Il decimo
giorno
Il decimo giorno. [1]
Il
fanciullo senza nome si libera in parte dalla costrizione delle
fasce, agitando le gambe rosee. Kore segue la linea soffice di un
minuscolo tallone, quella morbida del calcagno, con la punta di un dito.
Stringe
il fardello caldo e palpitante contro il seno gonfio di latte, accosta
i petali grinzosi delle labbra affamate al capezzolo e sorride una
smorfia di pianto quando esse si chiudono, una morsa dolce attorno alla
carne sensibile.
« Piano, zagreo… » redarguisce senz’astio, solleticando la tenera pianta di un piedino nudo. [2]
« Un nome importante. » [3]
Non
lo ha sentito arrivare, ma Ecate, accucciata lì accanto, solleva
il muso canino dal suolo polveroso, orecchie sensibili di bestia tese.
La gola di Kore si chiude, strozza un verso di tormento ed estasi.
All’ombra della palma [4], la distesa placida del mare verde-blu
rumoreggia quieta come i loro respiri, il succhiare di Zagreo e il
tamburo del proprio cuore.
Zeus
posa lo sguardo di nuvola sul fanciullo che, irrispettoso, gli
preferisce la poppa; ma Zeus Olimpio non la prende a male: sotto la
barba, le labbra carnose si curvano ed egli sorride (sorride quando
è gentile, sorride quando è crudele). « Figlia mia
» la saluta, paterno, riempendo la distanza tra loro, baciandole
la fronte salata di salsedine e sudore. « Mia amata » e Kore si assaggia sulla bocca di lui, si succhia dalla sua lingua.
Ecate
si alza, guarda, va. Zeus prende il suo posto, contro il tronco, e la
sabbia fresca lo accoglie come il grembo di una madre; Kore, nel
lasciarsi abbracciare, è meno certa.
Senza
fretta, Zeus denuda del tutto il corpo del figlio dal lino delle fasce,
esplorandolo nei suoi anfratti col compiacimento negli occhi - quelli
di Kore, appresso, un’ombra: assieme, risalgono dai piedi alle
cosce paffute, il minuscolo fallo tra di esse (Zeus si abbandona a un
sorriso più largo); il profilo del torace, il braccio sollevato
perché un palmo minuto possa riposarle sul seno in un gesto di
possesso.
A
fatica Kore è capace di staccarsi da tanta perfetta simmetria;
ma le grandi mani di Zeus si allungano per accogliere il fanciullo tra
loro, senza riguardo per la creatura affamata che, in cambio caccia un
ruggito di protesta, graffiandole le orecchie.
«
Dioniso », [5] mormora Zeus, come basso è il mormorare
lontano dei fulmini quando spira aria di tempesta; ma è la
sorpresa che la coglie alla meraviglia nel tono, quasi non abbia altra
creatura al mondo, Zeus Keruranio [6], che possa chiamare frutto dei
suoi lombi.
(Fugace,
si domanda se una volta era lei, al sicuro nella coppa di quelle mani,
ancora calda del ventre di Demetra; se lei sia più che la copia
pallida di sua madre, il fantasma di carne di quel tempo passato.)
Il
sorriso si attenua, sul volto di lui. «Ma Zagreo sarà il
suo nome », decreta, e Kore assottiglia occhi e labbra,
perché non le sfugge la ragione, e sotto la maschera di pelle e
sale bianco, la prudenza soffoca a fatica l’urlo dell’ira.
Tace, complice in quel delitto, ma le dita pugnalano la sabbia umida e
scura, affondano come lame di daga.
« Le cime d’Acaia [7] gli faranno da culla, le sue bestie, da insegnanti. »
Non
la terra del padre [8]; l’Acaia. Foreste di selce e ossidiana per
celarlo dagli occhi di Era; un mare a strapparlo a sua madre. Kore
guarda suo figlio, i piedi nudi puntati contro le dita di Zeus, e
inizia a dire addio.
«
E di me che ne sarà? », chiede, quando è certa che
la voce non tremerà dal caldo e dal freddo che dentro la
scorticano. « C'è grotta abbastanza remota, quale luogo
abbastanza lontano dagli artigli di Era ? »
« A ciascuno di noi è richiesto un tributo, Fanciulla. ».
Fanciulla.
Persino pronunciando il suo nome egli mente, perché anche quello
gli ha offerto in sacrificio. Kore si alza a fatica, e per la prima
volta, una sola, lo sovrasta; e la vampa della collera si fa solo
più alta alla vista della creatura addormentata che egli si
stringe al petto.
« Mi domando quale sia il tuo, padre »,
sibila, poiché anche lei sa essere un serpente, e si sente
avvelenare, « Oltre a quello che ti sei scelto.» Se ha
provato mai compassione per Zeus, in passato, o per la moglie-prigione
che si era imposto, ora gliela augura, come si augurano le pestilenze.
Le
guance di lui si fanno porpora, e la imita scattando in piedi,
incombente su di lei quanto la montagna innevata da cui prende il nome.
«
Rinunciare a te, sciocca ragazza, è il mio prezzo da pagare.
» Il tuonare della voce pare nascergli dal ventre e rimbomba
nell’infinitesimale intervallo tra il rollare di un’onda e
l’altra. Lo sguardo di Kore corre a Zagreo – che
però pare troppo allettato dal sonno per lasciarsi tentare da un
brusco risveglio. Torna dunque a Zeus, e specchiano gli occhi
negli occhi, e il silenzio si gonfia tra loro come una vescica –
scoppia in una falcata rapida, in un bacio purulento che lascia icore e
amarezza sulle loro labbra.
«Ma
ciascuno di noi ha un posto, nell’ordine delle cose; è
tempo che tu reclami il tuo », [9] sussurra contro di esse, e
Kore lo detesta, questa creatura così imponente, così
mutevole, ora padre, ora amante, che pretende da lei che sia egualmente
cangiante.
Altrettanto fieramente, lo ama.
Gli addii sono muti; un’ultima volta li divora, padre e figlio, mentre assieme raggiungono il cocchio di Zeus, oro sul verde della macchia erbosa che scurisce sul biancore della sabbia.
«
Uno sposo verrà a reclamarti, in segreto. » La voce di
Zeus è un conato di bile, neppure un ordine, ma un fatto della
vita.
Kore
pensa a Demetra, che, in Trinacria [10], regge il gioco delle
apparenze. Se la figura, ansiosa che lei torni a presiedere con lei ai
riti, a correre tra le ninfe di Artemide, una qualunque al suo seguito;
a coglier fiori con Atena e la cara Ciane.
La
sua tenera madre, che non si rende conto che Kore è persa, ed
è sola a doversi ritrovare; che quanto i Cronidi sottraggono non
può esser restituito né sostituito.[11]
«
Attendi. Sarà cosa buona per tutti », continua Zeus, e se
vuol convincere di ciò anche se stesso, lo cela abilmente. Monta
agile sul cocchio, Zagreo al sicuro contro il petto imponente. Kore
è in più pezzi di quanti possa contare, e non
c’è replica giusta che non sia il silenzio.
Eppure, egli esita, si attarda. Stringe le redini, si imbianca le nocche.
« La vita attecchisce nelle terre più aride, e certi fiori sbocciano persino sulla sabbia. Così farai tu. »
Poi, con uno schiocco di briglie, le strappa via il cuore.
Più
tardi accanto a lei giunge Ecate, ancora una cagna nera come i tori di
Creta. Avvicina il muso, e Kore la cerca con le braccia vuote, che
disperatamente desiderano qualcosa da stringere nel loro cerchio
desolato. Helios dal mare punta l’occhio su di loro, accaldando
il suo corpo senza poter scioglierne il ghiaccio tra muscoli e pelle.
Inginocchiata
sulla sabbia bianca, Kore immerge il viso contro il collo di Ecate, e
all’odore muschiato di quanto ora non più è
pelliccia ma pelle, fonde il sale di sudore e lacrime.
NOTE:
[1]: Al decimo giorno dal parto, nell'Antica Grecia avveniva il riconoscimento del bambino da parte del padre.
[2]: Uno dei significati del nome Zagreo, letteralmente "a piedi nudi".
[3]: Il secondo significato del nome Zagreo, letteralmente "grande cacciatore".
[4]: Albero che protegge le partorienti e le giovani madri.
[5]: Letteralmente "figlio di Zeus".
[6] : Un attributo di Zeus.
[7]: Una regione prevalentemente montuosa del Peloponneso.
[8]: Una volta sfuggito a Crono, Zeus venne allevato a Creta.
[9]: Una vaga citazione da Mulan.
[10]: Antica denominazione della Sicilia derivata dalla forma triangolare dell'isola.
[11]: Intende, tra le altre cose, il rapimento di Leuce.