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Autore: WhiteWitch    29/09/2015    2 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Nda: Ciao, amici di Maria De Filippi! Sono tornaaaataaaa! In questo capitolo ci sarà qualche piccola rivelazione, anche se lo considero più che altro un capitolo di transizione. In ogni caso la notizia è un'altra: manca poco alla fine. Siamo ormai a ridosso dell'epilogo, ancora un paio di capitoli e ci siamo. Ma aspetterò per salutare, non voglio commuovermi D:
La storia è naturalmente anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 26.

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Jeannot e Marie si lasciarono ventidue giorni dopo.
Il colloquio con il British era andato bene, Marie aveva dimostrato la sua padronanza dell'inglese e anche di sapere un po' di tedesco, oltre che il francese. Le referenze erano ottime, il titolo di studio eccelso. Le comunicarono l'assunzione nel giro di pochi giorni.
Io non penso onestamente che Jeannot sia stato uno stronzo e, per fortuna, nemmeno Marie lo pensa. Credo che lui non se la sentisse di cambiare in modo così radicale. Le propose una relazione a distanza, almeno all'inizio, fintantoché non avessero trovato una soluzione migliore. Lei rifiutò, disse che non ce l'avrebbe fatta a vederlo partire e a stare da sola per mesi e mesi. Disse che preferiva lasciarsi subito, piuttosto che cedere a quel triste preludio.
Lo capivo, almeno un po'. Ricordo quanto sia stata dura per me trasferirmi a Parigi dall'Italia. Penso in tutta franchezza che non sia una cosa da tutti. Jeannot era molto legato alla sua famiglia. Se non fosse stato per i suoi genitori forse l'avrebbe seguita.
Penso che abbia avuto paura. Paura di lasciare casa, di lasciare quelle strade così familiari per lui, di ricominciare da capo in un posto nuovo dove non conosceva nessuno. Dove si parlava una lingua che lui capiva poco. Una prospettiva del genere fa spavento. Non lo definirei cattivo, Jeannot, e nemmeno egoista. Era solo spaventato.
Ne parlarono a lungo. Non ho mai saputo cosa si siano detti in quei ventidue giorni che passarono tra il colloquio e il tracollo, ma so che ne hanno discusso così tanto che Marie non ha mai più voluto sollevare l'argomento. Penso si fosse un po' esaurita.
Eravamo tutti molto preoccupati per entrambi. Jeannot era abbastanza a pezzi, Jacques lo incontrò spesso in un pub per cercare di risollevargli il morale e riferì sempre di averlo trovato giù di corda.
Marie era molto delusa. Non era disperatamente triste come una qualsiasi Marianne Dashwood, né arrabbiata o vendicativa. Era solamente delusa. Credo che averne parlato con lui così a lungo abbia in qualche modo fermato le lacrime.
«Credevo saremmo stati insieme per sempre», sospirò una sera. Bette ed io ci scambiammo uno sguardo e non aprimmo bocca. «Insomma, non pensavo proprio che sarebbe successa una cosa del genere».
In televisione davano una trasmissione orrenda su dei vip che facevano un percorso a ostacoli nella giungla. Le risate del pubblico erano le uniche note di gioia nella stanza, per quanto finte. Osservai per un po' la chioma bionda coperta di foglie di Clémence Poésy che cercava in tutti i modi di superare Stromae buttandolo per terra con una spallata molto virile, poi feci schioccare la lingua sul palato, annoiata e triste.
«Come farete con l'appartamento?».
«Jeannot ha detto che non vuole rimanere qui», rispose Marie con un tono di voce piatto, monotono. «Dice che ci sono troppi ricordi».
«E tu?».
Si strinse nelle spalle. «Ho dato la disdetta alla proprietaria, ho pagato fino alla fine del trimestre», spiegò. «E poi sarò fuori».
Non c'era entusiasmo nella sua voce, tutto l'ardore provato giorni prima nella sua cucina era svanito.
Bette fece un timido tentativo di ravvivare l'atmosfera triste: «Emozionata per il cambio d'aria?».
Marie fece di nuovo spallucce e non disse niente.
«Hey», dissi io per cambiare argomento, «lo sapete che Nicole torna a Parigi sabato?».
Già, a tal proposito, vi ricordate di Nicole? La ragazza con la voce sexy che usciva sempre con noi e che, mi rendo conto ora, non nomino da una vita? Beh, era a fare la ragazza alla pari in Canada per due anni e si era presa una settimana di ferie da trascorrere a casa.
«Fantastico», commentò Marie aspramente, «così dovrò rispondere alle sue domande sul perché è finita, tra me e Jeannot».
Le passai una mano su un braccio. «Non dovrai rispondere proprio a niente», mormorai. «Non se non ti andrà di farlo. Nicole è una nostra amica, capirà».
«Uhm», fece Marie.
Bette sembrava intenzionata a distrarla a tutti i costi. «Mi avete parlato molto di lei», disse con entusiasmo. La sua frase cadde nel silenzio, così aggiunse: «Sono curiosa di conoscerla».
Le rivolsi un sorriso di gratitudine, ma Marie era in una fase proprio brutta e così restammo di nuovo in silenzio per un po'. Il programma finì e partì una serie di spot pubblicitari.
Fu allora che Marie iniziò il suo monologo.
«È tremendo, vero? Quando tutte le certezze ci crollano sotto i piedi», sussurrò. «Credevo che Jeannot ed io saremmo stati insieme per la vita. Che avremmo avuto dei figli e poi dei nipoti, una casa, un cane, una macchina e che mi sarei svegliata di fianco a lui tutte le mattine, non importa quanto potesse russare. Non importa quanto potesse diventare monotono. Ero talmente sicura di tutte queste cose che mi sembrava fossero a portata di mano, capite? Come se mi bastasse allungare un braccio e prenderle quando fossi stata pronta».
Vidi con la coda dell'occhio che Bette guardava l'orologio. Aveva un farmaco da prendere, come dimenticare?
«E invece niente», sbottò Marie. «Non ho avuto niente di quello che credevo. Probabilmente non avrò mai quello che ho sempre sognato, ma sapete che c'è?».
Le rivolsi un sorriso mesto. «Che c'è? Dimmi».
«C'è che la vita non è un film e che è solamente colpa mia se ho dovuto scoprirlo così. Mi sono sempre sentita un po' fiera mentre la mia vita veleggiava verso il lieto fine. Sì, Léo, non guardarmi in quel modo, mi sentivo come se fossi superiore al resto del mondo perché a me andava tutto bene, non c'era nulla nella mia intera esistenza che non funzionasse».
Quel discorso si stava facendo faticoso per tutti e avvertii una spiacevole sensazione di prurito sotto alle cosce inguainate negli shorts. Il divano di Marie non mi sembrava più così comodo, dopotutto.
«E ora sono qui. Sono qui che sto per partire per una città che non conosco. Da sola».
«Hai paura?», domandò Bette.
Marie annuì. «Ho una strizza tremenda».
«Magari non sarà così male».
Con aria mesta, la mia migliore amica tentò un sorriso stiracchiato. «No, magari non sarà così male».
All'arrivo di Nicole, il sabato successivo, uscimmo tutte insieme a festeggiare. Bette rinunciò ad un sabato sera con il suo Henry e si unì al gruppo delle single in una stranissima parodia di Sex and the City – anzi, “Le Sexe et la Cité”.
Più che altro, in realtà, sembravamo quattro fantasmi. Nicole aveva un jet lag del cazzo da smaltire, Marie aveva la voglia di divertirsi di un bisturi, io avevo avuto la malsana idea di guardarmi un video di George e Bette aveva un tale tremore alle mani da dover chiedere una cannuccia per bere il suo drink.
Offrimmo un bello spettacolo. Ci divertimmo poco e, alla fine, tornammo a casa stanche.
Dormii da Marie: non avevo trasferito niente delle mie cose da lei, dopotutto mi bastava attraversare il pianerottolo. Comunque avevo deciso che avrei dormito da lei finché non fosse partita, alla fine dell'estate.
A tal proposito, parliamo dell'estate parigina. Chi di voi ha visto la quarta stagione di Gossip Girl? Beh, dimenticatela. La mia personalissima estate a Parigi fu un disastro dopo l'altro. Ma procediamo con ordine.
Punto primo. Rischiai di perdere il lavoro. Non lo dico come uno scherzo, è vero. Discussi violentemente con la nostra carissima caporeparto, che mi chiese cortesemente di non presentarmi il giorno dopo. Credevo di essere stata licenziata per davvero, ma per fortuna Manuel aveva registrato un video della discussione, lo fece vedere ai Massimi Pezzi Grossi del Gitem Euronics e nel giro di una settimana tornai a spassarmela alla grande tra videogames e pratiche assicurative. Sophie non venne cacciata, ma almeno dimostrammo che avevo ragione io e continuai a percepire un regolare e scarno stipendio.
Punto secondo. Vidi la sfavillante vita di Paul Duval scorrere davanti ai miei occhi come un film quando ebbe la botta di culo di ottenere come cliente nientemeno che Samia Ghali, politica del Partito Socialista e sindaco di un distretto marsigliese, impegnata in una causa contro il suo stesso marito. Non una causa divorzista, figuriamoci, sarebbe stato all'ordine del giorno: quei due si amavano alla follia, ma si litigavano la proprietà di una baita sulle Alpi svizzere. Paul divenne uno dei più giovani avvocati che si fossero mai avvicinati allo scintillante mondo della politica ed io mi sorbii “Le straordinarie avventure di Paul Duval e della Perfida Sindachessa” quasi quotidianamente. Così, giusto per ricordare a me stessa cosa mi ero persa. Ma non ero gelosa: è questa la cosa peggiore. Se fossi stata invidiosa della sua vita perfetta avrei avuto qualcosa a cui aggrapparmi.
Punto terzo. Per l'afa eccessiva persi i sensi dentro il camerino di Via Condotti e mi ritrovarono dopo tre ore.
Punto quarto – e qui voglio la vostra completa attenzione – iniziai ad incrociare George dappertutto. Prima mi ritrovai imbottigliata nella coda per entrare in una libreria dove non so bene quale autore di libri fantascientifici firmava copie della sua opera omnia e senza farlo apposta quasi gli finii tra le braccia. Il bello è che io non volevo nemmeno entrarci, in quella libreria, erano quegli invasati ad occupare l'intero marciapiede. Ci scambiammo un saluto rigido e poi io scappai via. Poi lo vidi in metro per ben due volte. Lo incrociai al cinema. Lo notai mentre consegnava delle fotografie per un concorso organizzato da Cosmopolitan, cosa che ovviamente doveva fare mentre io prendevo coraggio per propormi come giornalista per una nuova rubrica sull'arte contemporanea. Che faccia tosta, eh? L'incontro peggiore fu da Pierre Hermé, la mia pasticceria preferita, che tutti quanti sanno essere parte integrante del mio territorio. Stavo sbranando un croissant alla crema, così mi nascosi sotto il tavolino per non farmi beccare. E poi dicono che Parigi è una metropoli.
Secondo Marie il suo era un pedinamento. Io ne dubito, ma non si sa mai. Preferisco pensare che mi seguisse perché la mia bellezza era inequivocabile e non perché il destino ce l'aveva con me.
Da un lato avrei dato via un braccio per rivederlo. Ogni volta mi bastava intravedere anche solo un pezzetto di lui per sentirmi meglio, come se avessi appena preso la Magica Pillola della Felicità. Ricordo che, proprio da Pierre Hermé, dopo essermi buttata sotto il tavolo tra le gambe di Jacques, riuscii a scorgere solo le sue Converse e i jeans a sigaretta, ma mi bastò per sentirmi più leggera.
D'altra parte avevo una voglia terribile di cambiargli i connotati a furia di cinghiate. Mettiamo in chiaro le cose: a Parigi ero arrivata per prima. Se fosse stato un bravo ragazzo avrebbe fatto i bagagli e se ne sarebbe tornato nel suo United Kingdom.
Razionalmente pensavo che, se le cose tra noi erano ancora irrisolte, occorreva chiudere la questione in amicizia – o almeno con umana cortesia. Forse, se ci fossimo detti addio nel modo migliore, sarei riuscita ad andare oltre. Ma non ero certa che avrebbe funzionato.
Poi, verso la fine di agosto, conobbi un ragazzo: si chiamava Luc Mathieu Perrin e faceva il bibliotecario in un vicolo senza uscita nel Quartiere Latino. Era moro, con un po' di barba, troppo basso forse. Vestiva casual, ma con stile. E aveva gli occhiali, il che era singolarmente sexy. Praticamente era una versione quattrocchi di George Addison, ma mi andava bene lo stesso, non si può avere tutto, no?
Passammo un mese molto bohemien, fatto di serate jazz, arte e letteratura, sesso passionale e litigate furenti, veramente poetiche, proprio come in un film: faceva molto Folies Bergère; poi io mi stancai di lui e lui si stancò di me. Fine. Ciao ciao, Luc. À bientôt.
Infine il temuto settembre avanzò verso di noi con passi pesanti. Portò una ventata di piacevole aria fresca, insieme ad un pacco di libri spediti da mia madre per tenermi compagnia e all'operazione di imballaggio delle cose di Marie. Bette ed io fornimmo la manovalanza, la mia amica pagò da bere.
E alla fine l'ultima sera ce ne stavamo nel suo appartamento vuoto, soltanto lei ed io. Non era rimasto molto, solamente due sedie e una poltrona, una lampadina che pendeva dal soffitto e i pensili della cucina. Tutto il resto era stato venduto o spedito o regalato. Le nostre voci rimbombavano e c'era il segno dei quadri alle pareti. E due ragazze, con indosso bei vestiti e scarpe costose indossate al solo scopo di starsene sedute sul parquet fresco, in attesa di un'alba che speravo non venisse mai.
«Allora», disse Marie portandosi alle labbra il vino nel bicchiere usa e getta, «ecco qua il mio piano».
«Sentiamo».
«Io arriverò a Londra domani», spiegò annuendo. «E inizierò la mia vita britannica da tipica outsider».
«Outsider, mi piace».
«E un giorno, durante una normale giornata faticosa ma appagante», continuò con voce sognante, «il principe Henry verrà a visitare il British. Io, naturalmente, fingerò di non sapere chi sia per rispettare il suo desiderio di mescolarsi alla plebe».
Ridacchiai, soffiando nel bicchiere. «Oh, certo».
«E lui verrà da me ogni giorno, fingendosi un altro, ed io ogni giorno lo accompagnerò in una visita del museo». Marie sospirò teatralmente. «Fin quando, in una mattina come le altre... No, un pomeriggio».
«Un pomeriggio piovoso», aggiunsi io.
Lei schioccò le dita. «Giusto, piovoso! Molto romantico. In un pomeriggio piovoso lui mi prenderà tra le braccia e, dopo avermi rivelato la sua vera identità, mi bacerà come Omar Sharif bacia Julie Christie in Il dottor Zivago».
Riflettei per un istante. «Non so quanto ne sarebbe felice la regina, ma contenta tu», commentai bevendo un altro sorso. «Non credevo che Henry fosse il tuo tipo».
«Scherzi? Ho visto le sue foto senza veli e credimi se ti dico che nessuna donna direbbe di no».
Risi forte e con me rise anche lei, fino alle lacrime, accasciate sul pavimento, appoggiate al muro sotto la finestra, mentre fuori la notte di Parigi scorreva veloce e ineluttabile. La luce della lampadina ebbe un fremito.
«Wow», mormorai.
«Cosa?».
«Non posso credere che tu te ne stia andando», risposi. «Insomma, lo sapevo. Ma non credevo sarebbe mai arrivato questo momento».
Marie non rispose immediatamente. Il silenzio mi fece quasi male. «Nemmeno io», ammise alla fine.
Appoggiai il capo sulla sua spalla e lei mi prese la mano nella sua. «Mi mancheranno le tue tette rassicuranti».
Con un risolino, lei cinguettò: «Dovrai cavartela senza di loro».
«È buffo», dissi tirando su col naso. «La gente sogna di iniziare la sua vita a Parigi. C'è chi vuole le boutiques, chi vuole i café pieni di poeti, chi cerca il vero amore sul ponte Alessandro III. Ma alla fine tutti vogliono Parigi».
La sentii annuire contro la mia testa. «Ed io sto per lasciarla», sospirò. «Ma anche Londra ha il suo fascino, no? Ho trovato un appartamento vicino al Borough Market, ti piacerà molto quando verrai a trovarmi».
Mi raddrizzai per versarmi altro vino, approvando con lo sguardo. «Vedi, questo è positivo. A Londra non spenderò un soldo per l'albergo quando verrò da te». Riempii il suo bicchiere e improvvisammo un piccolo brindisi. «Qualche rimpianto?».
«Jeannot», rispose a colpo sicuro. «Lo rimpiangerò in ogni momento». Tacque, fissando un punto sulla parete di fronte. «Ma ho fatto la scelta migliore, ne sono più che certa».

***

Marie prese un volo per Heathrow di buon'ora la mattina dopo. Vennero a prenderla i suoi genitori, mentre una cugina avrebbe volato con lei per aiutarla a disfare gli scatoloni una volta che fossero arrivati.
Io non riuscii ad andare con loro fino all'aeroporto Charles de Gaulle. Non me la sentii e basta. Lei capì: credo anzi che abbia preferito salutami sul nostro pianerottolo, che aveva un'aria più familiare rispetto ad un ponte d'imbarco.
All'inizio le giornate mi sembrarono abbastanza spente: Manuel e Jacques passavano parecchio tempo ad organizzare il loro Cannabis Europe Tour, volevano partire il prima possibile spendendo il minimo sindacale, così stavano spesso per conto loro. Bette abitava dall'altra parte della città. Il proprietario dell'appartamento di Marie iniziò a far vedere la casa ad altri affittuari. Nel giro di un paio di settimane lo aveva fermato una signora venuta in città per stare più vicina al figlio e alla nuora.
La cosa che mi impressionò di più di quei giorni fu il silenzio. Silenzio in ascensore e lungo la tromba delle scale, silenzio sul pianerottolo, silenzio in casa. Silenzio al lavoro perché Bette era in malattia. Silenzio dentro di me perché George non c'era.
Perfino Parigi era silenziosa. Con l'avvicinarsi dell'autunno c'erano foglie dorate dappertutto e per la strada non c'era più nessuno. I turisti erano scomparsi, i ragazzini erano di nuovo a scuola. C'erano gruppetti di anziani nei parchi, troupe per servizi fotografici nelle vie principali e molti nuovi arrivati, pronti per iniziare la loro nuova vita nella città delle promesse.
Eppure le strade erano stranamente deserte. Parigi aveva perduto la magia e si era spenta.
A me restavano gli incontri casuali con George e con nuovi, misteriosi sconosciuti.

   
 
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