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Autore: WhiteWitch    05/10/2015    2 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
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Nda: Ciao, carucci. Come state? Spero che vada tutto bene, francamente questo rientro all'università mi sta già uccidendo (e sono solo alla seconda settimana). Beh, siamo già al capitolo 27: dopo questo, mancano il 28 e l'epilogo e poi addio, ciao mare. Beh, non voglio dilungarmi in tristaggini varie, voglio scoppiare di gioia con voi <3 Perciò leggetevi questo capitolo triste come un cucciolo abbandonato gioioso (?).
La storia è naturalmente anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 27.

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Il mio cappotto nuovo aveva le maniche a sbuffo ed era giallo limone. Mi sentivo molto bella nell'indossarlo e cominciai a metterlo piuttosto presto, quando non faceva ancora così freddo.
E quando puntualmente uscivo in ritardo dovevo scapicollarmi verso la stazione della metro, sudando nel mio bellissimo cappottino giallo limone. Una bella visione.
Tuttavia, se vi è per caso capitato di vedermi correre come una pazza intorno alle cinque del pomeriggio del due di novembre, sappiate che non stavo affatto andando al lavoro, anzi, era il mio giorno libero. Ma voglio andare con ordine, o non coglierete il senso di ansia e di claustrofobia che mi procurò in quell'occasione lo scorrere del tempo.
Quella mattina mi svegliai relativamente presto, ma erano giorni calmi e riposanti, anche al lavoro, perciò non mi sorprese. Avevo tutta la giornata per me, dal momento che i miei coinquilini erano ormai partiti alla volta della prima tappa del loro Cannabis Europe Tour, a Copenaghen. Quindi in realtà anche l'appartamento era tutto mio.
Presi il telefono, pronta a chiamare un ragazzo di nome Fabrice, niente cognome. Lo avevo conosciuto nella sala d'attesa del mio dentista, era molto bello e molto poco somigliante a George. Alto, con i capelli di uno strano e interessante colore a cavallo tra il rosso e il castano, con due magnetici occhi verdi. Non avevo idea di che lavoro facesse Fabrice, niente cognome, ma ogni volta che ci eravamo visti era sempre impeccabile, non un dettaglio fuori posto, ed era molto charmant. Avevamo in comune l'ammirazione per Caro Emerald e stavamo pensando di andare insieme ad un suo concerto.
Così sollevai la cornetta e composi il numero di Fabrice, niente cognome. Mi sarebbe piaciuta una giornata di sano sesso. Al terzo squillo però iniziò a suonare il cellulare e dovetti mettere giù il telefono fisso.
«Pronto?».
«Sono Bette!».
Sorrisi mentre mi versavo una manciata di cereali nella scodella. «Ciao, Bette. Dimmi tutto».
«Ricordi Henri?».
La sua grande storia d'amore. «Sì, certo».
«E ricordi che volevo fartelo conoscere, ma lui aveva sempre una scusa?».
Annuii, prima di accorgermi che non poteva vedermi. «Oh, sì, mi ricordo», balbettai, «ma non è un problema per me, finché tu sei felice».
«Per me invece è importante», asserì lei. «Io ti voglio bene, desidero che vi conosciate. È l'uomo che amo, dopotutto».
Il mio cuore si riempì di affetto per Bette, così tanto che mi venne un gran desiderio di abbracciarla subito. «Oh, tesoro».
«Ecco perché oggi andremo a trovarlo a sorpresa al bar dove va di solito. Lui non se lo aspetta, non può scappare».
Sistemai meglio il cellulare tra la spalla e la guancia mentre rimestavo i cereali con un cucchiaio per inzupparli nel latte. «Ammetto che un complotto non era la mia idea di giorno libero».
«Oh, non fare storie! Sarà divertente!», gridò con eccessivo entusiasmo.
Sbattei le palpebre, per un momento sorda da quell'orecchio. Spostai il telefono dall'altra parte. «Ehm, bene», risposi cautamente. Mi ripetei per l'ennesima volta che quell'eccessiva gioia di vivere era causata della venlafaxina. «D'accordo, allora io ci sto. Dove ci troviamo?».
«Il bar è in Rue Civiale», mi spiegò. «Ti mando l'indirizzo più tardi. Ci vediamo lì intorno alle sette? È l'ora in cui di solito va a bere una birra».
«Ok, ci sto».
«Vuoi portare il tuo amico?».
Impiegai un momento per capire di chi stesse parlando. «Fabrice, niente cognome?», domandai. «No, non siamo così in confidenza».
«Ma fate sesso».
«Oh, ma no, quello è diverso».
La risata assordante di Bette mi guastò anche l'altro orecchio. «Ottimo, allora ci vediamo dopo! Ciao!».
Non feci in tempo a salutarla che aveva riattaccato. Finii i miei cereali guardando una replica di Catfish, poi chiamai davvero Fabrice, niente cognome per fare sesso. Mi raggiunse in quaranta minuti, si fermò da me due ore e levò le tende in tempo per il pranzo. Comodo, veloce e a domicilio – ok, chiedo scusa per questa battuta ignorante e spiacevole.
Dopo pranzo uscii con il suddetto cappotto giallo limone per fare una passeggiata. Io trovo che la gente non si prenda abbastanza tempo per passeggiare, per stare senza fare nulla, quindi io cercavo di farlo il più possibile. Mi piaceva camminare e salutare gli sconosciuti, dire “Mazel tov” e “Shalom” al tizio della macelleria kosher, poco importava se erano le uniche parole che conoscessi, e bearmi del freddo in arrivo. Passeggiare mi portava sempre tanta pace e tanta ispirazione per i miei quadri – che per il momento continuavano ad aumentare impilati nel mio armadio. Incrociai la cassiera di un minimarket dove andavo a fare la spesa e mi fermai a fare due chiacchiere. Mi sperticai in complimenti per un orrendo e buffissimo carlino al guinzaglio di una ragazzina.
E poi il mio telefono suonò di nuovo.
«Pronto?».
All'altro capo della chiamata ci fu un'esplosione di singhiozzi disperati e nessun saluto. Allontanai il telefono per vedere il nome sul display e sbiancai.
«Bette», dissi lapidaria. È possibile che se non avessi saputo dei farmaci non mi sarei terrorizzata così tanto. Il mio cuore sobbalzò al punto da provocarmi un intenso dolore al petto. «Bette, perché piangi?».
Lei non rispose, continuando a disperarsi.
Con un sospiro mi sedetti su una panchina tra due alberi lungo un viale. «Oh, mio Dio, che cos'è capitato?», domandai sconsolata. «Bette, ti prego, parlami...».
Dopo altre lacrime e altri gemiti, finalmente la mia amica riuscì a biascicare qualcosa, che però io non riuscii a capire perché continuava a mancarle la voce.
«Bette, se mi dici dove sei posso venire da te».
«No!». D'un tratto la sua voce era diventata salda. «No, non venire».
Esitai. «Va bene, non vengo», accettai, «ma tu devi dirmi che ti è successo».
«Si tratta di Henri...».
«Avete litigato?», indagai appoggiandomi allo schienale della panchina. «Ha scoperto che volevamo andare da lui più tardi?».
«N-No». Bette iniziò a pigolare. «Cioè. Sì, volevo dire, lo sa. Ma tanto non ha più importanza!».
«Bette, sono sicura che...».
«Henri è sposato!».
Dovetti riflettere un momento per processare la verità. Sgranai gli occhi e rimasi immobile, surgelata da quell'informazione. «Cosa?».
«È sposato», ripeté Bette ricominciando a piangere a dirotto. «Lo è da anni, da prima che lo conoscessi! Mi ha sempre riempita di bugie!».
«Cazzo, ma chi farebbe una cosa simile?».
“Tu”, mi disse la vocina interiore. “Tu lo faresti, lo hai fatto una volta e lo rifaresti ancora”.
Bette parlò di nuovo, ma la sua voce mi giunse ovattata, come se si stesse coprendo le labbra con la mano per impedir loro di tremare. «Non posso crederci, io lo amavo!».
Scossi il capo, incapace di crederci. “Io lo amavo”: come se potesse bastare perché le cose andassero bene. Abbassai lo sguardo, rattristata e ferita. «Posso stare un po' con te, se vuoi».
«Non la voglio la tua pietà!».
«Come?».
La voce di Bette, da disperatamente inconsolabile, divenne all'improvviso furibonda. «Ho detto che non voglio la tua pietà! Non mi serve la pietà di nessuno».
Rimasi sgomenta e frustrata, oltre che offesa. Mi sforzai di restare calma. «Bette, io non provo pietà per te, capisci? Non l'ho mai provata».
«Ah, no?», gridò lei, inviperita.
«No, certo che no! Noi siamo amiche ed io voglio solo assicurarmi che tu stia bene».
«Oh, non preoccuparti! Da oggi in avanti starete tutti benissimo!».
Ciò detto riattaccò ed io rimasi impalata come una stupida, il telefono ancora all'orecchio e lo sguardo vacuo. Un tizio passò di fronte a me e mi ignorò, un signore anziano in passeggiata sollevò il cappello per salutarmi. Io non degnai nessuno di un'occhiata.
C'era qualcosa di strano in quello che era successo, qualcosa che non mi fu chiara fin dal principio. Ripensai per qualche minuto a quello che aveva detto, ad ogni singola parola, per capire come mai mi sentissi irrequieta. Perché sapevo che era normale sentirsi infelici dopo essere stati insultati senza motivo, ma io non ero infelice. Non ero nemmeno arrabbiata. Ero spaventata, ma non sapevo da cosa.
“Da oggi in avanti starete tutti benissimo”.
Mi venne un terribile conato di vomito quando compresi il significato intrinseco di quella frase. Tutti i pezzi del puzzle andarono di colpo al loro posto.
Tra le controindicazioni della venlafaxina c'era l'ideazione di suicidio. Bette aveva appena detto che da quel giorno saremmo stati tutti alla grande. E credeva che tutto il mondo la odiasse.
«Merda!».
Scattai in piedi e cominciai a correre. Quasi travolsi il vecchietto che si era tolto il cappello poco prima, ma non mi importava. Corsi fino alle scale della metro in fondo alla strada, scesi alla massima velocità e passai l'abbonamento nel tornello con tanta energia che non aspettai neppure che si aprisse del tutto, rischiando di rimanerci incastrata dentro.
E questo ci riporta a quello di cui vi avevo parlato prima, ovvero io che corro con il cappotto.
Dovetti cambiare più treni del previsto perché una delle stazioni del centro era bloccata da una manifestazione. Ma io non avevo tempo, anzi, non avevo mai avuto così tanta fretta in tutta la mia esistenza.
Ansimando per la fatica – non sono molto allenata, io – approfittai dei pochi minuti passati nei vagoni per fare mente locale.
Marie era in Inghilterra, Nicole era di nuovo in Canada. Jacques e Manuel avevano scelto il momento peggiore per partire per l'Europa e di chiamare George non se ne parlava nemmeno, non avrebbe avuto alcun senso e comunque non mi avrebbe risposto, ne ero certa. Non mi illudevo che qualcuno dei nostri colleghi avrebbe saputo come comportarsi ed io avevo bisogno di una faccia amica, non di un conoscente.
Mi rimanevano Max e Jeannot.
Feci il numero del mio ex vicino di casa mentre mi lanciavo su per le scale. Suonò a lungo, almeno una decina di volte, prima che scattasse la segreteria.
«Fanculo, cazzo, fanculo!».
Rallentai per trovare Max in rubrica. Per fortuna rispose al primo squillo.
«Léo!», disse energico. «Dio, è una vita che non...».
«Max, ti prego, non ho tempo! Una mia amica sta cercando di uccidersi!».
«Che cosa?».
«Si chiama Bette, è depressa, pensa che io la odi, il fidanzato l'ha scaricata perché era sposato!».
Max sospirò forte nella cornetta. «Ok, se stai correndo, rallenta».
«Non posso! Ti prego, vieni ad aiutarmi!».
«Léo, io sono in Costa Azzurra con Morena, la mia nuova ragazza!».
Mi esplose un urlo in gola. «No! Max, no!».
«Mi dispiace!». La sua voce era carica di panico, forse gli tremavano le mani per l'improvviso attacco di cuore che gli avevo fatto venire.
«Non fa niente!», strillai riattaccando.
Quando infilai il cellulare nella tasca la verità mi colpì con un guanto sfidandomi a singolar tenzone.
Ero sola.
Completamente sola, a fronteggiare qualcosa per cui non si è mai abbastanza pronti. Non ero pronta a sapere quel che Bette stava facendo, non ero pronta per quella corsa contro il tempo, non ero pronta ad arrivare troppo tardi.
Eppure continuai a correre, perché non c'erano altre opzioni. Non avevo tempo di crogiolarmi sugli allori, non avevo tempo di cercare un cavaliere su un cavallo bianco per farmi mettere un paraocchi rosa. Non c'era tempo di fermarsi e fingere che non stesse accadendo.
Così corsi senza fermarmi più.
Iniziavo davvero a non sentirmi più i piedi ed avevo così male alla milza e al cuore che credevo sarei morta. Non avevo mai corso così tanto in vita mia. La gola era completamente secca, il collo era un bagno di sudore. Non ne potevo più, sentivo che da un momento all'altro avrei semplicemente smesso di correre.
E poi il suo condominio mi apparve davanti come una magica visione. Vidi una donna che stava per entrare dal portone.
«Aspetti!», mi sgolai attraversando la strada. Un'auto inchiodò, ma nemmeno me ne accorsi. «Aspetti, la supplico!».
La donna si guardò intorno e, quando mi individuò, entrò in fretta per tenermi aperto l'uscio. Mi infilai senza rallentare, inforcando immediatamente le scale.
«Chiami un'ambulanza», la esortai aggrappandomi al mancorrente. «Una ragazza sta male all'interno ventisei!».
Col senno di poi so che avrei dovuto riflettere prima, perché forse Bette non si stava davvero suicidando. Ma con il cuore all'altezza della trachea e il cervello senza più ossigeno era già tanto che mi ricordassi come muovere i piedi uno davanti all'altro.
Raggiunsi il secondo piano e da lì l'appartamento ventisei. Battei forte sulla porta: chiusa.
«Bette!», strepitai. «Bette, apri questa porta!».
Da dentro non giunse un suono. Ero troppo agitata per riflettere, mi allontanai di un paio di metri e mi buttai con tutto il mio peso contro la porta. Fu inutile e con ogni probabilità avrei potuto prevedere che non sarei stata forte abbastanza, ma in quel momento avevo la mente vuota.
Tirai un calcio alla maniglia, poi uno alla porta stessa, ma quella non si mosse.
«Cos'è questo casino?».
Mi voltai e vidi che il dirimpettaio di Bette era uscito. Non era il colosso di Rodi che avrei voluto che fosse, ma era un quarantenne molto alto e con due belle spalle larghe – oltre ad un viso molto bello.
«Devo entrare in questa casa», esalai, gli occhi ormai colmi di lacrime. «Un'ambulanza sta arrivando, ma lei deve farmi entrare! La ragazza che vive qui sta male!».
Lui non rispose e corse dentro. Dopo pochi secondi ritornò con una chiave.
«Ci siamo scambiati quelle di riserva in caso di necessità», spiegò in fretta mentre infilava la chiave nella toppa. Sentii la serratura che scattava con il suono più bello del mondo.
Entrai per prima, ma sapevo che lui mi stava seguendo. Non avevo bisogno di lui, però, perché ero così atterrita che anche la presenza di un supereroe non avrebbe fatto alcuna differenza.
«Bette?», domandai guardandomi intorno.
Non conoscevo quella casa, non ci ero mai stata prima, e mi sentii cieca e perduta. Le stanze si affacciavano su un lungo corridoio, così lo percorsi in fretta guardando a destra e a sinistra; tutto era avvolto in un'inquietante penombra, le tapparelle abbassate, la casa ammantata dal più terribile dei silenzi.
Non ero pronta per vedere quello che c'era in bagno. Nessuno lo sarebbe, credo. La cosa peggiore era l'ordine: entrando si vedevano gli asciugamani appoggiati con cura sul bordo del lavandino, lo specchio immacolato, il profumo Hypnotic Poison che invase le mie narici con violenza.
Ma bastava fare un passo all'interno per vedere, sulla destra, la vasca da bagno. Le piastrelle erano schizzate di sangue, ma anche in quel caso Bette era stata molto ordinata e non era poi troppo sporco. La vasca, invece, era piena di liquido rosso, acqua mista alla sua linfa vitale.
Bette era completamente vestita, con un abitino succinto che non avrebbe mai messo per uscire di casa, immersa nell'acqua fino alle spalle. La testa era appoggiata ad un paio di asciugamani per stare più comoda. Per morire più comoda. Aveva gli occhi semichiusi e una specie di tagliacarte appoggiato non lontano dal capo. Il suo viso era sporco di rosso.
Tutto avvenne molto in fretta, ma io me lo ricordo come fosse al rallentatore. Dicono che certi shock vengono rimossi dal nostro cervello: io vorrei dimenticare, davvero, perché non è stato bello. Ma non ci riesco.
Faticai a riconoscere come mia la voce che gridò quando entrammo in bagno. Mi lanciai su di lei scoppiando a piangere e notai un movimento delle labbra.
Era debole, debolissima, ma era viva.
Non avevamo la minima idea di cosa stessimo facendo, è possibile che abbiamo prestato un soccorso sbagliato. Chissà, forse abbiamo rischiato più noi di ucciderla che non lei stessa.
Mi allungai verso il gabinetto e iniziai a srotolare la carta igienica mentre il vicino di casa le sollevava i polsi; aveva le maniche del vestitino inzuppate di acqua e sangue. Iniziai a tamponare gli orrendi tagli che si era procurata con la carta, ma quella si impregnò di liquido e la gettai via, correndo a prendere gli asciugamani dal lavandino. Li strinsi così tanto sulla sua carne che sospetto di averle lesionato qualcosa.
Dissi qualcosa, tipo “Ti prego, Bette” o una frase del genere. La donna che avevo incontrato sulla soglia arrivò di corsa e cominciò a urlare, ma almeno aveva chiamato i soccorsi.
Dentro di me io riuscivo solo a pensare che Bette non era morta, non era ancora morta, avevo fatto in tempo. Non vedevo quasi nulla per le lacrime e, quando un suo braccio scivolò, impiegai qualche secondo per ripescarlo in quell'acqua così spaventosa. Ripresi il suo polso e tornai a tamponarlo con un altro asciugamano.
Il mio cappotto giallo limone con le maniche a sbuffo era coperto di sangue. Avevo sangue sul viso e sui capelli. Nella stanza c'era odore di sangue. Io non vedevo più niente, in bocca avevo un sapore acre di lacrime, bile e paura.
Lei mugugnò qualcosa.
«Sta' zitta, stupida!», strillai in preda al panico. Sentivo delle sirene in arrivo, ma erano lontane, troppo lontane. «Mio Dio, che cosa hai fatto?».
«Vada ad aprire il portone, signora Caron», disse con voce baritonale il vicino di casa, scrollando i capelli lunghi e brizzolati nel tentativo di levarseli da davanti agli occhi.
La donna, la signora Caron, smise di urlare solo perché dovette correre di sotto. Non passò molto prima che sentissimo passi affrettati sulle scale.
Non volevo lasciarla: quando un ragazzo con una tuta catarifrangente si chinò al mio fianco e fece per staccarmi le mani dal suo braccio opposi resistenza. Alla fine mi strinse e mi sollevò di peso per togliermi di torno, scaricandomi in corridoio. Feci per tornare in bagno, ma l'inquilino di Bette mi fermò.
«Si calmi, signorina», mi blandì con un sorriso dolce. «Coraggio, sediamoci».
Mi accorsi solo allora di quanto fossi stanca. Scoppiai in singhiozzi e mi accasciai a terra.
«Come si chiama?», mi fece lui per distrarmi. «Io sono Alec Fabre e lei è Amanda Caron. Quanti anni ha? Vuole che chiamiamo qualcuno?».
Non risposi a nessuna delle loro domande, limitandomi a piangere forte, fino ad avere male alle tempie e allo stomaco. Non riuscivo a pensare a niente che non fosse tutto quel sangue.
Mi sentivo lurida, sporca anche dentro, non solo sulla pelle. Puzzavo di quella roba che Bette aveva lasciato uscire dal proprio corpo e quell'odore era tremendo, era ovunque e non c'era modo di scacciarlo. Mi faceva una paura tremenda. Tutto quello sporco, in bagno, su di me, su Bette. Dovevo pulire tutto, dovevo davvero farlo. Bisognava che tutto tornasse ad essere pulito e senza odore.

   
 
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