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Autore: Adeia Di Elferas    28/09/2015    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Più la data della partenza si avvicinava, più Caterina cercava di trattenere a sé frammenti della vita quotidiana della corte di Milano.
 Non sapeva se e quando sarebbe potuta tornare in quella che era stata la casa della sua infanzia e quindi ogni minimo dettaglio del palazzo di Porta Giovia e delle persone che vi abitavano le pareva incredibilmente prezioso, in quel periodo.
 Avrebbe voluto poter portare ogni cosa, ogni ricordo, perfino quelli più dolorosi, con sé.
 Da quando suo padre era morto, la vita di Caterina aveva subito molti cambiamenti. Prima di tutto aveva visto sua madre Lucrezia sempre più di rado. Poi i suoi fratelli, in particolare Gian Galeazzo, erano sempre sotto scorta o comunque guardati a vista da qualche soldato e quindi stare con loro non era più rilassante come prima. E infine sua madre Bona era diventata più distante e sempre preoccupata.
 Quella donna aveva perso la dolcezza e la tranquillità che le erano proprie e aveva ceduto alle paure e alla fermezza.
 Più era spaventata da qualcosa, più si dimostrava in grado di prendere decisioni irrevocabili e severe, diventando sempre più diversa da quella che era sempre stata.
 Teneva sempre al suo fianco Cicco Simonetta, con il quale spesso litigava, ma al quale finiva sempre per chiedere consiglio. Inoltre aveva anche preso l'abitudine di ascoltare Filippo, l'unico dei cognati che non le avesse mosso guerra.
 Osservando loro e ricostruendo vecchie trame di palazzo, Caterina cercava giorno dopo giorno di capire meglio come funzionasse la politica di uno stato, perchè aveva chiara la sensazione che a breve anche lei avrebbe dovuto occuparsene.
 Sua madre le aveva detto che Girolamo Riario aveva precisato che la voleva e Roma e che lì si sarebbero incontrati. Tuttavia, prima di arrivare là, Caterina avrebbe dovuto fare tappa a Imola, per farsi conoscere dalla popolazione.
 Sarebbe stata sola in un posto sconosciuto e dall'ascendente che avrebbe avuto sul popolo, aveva ricordato suo marito, sarebbe in parte dipesa la fortuna della loro famiglia.
 E mentre tutti questi pensieri la tormentavano, Caterina continuava a raccogliere ricordi. Passava molto tempo nel laboratorio dell'alchimista, copiando i propri appunti in modo febbrile e segnandosi qua e là i consigli che l'uomo le dava con solerzia.
 Era stato uno dei pochi a capire quanto fosse portata per quella strana scienza. Le aveva insegnato come usare le piante a scopo curativo, estetico e offensivo. Caterina aveva assorbito ogni informazione come una spugna e ora che stava per lasciare quel maestro, voleva essere certa di non aver perso nulla per strada.
 Quando poteva andava a chiacchierare coi soldati del palazzo, alcuni dei quali la pregavano sempre di più di salutare il tale o il tal altro amico che forse avrebbe incontrato a Imola o a Roma. Caterina cercava di scolpirsi nella mente ogni nome e ogni saluto, convincendosi che più soldati avesse conosciuto, più sarebbe stata al sicuro.
 E infine, quando riusciva, prendeva di nascosto un cavallo e usciva da palazzo, per prendere una boccata d'aria e sentirsi di nuovo libera.

 Quel giorno le nuvole nel cielo sembravano le vele di un centinaio di navi gigantesche. Caterina non aveva mai visto dal vivo una flotta, ne aveva solo rimirato dei disegni, eppure in quel momento le pareva che davanti ai suoi occhi non si stagliasse il cielo, ma bensì uno sconfinato mare.
 La leggerezza di quell'istante si spense appena la ragazzina si ricordò che il suo sposo era originario di Savona. Lui il mare doveva conoscerlo bene. La sua era stata una famiglia di pescatori, prima che suo zio diventasse papa.
 'Pescivendoli ripuliti', così li aveva sempre chiamati Galeazzo Maria.
 Gli occhi di Caterina si persero in momento tra le vele di nuvola e quando li riabbassò, si sentì la gola secca e il respiro corto. Accarezzò l'erba che si stendeva umida e fresca sotto di lei e fece del suo meglio per allontanare i ricordi dalla sua mente.
 Era pressochè impossibile.
 L'idea che a breve avrebbe rivisto Girolamo Riario la gettava nel panico. Non voleva provare una simile sensazione. Voleva essere forte e comportarsi come se niente e nessuno potesse più farle del male... E invece la paura – tenuta a freno per anni – ormai la stava divorando.
 Dovette chiudere gli occhi e sforzarsi di non vomitare. Afferrò con le mani due ciuffi di erba e strinse con tutta la forza che aveva, strappando i fili sottili uno a uno.
 Dopo qualche secondo, la nausea passò e il respiro tornò a essere normale.
 Perchè Girolamo Riario doveva avvelenarle anche quegli ultimi giorni di libertà?
 Si ripulì le mani nel vestito, già pensando alla faccia scocciata che avrebbe fatto la sua serva nel vedere la stoffa chiara così macchiata di fango ed erba. Si rimise in piedi e andò al cavallo.
 Prese le briglie e gli accarezzò il muso. Quanto avrebbe voluto scambiarsi con lui...
 Montò in sella e lo condusse a palazzo, passando per una via secondaria, fino ad arivare all'ingresso secondario, dove l'attendevano due soldati molto fidati che la coprivano sempre, quando usciva di nascosto.

 Qualche tempo prima della partenza, per rendere l'unione ufficiale anche agli occhi dei Milanesi, si tennero le nozze per procura tra Caterina e Girolamo. Si tratto di una messinscena cupa e frettolosa, senza sfarzo né allegria, teoricamente in rispetto al compianto Duca, morto da pochissimi mesi.
 La ragazzina subì la cerimonia come fosse una punizione per qualche terribile crimine, ma nessuno dei presentì parve notare l'espressione funerea che tenne per tutto il tempo.
 Appena quella farsa fu portata a termine, Caterina chiese alla madre di poter vedere da sola Cicco Simonetta.
 A breve, le spiegò, sarebbe partita e voleva dire addio al cancelliere. Bona di Savoia le chiese come mai avesse tanta fretta, visto che la partenza non era fissata nell'immediato, ma Caterina non rispose.
 Mentre andava a chiamare il cancelliere, Bona dovette mettere a tacere la voce interiore che le sussurrava: “Vuole scappare...”
 Convincendosi che Caterina non avrebbe mai agito da vigliacca, nemmeno in una situazione come quella, Bona riferì le parole della figlia al cancelliere.
 Cicco Simonetta restò di sasso, di fronte a una simile richiesta, tuttavia non si tirò indietro. Ringraziò Bona per aver fatto da messaggera e si affrettò a raggiungere 'sua signoria'.
 Caterina lo stava aspettando in una delle sale, vicino alla finestra. Simonetta strinse al petto la sua cartella di cuoio e si avvicinò, dicendo, ossequioso: “La vostra signoria mi ha fatto chiamare?”
 La ragazzina lo fissò con un'espressione imperscrutabile, mettendolo in soggezione. Non aveva mai notato in lei quella strana luce che ora la pervadeva.
 Caterina stava osservando con attenzione l'uomo che le stava davanti. Le sembrava così vecchio... Gli ultimi anni lo avevano trasformato in un anziano curvo e stempiato. Il relitto dell'uomo che era stato in gioventù.
 “Siate sincero, almeno una volta nella vita...” prese a dire Caterina: “Voi mi avete sempre detestata.”
 Cicco Simonetta aggrottò la fronte, più che sorpreso per un incipit del genere: “Ma... No... Non... Non dovete dire certe cose... Io ho sempre voluto solo e unicamente il vostro bene, io sono sempre stato un umile, umilissimo servo vostro e di vostro padre e dei vostri non---”
 “Non siate il solito ipocrita!” lo interruppe Caterina, alzando la voce in modo che al cancelliere ricordò tremendamente Francesco Sforza negli anni della giovinezza.
 Il brivido che gli corse lungo la schiena, gli fece uscire una vocetta stridula e tremante: “Non avrei mai potuto detestarvi... Voi siete la nipote di vostra nonna...”
 “E la figlia di mio padre, uomo che voi disprezzavate.” constatò Caterina, con freddezza.
 “Io...” boccheggiò Simonetta, la bocca impastata e gli occhi sgranati alla ricerca di un appiglio. Perchè doveva sentirsi così teso e vulnerabile di fronte a una ragazzina di sì e no quattordici anni?
 “Oh, avanti, Simonetta...” disse piano Caterina, sorridendo senza allegria: “Non siate così mesto. State per riuscire, finalmente, nel vostro intento: consegnarmi una volta per tutte ai Riario, liberandovi di me. Confessatelo, Simonetta... Da quando mi avete costretta a sposarlo, anche solo incontrarmi in giro per il palazzo per voi è stata una tortura. Quattro anni d'inferno. Come vedere un fantasma...”
 Cicco Simonetta era diventato violaceo. Ora più che il timore o la soggezione, stavano montando in lui la rabbia e il senso di colpa che, sì, è vero, l'aveva tormentato per anni, ma con il quale sapeva di dover convivere, perchè uno statista deve prendere decisioni che portano con sé anche gravi conseguenze.
 “Avanti, non avete nulla da dire?” lo punzecchiò Caterina, che dalla morte del padre aveva cominciato a trasferire inconsciamente tutto il suo risentimento sul cancelliere, che, per quel che ne sapeva, era stato il più accanito sostenitore di suo marito.
 “Vostro padre era un uomo debole e dalla mente deviata.” sbottò alla fine Simonetta, la voce bassa, ma implacabile: “E voi... Ammetto che all'inizio vi detestavo, sì, credevo che foste una bambina insopportabile e troppo irrequieta. Quando fu il momento di decidere chi doveva sposare Riario, vi proposi subito, nella speranza che un matrimonio vi mettesse in riga.”
 Caterina non fece una piega. Erano tutte cose che sapeva già. In quel momento si chiese perchè mai avesse voluto incontrare a tu per tu il cancelliere. In fondo, non era così necessario congedarsi a dovere con lui...
 “Tuttavia, ora...” riprese Simonetta, abbassando lo sguardo: “Ora vedo i vostri pregi, oltre ai difetti e... Mi... Mi dispiaccio per il male che vi hanno arrecato.”
 “Che voi mi avete arrecato.” lo corresse Caterina, riaccendendosi.
 Cicco Simonetta sentì le gambe cedere sotto il peso delle colpe che aveva accumulato negli anni e cadde in ginocchio.
 “E sappiate che ormai è tardi per chiedere perdono – proseguì Caterina, implacabile – quindi spero solo che tutto il male che avete fatto vi tormenti fino al giorno della vostra morte.”
 Dopo aver concluso la frase, la ragazzina si sentì incredibilmente stanca. Dopo anni aveva avuto il coraggio di dire quello che pensava e si sentiva euforica, perchè quel coraggio le ribolliva in fondo all'anima senza sosta.
 Mentre il vecchio cancelliere stava ancora in ginocchio di fronte a lei, Caterina decise di sfruttare ancora una volta la sua nuova autorità, così disse: “Da voi ho anche imparato molto. Ho imparato la politica e come risolvere i problemi burocratici e diplomatici. Sì, ho imparato a far valere la ragione di stato anche a costo di sacrificare ciò che un uomo con coscienza non sacrificherebbe mai.”
 Simonetta era sempre più curvo. Forse non riusciva a parlare, o forse piangeva in silenzio... A Caterina non importava più. Si era tolta quel peso, infine, e ora era più leggera.
 Ecco un altro ricordo di Milano che si sarebbe portata appresso per sempre: il cancelliere che tanto aveva desiderato la sua infelicità, piegato in due sotto il peso delle poprie colpe.
 “E ora andatevene.” concluse Caterina.
 Simonetta si alzò a fatica e, la cartelletta stretta stretta al petto, quasi corse fuori.
 

   
 
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