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Autore: Adeia Di Elferas    03/10/2015    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Caterina Sforza e il suo seguito si mossero a una velocità più che discreta per tutto il viaggio. Ci fu comunque tempo per molte chiacchiere, cosa che infastidì non poco Caterina, che avrebbe preferito una compagnia meno loquace e più rapida.
 Per quanto temesse quello che avrebbe trovato una volta a Roma, era impaziente di vedere Imola e conoscerne le abitudini e i costumi. Certo, aveva anche paura di non essere accettata dalla sua nuova gente. Poteva benissimo essere che gli abitanti di Imola non la volessero come signora, dimostrandosi ostili fin da subito...
 Non fecero molte soste, ma ogni volta che trovavano ospitalità, anche se per poco, Caterina preferiva stare da sola, sottraendosi, almeno per qualche momento, all'assillante chiacchiericcio delle dame di compagnia.
 Il primo maggio partirono da Bologna al mattimo presto e già nel primissimo pomeriggio arrivarono alle porte di Imola.
 Caterina non era riuscita a farsi un'idea dell'accoglienza che avrebbe ricevuto e quello che trovò esulava anche dalle sue più rosee aspettative.
 Malgrado il sole fosse già molto caldo, malgrado non fosse ancora piena estate, moltissime persone l'aspettavano trepidanti e pieni di aspettativa. Certi, le venne detto in seguito, erano lì dall'alba, nella speranza di essere i primi a vederla.
 Molti di loro applaudivano, tantissimi gridavano il suo nome e non pochi si sporgevano, cercando di avvicinarsi a lei il più possibile.
 Nemmeno nella sua Milano, dove bene o male era conosciuta, le avevano mai riservato tanto entusiasmo e calore. Quei cittadini ancora non sapevano nulla di lei, eppure le stavano dimostrando un affetto che le fece passare tutta la paura provata nelle lunghe ore di viaggio.
 La città era stata riempita di ghirlande e decorazioni con lo stemma e i colori dei Riario e Degli Sforza. Caterina tentò di concentrarsi solo su questi ultimi, per non ricordarsi troppo spesso dell'esistenza del marito.
 Mentre si addentravano nella città, petali di fiori venivano sparsi al loro passaggio, cosicché gli zoccoli dei cavalli facevano uno strano rumore attutito e il profumo della primavera risultava amplificato e magnificato.
 Caterina non ebbe più nemmeno un momento per pensare alla propria condizione. Tutto era colorato, allegro e festoso.
 L'accoglienza di Imola culminò con una grande festa serale, con una cena a molte portate e balli e canti fino quasi all'alba.
 Una volta sola nella sua nuova stanza, Caterina ripensò alla giornata appena trascorsa e si chiese se non fosse davvero quello, il suo destino. Essere la signora di Imola, amata dai suoi cittadini e con il marito a Roma a curarsi degli affari del papa. Per le sarebbe stato perfetto.
 Dopo pochissime ore di sonno, Caterina si svegliò ancora entusiasta dell'accoglienza Imolese. Si vestì di tutto punto e si mise sul volto anche un paio di creme speciali di sua invenzione, per apparire più riposata e distesa. Voleva mostrarsi al meglio ai suoi nuovi cittadini.
 Andò alla messa, sorridendo a tutti quelli che incontrava e poi si fece un giro per la città.
 Vedere la nuova signora di Imola vagare da sola, senza scorta e apparentemente senza alcuna paura, tra loro, infuse negli Imolesi un sentimento di totale e profonda fiducia in lei.
 I Manfredi, i vecchi signori della città, non avevano mai osato mescolarsi alla plebe di loro spontanea volontà. E, se erano costretti, si portavano dietro almeno una decina di guardie armate fino ai denti.
 Vedere Caterina Sforza, una ragazza di appena quattordici anni, i dorati capelli al vento e il sorriso sulle labbra, camminare tranquilla tra le bancarelle, parlando del più e del meno con chi capitava era un qualcosa decisamente fuori dall'ordinario per tutti loro.
 A Caterina quella città parve molto piccola. Milano, a confronto, era un mondo intero, mentre Imola solo una piccola isola felice, piena di gente sorridente e disponibile.
 Ovviamente quelli con cui la ragazza aveva guardato la città erano gli occhi dell'amore, perchè come tutti i posti, anche a Imola c'erano problemi e inquietudini.
 Tuttavia, quel primo incontro tra Imola e Caterina segnò l'inizio della sua fortuna presso i suoi nuovi cittadini e, sperava la giovane, avrebbe dato una mano anche a suo marito, che ancora non accennava a voler conoscere la città di cui era signore e padrone.
 
 “Per quanto mi farebbe piacere vedere e conoscere meglio la tua giovane sposa, credo sia più prudente per noi farla restare a Imola ancora qualche tempo, almeno fino all'autunno...” stava dicendo il papa, mangiando pigramente qualche pezzo di pane nero: “Questo caldo improvviso ha scatenato il colera qua attorno e potrebbe farlo arrivare anche qui in città. Meglio tenerla lontana fino a che l'epidemia sarà finita.”
 Girolamo ascoltava suo zio con un'espressione annoiata, come se non gliene potesse importare di meno del colera e di sua moglie.
 “Se Caterina Sforza dovesse ammalarsi, Dio solo sa quali chiacchiere andremmo ad alimentare, viste tutte le congetture che si stanno ancora facendo attorno alla morte del Duca suo padre... Sarebbero capaci di pensare che io, il papa, ho fatto in modo, non chiedermi come, di far arrivare il colera a Roma solo per uccidere la cara Caterina!” rise il papa, quasi strozzandosi con il suo spuntino.
 Girolamo attese con pazienza che lo zio smettesse di tossicchiare, poi disse, secco: “Manderò una lettera appena riesco. Che resti pure a Imola quanto vuole, non sono così impaziente di vederla.”
 Il papa si accigliò, sistemandosi lo zuccotto in testa: “Perchè parli così? Hai forse dimenticato quello che vado ripetendoti quasi ogni giorno?”
 “No, non lo dimentico, zio.” sospirò Girolamo: “Solo che più ci penso, più ritengo impossibile riuscire a farla innamorare di me.”
 Sisto IV appoggiò sul tavolo il pezzo di pane che stava per inglobare e si fece serio: “Tanto per cominciare, potresti andare a Imola anche tu. Potresti passare con lei l'estate. Aiutarla a conoscere la città, a capire come si governa. Avreste del tempo per affiatarvi.”
 Girolamo accavallò le gambe con fare arrogante e con una smorfia disse: “Avremo già fin troppo tempo per 'affiatarci' quando arriverà a Roma. Io a Imola non ci vado.”
 Il papa lo scrutò per un lunghissimo minuto e alla fine capì qual era il problema vero.
 “Dannazione a te e al tuo sangue d'asino d'un Riario!” sbottò Sisto IV, scattando in piedi: “Tutte storie, quelle che dici! Tu hai paura! Di Imola, della tua carica e anche di tua moglie!”
 Girolamo deglutì rumorosamente, il pomo d'Adamo che saliva e scendeva nervosamente nel collo lungo.
 “Sparisci dalla mia vista, caprone d'un Riario, prima che perda davvero le staffe!” fece il papa, indicandogli la porta con l'indice: “Ringrazia Dio per il colera che ha portato a Roma, così avrai qualche mese in più per mettere a posto la testa! Quando Caterina Sforza sarà qui, dovrà trovare un uomo, non un moccioso che se la fa addosso al pensiero di incontrare una ragazzina di quattordici anni!”
 Girolamo era scattato in piedi e aveva preso a correre tanto in fretta che non aveva nemmeno sentito la fine dell'ultima frase.
 Rimasto solo, il papa si rimise a sedere. Si passò le mani sul viso e si domandò che ne sarebbe stato di suo nipote, quando lui fosse morto.
 Meglio non pensarci.
 Chissà, forse Caterina Sforza sarebbe stata la chiave di volta e grazie a lei il papa avrebbe finalmente potuto contare sul nipote.
 Senza attendere oltre, immaginando che il nipote già si fosse dimenticato della missiva urgente da mandare alla moglie, fece chiamare uno scrivano e dettò il messaggio che avrebbe dovuto dettare Girolamo.
 
 Quando il messaggero papale arrivò a Imola, Caterina Sforza e il suo seguito erano ripartiti relativamente da poco.
 Dopo nemmeno due settimane di sosta a Imola, il tredici di Maggio avevano rifatto i bagagli e si erano messi in marcia per raggiungere Girolamo Riario e il papa suo zio.
 Erano ormai per strada da otto giorni e il loro arrivo era previsto per il giorno seguente. Caterina sapeva che suo marito li avrebbe attesi qualche miglio fuori dalla città, per evitare l'eventuale folla che avrebbe reso meno intimo il loro incontro.
 Per quello che le riguardava, Caterina avrebbe preferito il bagno di folla, soprattutto dopo aver sperimentato l'entrata trionfale fatta a Imola.
 Durante il soggiorno a Imola, Caterina aveva avuto modo di cominciare a conoscere meglio non solo la geografia della città, ma anche i suoi abitanti e ne era rimasta affascinata.
 Nelle lettere che aveva scritto a Bona, Lucrezia e alla sorella Chiara, aveva parlato in tono entusiastico della città, sorvolando sulla tensione che aumentava man mano che si avvicinava il giorno della sua partenza per Roma.
 Aveva descritto loro ogni dettaglio degno di nota e si era sentita orgogliosa nel poter raccontare come la città l'avesse accolta bene al suo arrivo. Sì, era stata come stregata da Imola. Non vedeva l'ora di potervi tornare. Se solo avesse saputo che, ritardando pochi giorni, avrebbe ricevuto l'ordine di restare lì e di non raggiungere il marito a Roma...
 “Domani sarà un grande giorno, per vostra signoria.” disse una delle dame di corte, quella sera, sorridendole beata: “Finalmente incontrerete vostro marito e poi potrete celebrare davvero le nozze!”
 “Dicono sia un giovane bellissimo!” esclamò un'altra.
 “Un matrimonio per procura non è un vero matrimonio, finchè i due sposi non possono starsene un po' da soli!” ridacchiò una terza, dando di gomito alla sua vicina.
 Andarono avanti così per un po', dando la nausea a Caterina, che però non aveva il coraggio di farle smettere dicendo la verità, ossia che lei il marito lo conosceva già e anche troppo e che le loro nozze si erano già tenute più di quattro anni addietro.
 Si vergognava, all'idea di parlare di qualcosa di così personale con quelle oche starnazzanti. Non era una compagnia che faceva per lei.
 Quella notte, quando le dame di compagnia furono tutte sotto le coperte, Caterina uscì di nascosto dalla camere in cui era alloggiata e raggiunse i soldati che scortavano tutte loro verso Roma.
 Ne trovò qualcuno sveglio, intento a giocare a dadi di nascosto. All'inizio gli uomini si bloccarono e cercarono di chiedere scusa alla loro signora. In fondo erano di turno per fare da guardia a lei e al suo seguito e invece stavano perdendo tempo col gioco d'azzardo...
 Caterina ascoltò le loro scuse, seria, ma poi si aprì in un sorriso e chiese di potersi unire a loro.
 All'inizio solo un paio erano a favore, mentre gli altri si opposero, dicendo che non si trattava di un passatempo degno della signora di Imola. Caterina, però, sapeva come prenderli.
 Bastarono un paio di battutacce, qualche parola in gergo militare e una risata sguaiata qua e là e quegli uomini rudi e burberi l'accolsero tra loro e le permisero di giocare ai dadi fin quando il sole non spuntò all'orizzonte.
 
 
   
 
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