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Autore: AAVV    03/10/2015    1 recensioni
Sebastian e Cecilia sono una coppia come tante. Lui è un aspirante musicista in cerca della canzone che lo porterà al successo, lei un'insegnante di sostegno alle elementari e pittrice per passione. Nonostante i problemi economi e il loro diverso carattere, l'amore che li unisce è più forte e riescono a superare ogni avversità.
Ma, un giorno, il mondo di Sebastian crolla quando, dopo un colloquio di lavoro, al suo rientro a casa Cecilia non c'è. Al suo posto, una lettera in cui vi è scritta una strana poesia. Cecilia è stata rapita da un uomo che firma le proprie lettere con il nome Ade.
E mentre Sebastian cerca disperatamente la sua amata, pian piano, Cecilia conosce il suo rapitore, Khalid, e tra i due comincia a instaurarsi un insolito legame.
Sei sicuro di conoscere le persone che ami?
Una storia in cui nulla è come sembra, in cui il confine tra amore e ossessione è molto sottile. Non vi fermerete più ad una prima impressione...
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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CAPITOLO 8. Se mi stendessi qui ti stenderesti con me e dimenticheresti il mondo?
 
 
 
La bambina tende una mano.
Sul cranio, simile a una spaccatura del terreno, l’impronta lasciata da un’ascia. Gli porge qualcosa di rosso, di un colore molto simile al sangue che doveva essere fuoriuscito dalla ferita. È un miracolo che sia ancora viva, se di miracolo si possa parlare. Quale Dio avrebbe mai permesso ad un uomo, creato a Sua immagine e somiglianza, di sfigurare a quel modo una bambina di appena sette anni?
Quale Dio avrebbe mai fatto in modo che la bambina sopravvivesse a quella tortura e portasse per tutta la vita i segni della violenza?
Mentre Khalid la guarda, guarda quel pezzo di stoffa, pensa che i miracoli, su questo mondo, non possano esistere. Che la bambina che gli sta rivolgendo la parola non sia la prova tangibile della bontà di un Dio, ma il frutto della Sua distruzione. Per quante belle parole siano state sprecate per vittime come lei, quella bambina non verrà mai completamente accettata nella società. Non conoscerà mai un uomo in grado di guardare oltre a quell’enorme squarcio sulla sommità della sua testa, non proverà il piacere di condividere il letto con un rappresentate dell’altro sesso. Gli altri la guarderanno tra la sorpresa e la compassione, desiderosi solo di dimenticare la sua immagine il prima possibile.
Sta pensando a tutto questo quando lei apre bocca. Gli dice qualcosa che lui non capisce, non conosce la sua lingua. La sua carnagione deve averla tratta in inganno, ha riconosciuto in lui un suo compatriota, ma Khalid non ha nulla a che fare con quella terra.
Lui non può saperlo, ma gli sta dicendo che, una volta, teneva sempre quel nastro rosso tra i capelli, prima che le fosse imposto il burqa e arrivassero gli uomini con l’ascia. Adesso non ha più bisogno di quel velo perché i capelli sono corti corti e tra poco li taglierà, dice, e mentre lo dice sorride, come se stesse raccontando di quella volta in cui aveva vinto alla gara degli aquiloni.
Khalid non dice nulla, resta in silenzio.  
L’uomo dormiente aspetta che se stesso nel sogno dica qualcosa, ma non lo fa, e il sogno si conclude così.
Non vi furono grida nella notte al suo risveglia, semplicemente si svegliò aprendo gli occhi. A fargli compagnia, il silenzio di quelle inutili parole non dette.
 
Grazia aveva il viso rosso quando entrarono nell’appartamento. Era un dettaglio che, ad un primo momento, era sfuggito a Sebastian (principalmente perché aveva evitato fin da subito di guardarla negli occhi), ma adesso non poteva sfuggire a quello sguardo.
«Così, siamo qui» sospirò la donna, la parte di pelle sotto il mento che andava sempre di più a gonfiarsi.
A Sebastian parve non vi fosse affermazione migliore. Come se, un dopo continuo girovagare, il destino avesse voluto portarli lì a tutti i costi.
«Già, siamo qui.»
Grazia non aveva pianto quando se lo era ritrovato di fronte. Non aveva pianto in macchina, durante il viaggio di ritorno assieme all’agente Di Francesco. Nessuna lacrima aveva percorso le sue guance quando il commissario Poletti le aveva spiegato la situazione, senza tuttavia esporle ulteriori chiarimenti.
Era rimasta impassibile per tutto il tempo. Sebastian si chiese da quanto tempo il suo viso avesse assunto quel colore purpureo. Se quella fosse l’unico segno di smarrimento che la consumava dall’interno.
Rimasero a lungo senza rivolgersi la parola, senza alzare lo sguardo. Poi, una voce fuoriuscì dal nulla, da qualche remoto luogo nella gola della donna. «Devo andare in bagno.»
Sebastian le indicò la direzione con una mano, nonostante Grazia si stesse già dirigendo da quella parte. Sentì i suoi passi percorrere la distanza fino alla porta del bagno e il chiudersi di quest’ultima. Attese i secondi prima di sentire un soffocare sommesso, il lieve rumore delle lacrime in uscita.
Restò in quella posizione a lungo, in piedi nel mezzo del salotto, dondolandosi sui talloni, mentre un rubinetto veniva aperto. L’acqua scorreva lenta e cristallina, finché non scrosciò in piena. Piccole gocce schizzavano sul lavandino, quando...
 
...quando lui aveva infilato una mano sotto il getto.
Cecilia, sdraiata su un fianco, il freddo pavimento sotto di sé, emetteva deboli respiri, la testa contro la parete. Rannicchiata su se stessa, sembrava più minuta che mai.
Sebastian aveva chiuso l’acqua e si inginocchiò di fronte a lei, che guardava dalla sua parte senza però vederlo realmente. Aveva appoggiato il palmo della mano sulla guancia sinistra di Cecilia, sentendola fredda.
A volte accadeva.
Accadeva che si chiudesse in bagno e si sdraiasse sul pavimento. Accadeva che qualcosa le ricordasse la vicenda del padre e, a volte, la sua reazione era quella.
Rimaneva lì sdraiata anche per un’ora intera finché non si decideva ad accettare la sua mano e alzarsi in piedi. Di solito, Sebastian doveva insistere un po’.
Quella volta, tuttavia, non lo fece.
Non le aveva pronunciato nessuna parola confortevole, nessuna supplica uscì dalla sua bocca. Aveva imparato che lei non aveva bisogno di questo.
Cecilia soffriva della sindrome dell’abbandono, sindrome che da quella mattina di più dieci anni prima non se ne era più andata. Aveva bisogno che qualcuno le stesse vicino, senza pretendere che proferisse parola, senza forzarla a fare qualcosa che non voleva fare.
Così, Sebastian si era sdraiato accanto a lei, viso contro viso, occhi contro occhi. E mentre guardava le iridi smeraldi di lei riempirsi di lacrime aveva capito che avrebbe potuto restare disteso in quel luogo tutta la vita, se solo avesse avuto la certezza che lei avrebbe accettato il suo aiuto per sempre.
 
Grazia uscì dal bagno e il ricordo si dissolse con la sua comparsa nella stanza. Come Cecilia sdraiata su quel duro pavimento, anche lei aveva pianto. Così come aveva pianto quattordici anni prima al suicidio del marito.
«Scusami» fece lei, asciugandosi l’angolo dell’occhio con la mano. Rovistò nella borsa che teneva stretta alla spalla in cerca del pacco di fazzoletti. Li trovò quasi subito e, voltandosi dall’altra parte, si soffiò il naso. Quindi, andò a sedersi sulla poltrona, indugiando qualche secondo prima di appoggiare il sedere, come se così facendo stesse commettendo qualche torto nei confronti della figlia.
Sebastian rimase in piedi.
«Raccontami cosa è accaduto» disse la donna, guardandolo forse per la prima volta negli occhi.
Non si riferiva a ciò che era emerso nei giornali, né a quello che le aveva detto Poletti. Voleva un suo chiaro resoconto dei fatti, dall’inizio alla fine.
Con non poca fatica, Sebastian la accontentò.
 
La poesia era stata scritta su un raro esemplare di macchina da scrivere, uno dei pochissimi rimasti in circolazione. Di Francesco non ne ricordava il nome, ma ne aveva vista un’immagine.
Non che fosse un esperto in materia, ma in vita sua non aveva mai avuto modo di osservare un modello vecchio come quello. O almeno, gli era sembrato vecchio.
«Come ti è sembrata?»
Di Francesco alzò gli occhi incontrando lo sguardo del suo capo. Nello stesso attimo, Poletti sputò dai polmoni una grossa quantità di fumo. «La madre della donna? Sincera. Piuttosto scossa, non ha fatto grandi scenate. Pulita, se è questo che intendevi.»
Poletti annuì. «Adesso che la madre è venuta qui, speriamo che non trapeli la notizia del suicidio della ragazza tra i media.»
«Sarebbe davvero inopportuno.»
Un’altra nube di fumo uscì dalla bocca del commissario. «I giornalisti campano con storie del genere. Ti immagini le storie che uscirebbero fuori? Donna finge il proprio rapimento e segue le orme del padre?»
Di Francesco non commentò e il silenzio cadde nell’ufficio. Gli argomenti di cui discutere si erano esauriti.
Nessuna novità dalla scientifica, nessuna traccia di prove nell’appartamento o sul pezzo di foglio.
Nessuna idea su chi potesse essere il presunto Ade.
A questo punto, un segno divino sarebbe parsa l’unica possibilità.
Il rumore delle nocche sulla porta dell’ufficio fece trasalire entrambi i due uomini. «Avanti» fece Poletti, e al suo comando entrò una giovane poliziotta in divisa.
«Signor commissario...» La poliziotta si interruppe improvvisamente, come se non trovasse più la voce per parlare.
«Sì?» la incalzò a proseguire Poletti.
«Signore, è arrivato un pacco per lei» sputò il rospo alla fine. «Si tratta di un’altra lettera.»

*Titolo tratto dal testo Chasing Cars, Snow Patrol

 
   
 
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