo non fece che infiammare Leonor. “Oh sta zitta! So benissimo di aver sbagliato, non ho bisogno dei tuoi inutili rimproveri per capirlo.” Così zittita la serva non replicò, ma lasciò trasparire un’espressione offesa. Leonor ne fu soddisfatta; se di solito gli riusciva difficile sopportare le ciarle della donna in quel momento gli provocavano un fastidio insopportabile. Ma in ogni caso ultimamente sembrava quasi ci fosse qualcosa o qualcuno che si stava divertendo a farla soffrire. “Quel qualcuno sono gli uomini,” pensò tra sé, “E’ così fin da quando ero piccola.” Già, gli uomini; le avevano rovinato la sua vecchia vita in Spagna e ora sembravano perseguitarla anche lì, pronti a rovinare l’esistenza che stava cercando di ricrearsi. Certo, si era abituata da tempo a quei luridi sguardi pieni di perversione che le lanciavano per strada,; era consapevole di essere attraente, ma ultimamente ne aveva passate troppe. Prima Ebacbad, una persona che apprezzava e di cui si fidava, aveva cercato di baciarla, poi, quando aveva cercato di fuggire da un’altra parte, aveva incontrato un altro uomo deciso a sedurla. Sembrava quasi che il fato o Dio si stessero prendendo gioco di lei. Ammetteva che la colpa era anche sua, si era lasciata troppo andare, ma poteva biasimarsi se aveva ceduto ad un attimo di debolezza? Quel Cortés aveva un’aria affascinante e all’inizio le era sembrato anche gentile e affidabile, tanto da dissipare la sua diffidenza e farle abbassare la guardia. Senza contare che aveva sul serio trovato piacevole parlare con un compaesano che non fosse Magda. Un pessimo errore, ma comprensibile. La verità poi era che cominciava a sentirsi un po’ triste, tutta sola in un luogo lontano e con costumi ed abitudini totalmente diverse dalle sue. Al momento di partire non ci aveva pensato, tanto era presa dall’idea di ricominciare tutto d’accapo, ma poi aveva dovuto fare i conti con la realtà. E così, con questo stato d’animo, non ci aveva pensato due volte ad aprirsi con il  señor Cortés. Gli sembrava ancora di sentire il tocco della sua mano viscida! Quella sensazione gli riportava alla mente brutti ricordi.
Aveva nove anni quando tutto era cominciato. C’era la luna piena, se lo ricordava bene perché la sua luce, filtrando dalla finestra, le aveva impedito di dormire. Suo padre era entrato caracollando nella sua stanza, completamente ubriaco e l’aveva svegliata.
Tipo strano suo padre; quando non beveva era una persona quantomeno sopportabile, ma appena alzava il gomito si trasformava. L’alcool faceva uscire la sua parte più selvaggia, più animalesca, che di solito provava a sopprimere. Leonor sospettava che il bere fosse solo un pretesto, una giustificazione, che forniva a se stesso per accettare quello che faceva, per non sentirsi un mostro. Ma lo era; e non bastava il fatto che ogni volta, dopo aver ecceduto, si confessasse e piangesse rivolto a Dio. Non bastava affatto.
Ad ogni modo quella sera, quando lo aveva visto entrare in quelle condizioni, Leonor si era aspettata il peggio. Si era chiesta se avesse picchiato sua madre quando era tornato a casa; probabilmente si. “Vieni qui piccola, ti insegno un gioco nuovo.”, le aveva detto accostandosi al letto. Leonor era rimasta confusa; di solito nei suoi momenti no si limitava a picchiarla o ad insultarla. Che cosa aveva in mente ora? Di che gioco parlava? in ogni caso aveva deciso di lasciarlo fare, per esperienza sapeva che opporsi non era la strategia migliore. Era rimasta comunque impietrita quando le aveva sollevato la camicia da notte di lino e le aveva sfilato le mutandine. “Come sei bella, mia splendida, piccola Leonor.”, le aveva sussurrato guardandola e calandosi giù le brache. Il membro era spuntato dritto e minaccioso e la bambina aveva tentato di serrare le cosce, ma suo padre gliele aveva divaricate con l’ampia mano. Così era rimasta inerte e terrorizzata mentre  l’uomo si era gettato sul suo corpicino e le aveva strappato la verginità anzitempo. Da quel giorno Leonor aveva giurato a se stessa che prima o poi si sarebbe vendicata e quel giuramento si era fatto più forte, più deciso, ogni volta che suo padre aveva abusato ancora di lei. La cosa era andata avanti per un po’, poi sua madre lo aveva scoperto ed era riuscita a farlo desistere. “Se toccherai ancora la mia bambina, lo giuro su Dio, ti taglierò la gola nel sonno, quando meno te lo aspetti. Fosse anche l’ultima cosa che faccio.”, gli aveva sibilato.  Vedere la moglie, di solito così remissiva, minacciarlo in quel modo lo aveva scosso. Non ci aveva provato mai più dopo quel giorno, ma oramai il danno era fatto; il solo pensiero di un uomo ansimante sopra di lei bastava a mandarla nel panico. Aveva scoperto comunque i piaceri del sesso a dodici anni, grazie ad una giovane e smaliziata ragazza delle cucine. Era stata una rivelazione sorprendente; davvero quell’atto che finora le era apparso così brutale, così sporco, poteva dare tutto quel piacere? Se davvero le cose stavano così che bisogno aveva di avere un uomo al suo fianco? Molto meglio divertirsi con quel nuovo, affascinante metodo. Aveva continuato a incontrare la ragazza della cucina per un annetto circa, poi, un giorno, sua madre le aveva parlato.
 Non sapeva come, forse l’aveva intuito dal suo sorriso o dal suo modo di fare, o semplicemente conosceva troppo bene sua figlia, fatto sta che aveva capito tutto. “Leonor, non farlo più ti prego. Se tuo padre lo venisse sapere non so se riuscirei a proteggerti stavolta.” Le aveva detto solo questo, ma non c’era stato bisogno di altro. Le rimase molto difficile farlo, per quanto si sforzasse gli uomini non l’attraevano affatto da quel punto di vista, ma, per amor suo, cercò di contenersi, almeno fino a quando rimase in vita. Poi quando, con suo grande dolore, una polmonite se l’era portata via non era più riuscita a trattenere i suoi istinti a lungo.
La ragazza della cucina non c’era più, ma aveva trovato delle adeguate sostitute nella servitù o anche in alcune nobildonne sue coetanee. Poi le era stata assegnata Magda come serva personale e allora non aveva più avuto bisogno di cercare. Magda… in un certo senso, per quanto non la stimasse, era la sua unica confidente, l’unica a conoscere il suo segreto. Non l’amava, ne avrebbe mai potuto amarla, ma in fondo teneva a lei ed era l’unica persona del suo passato in Spagna, eccetto sua madre, di cui non avesse un ricordo spiacevole. Si sentì un poco in colpa per il modo in cui l’aveva trattata prima. Scusarsi non era pensabile, ma avrebbe trovato un modo per farsi perdonare.
Mentre pensava a queste cose l’insieme delle case cominciò a diradarsi, e aldilà poté vedere di nuovo il sole del tramonto affacciarsi sulla strada che portava al porto. In poco più di un’ora sarebbero tornate a casa, sull’isola. “Appena in tempo.”, mormorò sollevata una delle due nelnashiane e nessuno la contraddisse. Di certo non volevano rimanere bloccate in città al calar del sole.
Quella sera, quando ebbero cenato e si furono ritirate per dormire, Leonor si avvicinò a Magda. “Lo ammetto,” le sussurrò piano, accarezzandole i capelli, “ultimamente sono stata piuttosto dura con te. E’ solo che le cose non stanno andando come credevo ed è dura da accettare.” L’altra la guardò stupita; la dama l’aveva sempre trattata bene, ma mai con rispetto. Tendeva più a considerala un’estensione del suo corpo. Cos’erano allora quelle parole e quell’atteggiamento dolce? Di fronte al suo sgomento Leonor ridacchiò, “Su non fare quella faccia! Siamo rimaste sole, noi due, in un questo Nuovo Mondo. Dobbiamo supportarci a vicenda.” La baciò quindi con passione, ma senza sopraffarla. Fece l’amore con lei tutta la notte, con dolcezza, cercando di darle tanto piacere quanto ne prendeva.
 
Il vento soffiava a forti raffiche nel porto, intrecciandosi in piccoli mulinelli e spruzzando i passanti di gocce d’acqua e sale. L’odore del mare, di solito gradito, sembrava quasi fastidioso per la mente di Cortés, appesantita dai postumi della sbornia. “Questa è la fottuta ultima volta che mi ubriaco prima di una missione.”, decise tra sé, cercando di non far trasparire il suo disagio. I suoi seguaci non dovevano mai vederlo debole; sapeva bene che un capo debole è un capo finito. In quel momento erano tutti e nove riuniti intorno a lui, intenti ad ascoltare il suo discorso. C’era voluto un po’ per convincere le teste calde come Jorge, ma ce l’aveva fatta anche stavolta e adesso era tutto pronto per cominciare. “Allora avete tutti capito quello che dovete fare?”, chiese ancora per essere sicuro. “Si, abbiamo capito Cortés. C’hai putacaso presi per stupidi?”, rispose Juan Martin, uno zotico catalano, conosciuto in patria come il macellaio di Barcellona.
Cortés non si fidava di lui ma apprezzava la sua abilità con il coltello. Non era casuale la scelta che aveva fatto di lasciare l’Europa: se i gendarmi lo avessero preso lo avrebbero ridotto a pezzettini dopo tutto quello che aveva combinato in patria.
“ Meglio così.” tagliò corto il capitano, rivolgendosi poi ad un’altra persona al sua fianco “E tu sei pronto, muso rosso?” Il muso rosso in questione si limitò ad annuire, non avendo più la lingua,  ed annuì.
Era un indio di età indefinibile, magro come un chiodo e dalla pelle scura come cuoio invecchiato, forse per lo sporco che la ricopriva. Cortés lo aveva ingaggiato perché la sua fama di ladruncolo a Zalid era leggendaria; sapeva che avrebbe potuto convincerlo a fare qualunque cosa per un po’ di denaro e che non avrebbe mai potuto rivelarlo a nessuno per la sua menomazione. Su come avesse perso la lingua, a dire il vero, giravano molte voci, una più fantasiosa dell’altra, ma questo non importava molto allo spagnolo. Anche sul suo vero nome c’erano molte ipotesi, nessuna delle quali certa, ma il popolino lo aveva soprannominato Tatapat, scarafaggio, soprannome che però odiava. Cortés preferiva chiamarlo muso rosso, abbastanza sprezzante ma meno offensivo. Per quanto gli provocasse disgusto non poteva rischiare di stizzirlo; gli serviva.
“Molto bene,” concluse sorridendo, “allora che la pesca abbia inizio.” “E tu, caro Velasquez, stai per essere pescato.”, aggiunse poi compiaciuto, ma solo nella sua mente. Intanto i nove scagnozzi si allontanarono dalla Strada del Mare, il lungo sentiero acciottolato che collegava la città al mare, sparendo presto nei meandri bui del porto. Tatapat invece non si mosse. “Beh, che stai aspettando pezzo di sterco? Devi essere tu a cominciare e non abbiamo tutta la notte a disposizione.” L’indio, ovviamente, non rispose ma si limitò a tendere il palmo della mano nella sua direzione. Cortés si indignò, “Sei impazzito muso rosso? Credi davvero che ti pagherei in anticipo? Conoscendoti, subito dopo averti dato i soldi scapperesti nella  fogna dalla quale sei venuto e io non posso permetterlo. Quindi vai e fai ciò che ti ho chiesto!” Tatapat non si mosse, rimanendo così, con la mano tesa a fissarlo. Lo spagnolo scorse, tra le croste di sudiciume, una luce scaltra brillargli negli occhi e non gli piacque. “Sentimi bene, faremo così: ti darò ora una metà del compenso e l’altra a lavoro finito, sei d’accordo?” Tatapat annuì e Cortés, dopo aver frugato nelle sue tasche, gli tirò una monetina d’argento. “Soddisfatto ora? Bene, allora muoviti.” Così, come animato da una scintilla, il ladruncolo scattò, saettando per le vie del porto come il piccolo scarafaggio che era.
Velasquez viveva in una casetta piccola, m che era comunque un lusso considerato che i soldati comuni dormivano ammassati in dormitori. Questa si trovava poco lontano dell’ambasciata spagnola. Tutt’intorno bivaccavano una quindicina di guardie armate che l’ammiraglio Colòn aveva messo a disposizione del comandante. Nonostante in quei giorni di tensione Velasquez rischiasse spesso  di essere linciato dalla folla, le guardie non erano particolarmente preoccupate e prestavano poca attenzione a ciò che succedeva intorno. Tatapat, invece, sapeva benissimo cosa fare.
C’era infatti, proprio accanto all’abitazione del comandante, un vecchio edificio abbandonato che una volta veniva usato come conceria. Arrivato lì, con velocità invidiabile, si arrampicò sul muro mezzo diroccato e raggiunse il tetto. Poi, con l’abilità più propria di una scimmia che non di uno scarafaggio, superò con un balzo la distanza, non troppo elevata, che divideva i due edifici e atterrò sull’altro tetto. A quel punto fu facile, per lui, scendere fino al balcone della stanza di Velasquez, che si trovava poco più sotto. Una volta aver forzato l’entrata ed essersi introdotto nel locale, il tutto in assoluto silenzio, non gli ci volle molto a trovare il baule dove lo spagnolo teneva i suoi averi. Con le sue piccole mani si riempì velocemente le tasche di monete e piccoli monili in oro ma poi, invece di andarsene senza farsi scoprire, fece apposta un piccolo rumore per svegliare il padrone di casa. Velasquez dapprima non si rese conto della situazione, limitandosi a fissarlo con gli occhi impastati dal sonno, poi, avendo compreso, cominciò ad urlare. Tatapat, non aspettando un secondo di più, uscì dalla finestra e, rifacendo il percorso inverso scese di nuovo in strada. Velasquez  intanto, vestitosi in fretta e furia, era uscito a sua volta e, vedendolo calarsi dal tetto, lo additò. “Ecco il ladro bastardo! Forza, prendetelo! Che state aspettando?” Dunque le quindici guardie si gettarono al suo inseguimento, ma Tatapat, invece di seminarli, si limitò a tenerli a distanza, facendo però in modo che non lo perdessero di vista. Si intrufolò così nella zona conosciuta come quartiere del pesce morto.
Veniva chiamata così quello che non era un vero e proprio quartiere, ma una massa di baracche e capanne accatastate negli immediati dintorni del porto. Lì vivevano i mendicanti più miseri, i ladri della peggior specie e i cosiddetti nasalhet, cioè i deformi e i pazzi. Era dunque la parte più malridotta, povera e degradata di Zalid, tanto che i bassifondi erano considerati nulla al confronto. Il quartiere del pesce morto poteva essere un luogo molto pericoloso anche per dei soldati esperti, grazie alle sue strettissime viuzze che formavano un piccolo labirinto. Un abitante del luogo lo avrebbe saputo, gli uomini di Velasquez invece no. Al contrario Tatapat, avendoci vissuto fin da piccolo lo conosceva come le sue tasche; così gli armati si trovarono nel cuore del quartiere senza sapere né come tornare indietro, né dove fosse la loro preda. Rimasero lì fermi per un po’, indecisi sul da farsi, finché uno di loro non si fece avanti. “Non possiamo rimanere bloccati qui per sempre.”, commentò, “Dividiamoci in gruppi da tre, se uno di questi troverà l’uscita o il ladro chiamerà gli altri che lo seguiranno.” Pessima idea. Così sparpagliati in un luogo che non conoscevano, ben presto i gruppi persero contatto gli uni con gli altri e gli uomini di Cortés, guidati da Tatapat, li circondarono uno a uno. Si presentarono vestiti con abiti di foggia locale e con la pelle scurita dal grasso d’oca, gridando: “Mururi Akihuc!” Era una frase in nelnashiano che avevano imparato a memoria, traducibile con “Uccidiamo gli stranieri!” Le guardie, terrorizzate, non opposero molta resistenza e furono di volta in volta eliminate senza troppo strepito. Le loro grida non richiamarono nessuno; la gente del posto era troppo abituata a questo genere di cose per pensare di immischiarsi. Completato il lavoro i dieci uscirono dal quartiere del pesce morto per tornare da Cortés.
“Ottimo lavoro uomini.”, li elogiò soddisfatto quando lo informarono del buon esito della missione, “Vi siete ricordati di risparmiarne uno?” “Oh si!” rispose Marcos, “ Lo abbiamo lasciato stordito in quel buco schifoso. Sicuramente domattina si sveglierà con un bernoccolo in testa e senza neanche un centesimo, ma almeno sarà vivo.” “Perfetto, era quello che volevo sentirvi dire. Basterà la sua testimonianza per diffondere la nostra versione dei fatti.”, spiegò gongolando, poi si rivolse a Tatapat. “Mi dicono che hai fatto un buon lavoro e, visto che hai lavorato bene, ti sei meritato tutto il tuo compenso.” Si frugò quindi in tasca alla ricerca dei soldi, ma dovette ben presto constatare di non avere il becco di un quattrino. Evidentemente quella mattina, senza rendersene conto, doveva aver speso tutti i soldi che aveva dietro per ubriacarsi. Certo aveva un gruzzolo da parte in banca, ma quei soldi gli sarebbero serviti prestissimo e non poteva permettersi di spenderne neanche una goccia. “Mierda!”, pensò sentendosi osservare dal ladro. Non smetteva di vedere quella luce furba e spietata negli occhi del muto e per qualche motivo la cosa gli dava i brividi. Come avrebbe potuto pagarlo? Ebbe un’illuminazione: il medaglione che portava al collo, nascosto nella casacca, era d’oro. Ma non poteva separarsene!
Lo aveva preso durante il saccheggio di Titara, direttamente dal cadavere di un mago nelnashiano. Aveva un pendente d’oro massiccio, cesellato a forma di stella a dodici punte e valeva una fortuna. A parte questo, il fatto di averlo strappato in battaglia ad uno dei terribili stregoni degli indios, gli aveva permesso di fare carriera, fino a diventare capitano. Nessun’altro poteva sfoggiare qualcosa di simile, insomma era un motivo di vanto per lui.
Rimase fermo a guardare il medaglione, indeciso sul da farsi. Intanto continuava a sentirsi addosso lo sguardo penetrante dell’indio e sapeva anche di essere osservato dai suoi sottoposti. Non poteva far vedere a quei tagliagole che non era in grado di pagare una commissione, rischiava di subire un ammutinamento. In fondo, decise, avere la testa attaccata al collo valeva più di un pendaglio. “E’ troppo per te, ma non ho altro da darti hijo de puta! Prendilo e sparisci subito dalla mia vista.” Con espressione soddisfatta Titara arraffò velocemente il prezioso medaglione e, silenziosamente come era venuto, scomparve nella notte. “E questa è fatta.”, sospirò Hernan, “Ora andiamo a completare l’opera. Il pesce ha abboccato, ma bisogna ancora tirarlo su.” Detto questo si diresse a passo svelto verso la casa dove Velasquez stava ancora aspettando il ritorno dei suoi soldati. I nove scagnozzi lo seguirono subito riprendendo a gridare: “Mururi akihuc! Mururi akihuc!” Così facendo, buttarono giù a spallate la porta dell’abitazione, trovando dall’altro lato il comandante terrorizzato che puntava, tremante, una spada contro di loro. “Andate via, musi rossi! Vi farò mettere tutti sulla forca!”, gemette agitando la spada, ma si fermò sgomento quando riconobbe la faccia di un suo sottoposto nel gruppo di indios. “Cortés?”, riuscì solo a mormorare. “Buonasera comandante,” lo salutò l’altro sguainando a sua volta la spada, “sono passato a farvi un saluto.”
 
Francesco percepì la tensione nell’aria quando, quella mattina, si recò al solito incontro settimanale con il Fapogu. L’ambasciata era in fermento e già durante la notte aveva sentito degli schiamazzi che lo avevano svegliato. Non sapeva niente di preciso, ma aveva sentito dire che durante la notte un gruppo di nelnashiani aveva ucciso una ventina di soldati spagnoli e il comandante Velasquez in persona! Se era vero non si stupiva di tutto quel trambusto. Aveva tentato di chiedere informazioni all’ammiraglio Colòn, ma quello, troppo impegnato, non aveva voluto incontrarlo. Dovette pensarci a fondo prima di decidere se andare all’incontro o no; con tutto quel disordine non sarebbe stato pericoloso? A fargli prendere una decisione fu Spieltilil. “Non deve aver paura, tepe Francesco… volevo dire signor Francesco.” Il piccolo interprete faceva ancora un po’ di fatica a parlare in spagnolo nonostante le sue notevoli capacità. “Vedrete che non ci capiterà nulla. Forse potrebbero attaccarvi se foste da solo, ma saremo in compagnia del Fapogu, non oseranno farci del male.” Il frate si sentì rincuorato da quelle parole. “Non hai tutti i torti  piccoletto. Sei proprio un giovanotto intelligente.”, gli disse scompigliandogli i capelli scuri. In questi ultimi tempi si era molto affezionato a Spieltilil.
Il bambino, che aveva circa nove anni, era nato nei bassifondi di Zalid e, essendo orfano, aveva vissuto gran parte della sua vita in strada.
Il problema dei ragazzini abbandonati era una piaga che affliggeva anche Roma, come molte altre città, ma in patria la Chiesa tentava almeno di dare una piccola mano, lì invece nessuno muoveva un dito. Il problema stava nella mentalità dei nelnashiani; pensavano che i loro dèi avessero affidato agli uomini il loro favore in modo diverso. Chi riusciva ad arricchirsi e a farsi strada con le proprie forze veniva considerato un favorito dal cielo e acquisiva grande prestigio. Al contrario chi rimaneva povero, o lo diventava, era come se fosse maledetto e veniva trattato come feccia. Per cui, se i bambini poveri riuscivano a cavarsela da soli bene, altrimenti, se morivano, la gente ne prendeva atto come conseguenza del loro destino e non si scandalizzava.
Da questo punto di vista Spieltilil era stato fortunato. Aveva assistito da piccolo all’arrivo degli spagnoli a Zalid e, semplicemente sentendoli parlare, era riuscito in pochi anni ad imparare la loro lingua, rivelando un intuito sorprendente. Si era rivelato così molto utile, in un periodo in cui c’era scarsità di interpreti e l’ambasciata lo aveva preso con sé, insegnandogli a leggere e a scrivere e convertendolo al cristianesimo; Francesco dubitava però della sincerità della sua conversione. Era convinto che in cuor suo fosse rimasto fedele al suo credo, considerandosi un baciato dagli dèi, e che il suo abbracciare il cristianesimo fosse stato solo un mezzo per andarsene dalla strada. In fondo però non gli importava; quel mocciosetto era troppo simpatico e intelligente per fargliene una colpa.
Si incamminarono dunque a prendere la carrozza, che cominciò a trottare sulla lunga e diritta Via del Mare, continuando fino a dove si affacciavano le prime case e la strada diventava un tutt’uno con la Via Principale, che passava in mezzo a tutta Zalid. Lì li aspettava il Fapogu Atisabvoc, pronto a guidarli nell’ennesimo tour per la città. Salito a bordo presero subito a parlare. Infatti anche Francesco aveva cominciato ad appassionarsi; la cultura locale era ricca e variegata e offriva molti spunti interessanti.
A dire il vero il frate non credeva che ci fossero molte possibilità di conversione: gli abitanti dell’isola erano troppo orgogliosi della propria cultura per aprirsi al Sacro Verbo. Si credevano gli unici portatori di una tradizione antichissima e incontrovertibile, di cui tutti gli altri si erano dimenticati, e non accettavano di essere contraddetti. Nonostante questo Francesco era intenzionato ad ottenere quante più informazioni possibili, più per sua curiosità personale che altro. Gli sarebbe piaciuto scrivere un libro sugli usi e costumi dei Nelnash, un po’ come aveva fatto Bartolomé de las Casas con il suo De Columbia, ma occupandosi dell’ambito religioso, che il suo illustre predecessore aveva trascurato. Lo avrebbe chiamato: “De religione Nelnianorum.”Un’informazione interessante poi la venne a scoprire proprio durante quella conversazione.
 Stava spiegando ad Atisabvoc che Gesù era nato in una terra dal nome di Palestina, a quei tempi sotto uno stato chiamato Impero Romano e l’altro, incuriosito volle sapere di più su di esso. “Era un impero immenso, esteso per leghe e leghe, che abbracciava decine di culture diverse.”, spiegò e il Fapogu si grattò la barba incuriosito. “Ricorda molto l’Impero di Tatliac che si sviluppò sul nostro continente molti anni fa. Ma davvero a crearlo fu una sola città?” “Si, certo, ma non una qualsiasi. La nobile Roma è una città santa, sede di imperatori, papi e apostoli.” Dopo aver spiegato questo gli raccontò la leggendaria origine della città, partendo dal mito di Romolo e Remo. Sentendolo lo sguardo di Atisabvoc si illuminò, “Guarda che coincidenza, anche noi abbiamo una leggenda che parla di due gemelli. Si chiamavano Kassa e Kapta e si dice che furono i primi uomini ad incontrare gli dèi quando scesero sulla terra; non so se ci avete fatto casa ma le due isole abitate di Zalid si chiamano proprio così. Ad ogni modo di questo, come di altri miti, sappiamo poco perché molte informazioni sono state perdute al tempo dell’invasione kunaki. Probabilmente qualcosa è sopravvissuto nella biblioteca di Lovoku, ma ci vorrebbe talmente tanto tempo per trovarla che non ne varrebbe la pena.” “Avete detto biblioteca di Lovoku?”, chiese Francesco incuriosito. “Si, è in assoluto la biblioteca più grande di Nelnash e forse del mondo. Qualunque studioso di un certo spessore, me compreso, si è formato studiando a Lovoku.” L’informazione colpì profondamente Francesco; forse era il caso di fare una capatina in quella biblioteca prima di ripartire. In ogni caso erano ormai arrivati a destinazione, dunque decise di rimandare le sue considerazioni a più tardi.
Si trovavano in Piazza del Mercato, la più grande di Zalid, situata nella città bassa. A differenza delle due  piazze della città alta, quella non era stata progettata a tavolino, ma si era formata autonomamente e disordinatamente con l’espandersi del tessuto urbano. Come suggeriva il nome era la sede del mercato cittadino e si poteva considerare il cuore pulsante di Zalid, il centro della vita quotidiana e degli scambi commerciali. Quel giorno si stava tenendo proprio il mercato e la carrozza arrancava difficilmente in mezzo all’urlante folla multicolore che la riempiva fino all’orlo. In mezzo alla calca svettavano tuttavia due grosse statue, scolpite nella stessa pietra nera di cui erano fatte le torri e il vecchio sacerdote lo richiamò indicandole.
“Vedete, era questo che volevo mostrarvi.”, gli spiegò parlando di una delle due.
Era una statua di circa quattro metri, rappresentante un indio dall’aria regale, a cavallo di un ippogrifo. Con una mano teneva uno scettro regale, con l’altra le redini. Al collo portava un medaglione sferico, con una stella incisa sopra e aveva lo sguardo rivolto verso il cielo.
“Quella è la statua di Faskbis, un capo-tribù kunaki che decise di abbandonare i culti barbari della sua gente per accettare il nostro sacro credo e le nostre tradizioni. Viene ricordato come il primo vero re di Nelnash, il fondatore del nostro paese e la sua scelta viene ricordata con orgoglio dalla nostra gente. E’ l’esempio di come la Verità possa far breccia nei cuori della gente.” Francesco, per quanto volesse controbattere, preferì rimandare a dopo la discussione per soddisfare una sua curiosità. “E quella chi rappresenta?”, chiese indicando l’altra statua.
Questa mostrava una donna alta e dritta, avvolta in un elegante vestito scolpito squisitamente. Il volto era delicato, dall’aria calma e mansueta, ed era rivolto anch’esso al cielo. Portava lo stesso medaglione dell’altra e aveva una mano posata sul cuore.
“Quella? Quella è Ebabadansh, la nobile regina che sconfisse sua sorella maggiore, Belnisa, nella Guerra delle Due Regine. Fu lei a garantire a Nelnash la sua costituzione, rendendola il grande paese che conosciamo oggi. Alcuni la considerano la seconda fondatrice del nostro regno.”, spiego Atisabvoc pur non dimostrando lo stesso entusiasmo di prima. Evidentemente non la considerava altrettanto importante dell’altro re, forse perché non aveva avuto un ruolo importante dal punto di vista religioso. Anche Francesco, però, non sembrava molto convinto, “Voi date tutta questa importanza ad una donna?”, domandò aggrottando le sopracciglia, “Il potere regale non dovrebbe essere affidato a creature così volubili. Quantomeno avrebbe dovuto avere un marito al suo fianci che potesse guidarla nel difficile compito del governo.” Il fapogu aprì la bocca per rispondere ma un rumore lo interruppe.
Affacciandosi dalla carrozza videro il cocchiere imprecare contro  la folla che, intenta a vendere e a comprare, impediva  loro il passaggio. Quest’ultima, evidentemente infastidita per essere stata distratta dai suoi compiti, strettasi intorno alla carrozza, cominciò a rispondere alle offese dell’uomo agitando i pugni minacciosamente. Ma le cose erano destinate a peggiorare. Alcuni nel mucchio urlante si voltarono per caso e scorsero il viso di Francesco nell’abitacolo del mezzo. Così un ometto che vendeva del pesce lo additò con aria rabbiosa e richiamò con un grido l’attenzione dei presenti su di lui. In un attimo gli sguardi dell’intera piazza si fissarono su di lui e Francesco notò, con un brivido, che erano decisamente minacciosi. E così, come una scintilla fa divampare all’improvviso un incendio, così la folla tutt’intorno a loro prese ad agitarsi e ad inveirgli contro. Di fronte a quell’esplosione di rabbia, il cocchiere si impaurì e cercò di calmare quella marmaglia furiosa, ma i suoi tentativi risultarono vani. Francesco, confuso, si rivolse a Spieltilil, “Cosa stanno dicendo?” Il piccolo lo guardò con espressione terrorizzata, “Niente di buono”, riuscì solo a mormorare. A quel punto Atisabvoc uscì dalla carrozza, sperando, con la sua influenza, di calmare gli animi. Il piccolo interprete, senza bisogno che lui dicesse nulla, si premurò di tradurre ciò che diceva. “Brava gente di Zalid, è il vostro Fapogu che vi parla”, cominciò a dire il Gran Messaggero, “Sono in missione diplomatica con un rappresentante del capo della religione cristiana. Frate Francesco è nostro gradito ospite e comportandovi così state dando una cattiva immagine dell’intera Nelnash. Tornate dunque alle vostre occupazione e lasciateci passare!” Ma la folla, agitata dalla paura del contagio e infiammata dai tafferugli della notte precedente, non era disposta a calmarsi. Anzi, se possibile le parole del Fapogu la fecero arrabbiare ancor di più. Vedere il loro Gran Messaggero fare comunella con quelli che consideravano invasori fu la goccia che fece traboccare il vaso. Gli occhi di Spieltilil si ingigantirono dal terrore, “Stanno dando al Fapogu del traditore.”, commentò stupito ma Francesco non aveva bisogno di quelle parole per capire che le cose si stavano mettendo per il peggio.
Bastò il levarsi di un’altra voce e le cose precipitarono. Il popolino assaltò la carrozza come un branco di lupi famelici; afferrarono il cocchiere, che inutilmente tentò di difendersi con la frusta, e lo sbalzarono a terra. Atisabvoc subito provò a rientrare nell’abitacolo, ma centinaia di mani furiose lo abbrancarono e il povero vecchio, terrorizzato, scomparve nell’ammasso tumultuoso e pulsante dei corpi. Il cavallo, impazzito per la paura, si impennò nitrendo e scalciando e i suoi colpi ciechi spaccarono più di un cranio; ben presto però fu abbattuto a colpi di falce e coltello e gli schizzi di sangue caldo eccitarono ancora di più gli animi degli assalitori. Le pareti della carrozza offrirono per poco un riparo al frate e al suo piccolo aiutante ma le portiere furono in breve scardinate. Francesco sentì mani sporche che gli stringevano su tutto il corpo, graffiandogli il viso, strappandogli il saio. “Spieltilil!”, gridò, ma il bambino non rispose e subito dopo si trovò sbattuto con forza a terra. L’impatto con il suolo fu devastante e la luce gli scomparve dagli occhi per qualche istante. Quando si riprese però fu anche peggio. Si sentiva stretto in una calca soffocante, lurida e il puzzo gli fece lacrimare gli occhi; calci e pugni si abbattevano in continuazione su di lui, tanto che ad un certo punto non seppe più dire quale parte del corpo gli facesse più male. Ad un certo punto il dolore si fece nuovamente insopportabile e la vista gli si oscurò di nuovo. “L’avevo detto io che avevo un brutto presentimento.”, riuscì a pensare prima che il buio lo sopraffacesse.

Ecco il nuovo capitolo! Se avete dei commenti o delle critiche da fare sentitevi pure liberi di farle, ogni consiglio è ben accetto.    
        
 
   
 
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