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Autore: Adeia Di Elferas    29/09/2015    4 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il dolce vento d'Aprile aveva riempito l'aria di Milano di profumi. Il sole era ancora pallido, ma ormai una nuova primavera si stava aprendo davanti agli occhi di Caterina.
 La sua partenza era fissata per il giorno seguente, il ventisei del mese, e ormai tutti i suoi effetti personali erano stati sistemati per il viaggio.
 Non avrebbe portato con sé armi, aveva deciso, se non il pugnale che portava sotto le vesti. Si sarebbe fatta preparare una spada e forse anche un'armatura solo quando sarebbe arrivata a Imola.
 Quell'ultimo giorno a casa, Caterina lo stava passando salutando tutti quelli che – probabilmente – non avrebbe più rivisto per molto tempo o forse per sempre.
 Era passata dai soldati, che le avevano riservato un addio degno di un capitano valoroso. Addirittura qualcuno di loro, in particolare quelli che la conoscevano da più tempo, si erano commossi ed erano rimasti senza parole.
 Vedere uomini grandi e grossi sciogliersi in lacrime per lei era stata una cosa che le aveva scaldato il cuore e che le aveva dato una sicurezza che non sperava di trovare.
 Dopo ciò, anche se il giorno seguente li avrebbe comunque risalutati, si era presa il tempo di dire addio a ciascuno dei fratelli, nessuno escluso.
 Con ciascuno di loro aveva qualcosa di particolare da dire e condividere, tuttavia non sentì il cuore stringersi come quando, invece, si trovò di fronte sua madre Lucrezia.
 Era stato deciso che la donna non sarebbe stata presente alla partenza della figlia, per cui entrambe sapevano che quello era per loro l'ultimo momento per stare insieme.
 Si strinsero l'una all'altra per molto tempo, senza bisogno di parlare. Tutte e due stavano ripensando ai momenti felici che avevano vissuto assieme alla corte di Milano e quei ricordi rendevano ancora più difficile la separazione.
 Alla fine, Lucrezia allontanò un momento da sé la figlia e i suoi occhi chiari si specchiarono in quelli incredibilmente ramati di Caterina.
 La donna le accarezzò con dolcezza la guancia e le sistemò una ciocca ribelle di capelli dorati dietro l'orecchio: “Sono certa che ci rivedremo, Caterina.”
 La ragazzina abbassò lo sguardo e aprì la bocca, cominciando a scuotere la testa. Voleva dirle che non ne era così sicura, che forse non si sarebbero riviste più, ma Lucrezia la zittì prima ancora che potesse parlare: l'abbracciò di nuovo e le sussurrò: “Sono davvero certa che ci rivedremo.”
 Caterina, allora, si lasciò cullare un momento dalle braccia lunghe e snelle di sua madre, che la coccolava come fosse una neonata.
 Il tempo passò più veloce del previsto e quando dovettero lasciarsi una volta per tutte, si tennero strette ancora un po', e poi si allontanarono.
 Caterina stava già per lasciare la stanza in cui erano rimaste tutto il pomeriggio, quando la madre le afferrò con urgenza il polso, fermandola per dire: “Ricordati sempre chi sei, Caterina, non chi ti hanno fatta diventare. Sei una Sforza e la sarai sempre.”
 La ragazzina poggiò la mano su quella della madre, invitandola a sciogliere la presa: “Me lo ricordo, non temere.”
 Detto ciò, le due si lanciarono un ultimo sguardo malinconico e si dissero un 'a presto' che aveva il sapore di un addio.

 Con Bona, l'addio arrivò a tarda notte.
 Caterina non riusciva a dormire e nemmeno a stare coricata, perciò misurava a grandi passi la sua stanza, ormai spoglia, chiedendosi che ne sarebbe stato di lei nei giorni che l'aspettavano.
 Quando sentì bussare alla porta, quasi sussultò, perchè a quell'ora non si aspettava di certo visite.
 “Chi è?” chiese, avvicinandosi all'uscio.
 Rispose la voce di Bona, che incerta disse: “Sono io... Non volevo disturbarti, ma ho pensato che magari ti avrei trovata ancora sveglia...”
 Allora Caterina aprì e la lasciò entrare immediatamente.
 La camera era illuminata solo da una candela e dalle braci che si stavano spegnendo nel camino, quindi le due non riuscivano a vedersi molto bene l'un l'altra.
 Caterina la fece accomodare sul letto e poi si sedette al suo fianco. Come con Lucrezia, ci volle un po' prima che una delle due si decidesse a parlare.
 “Non avrei voluto vederti partire.” disse Bona, mesta, le mani strette in grembo: “Da sempre ti ho amata come una figlia, lo sai.”
 “E io ho amato voi come una madre.” rispose subito Caterina, cercando con tutta se stessa di non cedere alle lacrime che volevano fare la loro comparsa.
 “So che riuscirai a cavartela.” riprese Bona, ancora più triste: “E so anche che ormai per te è meglio partire.”
 Caterina si accigliò. Non le piaceva il tono che sua madre aveva usato... Era come se nascondesse qualche terribile presagio.
 “Qualcosa non va?” chiese la ragazzina, prendendo tra le proprie le mani strette a pugno della madre.
 Bona sospirò, scuotendo il capo, ma poi cedette: “Temo tuo zio Ludovico e con lui tutti i suoi fratelli, a parte Filippo. Ottaviano e Sforza Maria vogliono scagliarmi contro un esercito e sempre più spesso temo di trovare tuo fratello Gian Galeazzo morto per qualche motivo assurdo...”
 Caterina avrebbe voluto calmarla e rassicurarla, ma non sapeva cosa dirle, visto che condivideva le sue stesse paure.
 “Quindi...” fece Bona, schierendosi la voce: “Prima lascerai Milano, prima sarai lontana dai tuoi zii. Io farò del mio meglio per proteggere i tuoi fratelli, ma tu devi promettermi di fare del tuo meglio per rendere tuo marito un grande uomo.”
 Caterina non capiva cosa intendesse dire sua madre con quella frase. Non ebbe bisogno di porre domande, perchè Bona già sapeva che la figlia non avrebbe subito colto il senso della sua raccomandazione.
 Così la donna fece un lungo sospiro e poi spiegò: “Ricordati questo, figlia mia: da domani il tuo destino dipenderà da quello di tuo marito. Se lui dovesse cadere in disgrazia, tu lo seguirai. Se lui diventerà potente, lo diventerai anche tu. Cerca di avere figli, così la tua posizione sarà più sicura.”
 Caterina la guardò un momento, cercando negli occhi di Bona, illuminati dalla fiammella tremolante della candela, qualcosa che rispondesse a un dubbio che le era appena sorto, ovvero: era così che la donna aveva ragionato quando aveva sposato Galeazzo Maria Sforza?
 Ancora una volta, Bona parve leggerle nella mente: “Io amavo tuo padre, come non avevo mai amato nessuno. So che per te sarà difficile provare dei sentimenti simili per tuo marito, ma... Anche se non lo ami, fa sì che tutti lo pensino. Dimostrati rispettosa e amorevole con lui, almeno quando siete in pubblico. Davanti a testimoni, non contraddirlo apertamente. Sii sempre attenta e informata circa gli affari di stato e le decisioni di tuo marito e aiutalo ogni volta che puoi, perchè se lui sarà al sicuro, allora lo sarai anche tu. Accetta di buon grado la sua presenza quando necessario e tenta di supplire a ogni sua mancanza.”
 Caterina ascoltò quelle parole in religioso silenzio, scolpendosele nella mente. Avrebbe di certo fatto del suo meglio per seguire i consigli che Bona le stava dando quella notte.
 Rimasero insieme ancora un po' di tempo, ma stavolta parlarono di cose amene, ricordando gli anni passati ed evitando discorsi troppo impegnativi.
 Quando Bona lasciò la stanza di Caterina, la ragazzina riuscì finalmente a prendere sonno.

 Quella mattina la corte era schierata nella piazza d'armi, per augurare un buon viaggio a Caterina.
 Bona di Savoia e i figli si erano appostati alle finestre, per essere ben visibili da tutti. Caterina era in sella a un giovane purosangue che sembrava impaziente di partire alla ventura.
 Con lei partivano una piccola schiera di guardie e di dame di compagnia, che avrebbero dovuto cogliere l'occasione del viaggio per darle le ultime istruzioni su come avrebbe dovuto comportarsi una volta in presenza del marito.
 Nella piazza d'armi erano le corazze e le spade a farla da padrone. Tutti i soldati stanziati al palazzo di Porta Giovia si erano messi in fila per salutare una volta di più la figlia del compianto Duca di Milano.
 Dopo un saluto molto formale, alcuni di loro ruppero le file, suscitando un certo sconcerto tra i nobili che assistevano alla scena.
 I soldati si avvicinarono in piccoli gruppi a Caterina, che, dall'alto della sua cavalcatura, si sporgeva per stringere mani e dare piccole pacche sulle spalle.
 Quelli che non riuscirono ad avvicinarsi per via della confusione causata dai commilitoni più intraprendenti, cominciarono a battere le armi contro gli scudi e i piedi a terra, tutti allo stesso ritmo, come se stessero festeggiando un generale particolarmente ardito e valoroso.
 Caterina non riusciva più a trattenere la commozione per una simile manifestazione d'affetto, quindi sperava in una pronta partenza della comitiva.
 Per fortuna venne dato l'ordine di partire e così lei potè alzare la mano in segno di ultimo addio e girare il cavallo, spronandolo per stare al passo con gli altri.
 Lasciò il palazzo di Porta Giovia senza più voltarsi indietro, senza più salutare i soldati che ancora facevano rumore con tutto il ferro che indossavano, senza più uno sguardo ai fratelli e alla madre adottiva.
 E quando fu a parecchi metri dal portone d'ingresso, mentre alcuni milanesi si affollavano attorno al corteo che la scortava, tra le urla della gente e gli applausi, ancora sentiva il battere ritmico delle alabarde e delle spade sbattute contro gli scudi e il suo cuore s'infiammò come non mai, perchè sapeva che laddove avesse trovato degli onorevoli uomini d'arme, là avrebbe avuto una famiglia di cui fidarsi.
 

   
 
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