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Autore: HibiyaAki and Loonaty    08/10/2015    1 recensioni
"Inverno. Memorie di Haruka Fuwa
Si può arrivare ad essere tanto invidiosi delle persone da desiderarne una morte prematura?
Che strano, dopotutto dovrei sapere quanto dispiacere, quanta desolazione, quanto dolore la morte possa provocare.
La consapevolezza di non avere un futuro può addirittura essere straziante.
E' davvero invidia? O solo spero che uno di loro possa prendere il mio posto?
Ho paura ... Desidero che qualcuno...Resti.
Che prima di sparire mi sussurri "Andrà tutto bene"."
Non è una storia d'amore, se questo che state cercando.
Eppure è un racconto romantico. Di pause, di silenzi e dolcezze.
Di sofferenza,di rabbia, di incomprensioni...
Dove tutto è cenere.
Si poseranno lì i petali del ciliegio?
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'animo mio è corrotto 
Sotto le unghie si secca il sangue 
I miei sorrisi marciscono nella bocca. 
Cigolano gli arti, oscillano i fili. 
Mi manchi così tanto. 
Troppo presto mi hai abbandonato 
Ho guardato al mio futuro
vedendo te. 
Atrocità più grande, non avresti potuto infliggermi. 





CAPITOLO SECONDO - LA VERITA' CHE OFFESE IL BUGIARDO. 


{La tartaruga}


La luce filtrava gialla e opaca attraverso i mosaici satinati delle vetrate del locale. Frammenti in oro e ruggine si sovrapponevano nel  ricreare immaginarie onde spinte da un vento lontano.
L’odore  di cera per il legno e caffè era forte all’interno del bar e la condensa del bicchiere alto e fresco le inumidiva i polpastrelli, riaddensandosi in gocce cristalline che scivolavano sulla superficie raccogliendosi sulla tovaglietta plastificata e floreale.
Gli occhi d’ambra della fanciulla si appuntarono costernati sul fazzoletto imbevuto di rosso carminio che l’uomo candido dinnanzi a lei manteneva premuto contro il volto. Contrariato, spossato e visibilmente disgustato dalla sua presenza.

Il colore del sangue era associato spesso al magenta, ma diluito nell’acqua diveniva tutt’altro che di un rosato pesca. In realtà era un colore brillante, l’inchiostro per eccellenza, una volta allungato rimandava luminosi riflessi aranciati.

Il fluido scarlatto si dipanava in spirali vorticanti all’interno del bicchiere d’acqua, una medusa di colore che arricciava le proprie propaggini. Le setole umide del pennello incresparono ancora una volta la superficie.
-Ophelya!-
La bambina sobbalzò. L’acqua si rovesciò sul tavolino, il bicchiere era in bilico sulla superficie inclinata dello scrittoio, annacquando gli acquerelli e imbevendo e macchiando la gonnellina di cotone bianca a pieghe.
Abbassò lo sguardo sul danno appena fatto, per poi risollevarlo.
-Pasticciona guarda che hai fatto! Hai sporcato tutto il vestito della festa e la signorina  Ycaro si arrabbierà di nuovo! Se lo dice alla mamma ti toccherà copiare ancora le tavole dei numeri … -
Gli occhi grandi si serrarono un momento mentre la piccina incassava la testa tra le spalle sottili.
La voce era uguale alla sua.
Il viso era uguale al suo.
Perfino i capelli, con le stesse mollette a rosellina.
Lo stesso vestito della festa, le stesse scarpette di confetto, le calzettine di pizzo che adornavano le caviglie piccine.
Agath, era andata a chiamarla perché scendesse in giardino e si unisse ai festeggiamenti. Gli altri ragazzini stavano arrivando, la sua famiglia non organizzava tali festini nobiliari per fare baldoria, ma erano un tentativo elegante di inserire le principessine nell’ambiente aristocratico.

“Non mi piacciono le persone”

La più giovane delle gemelle, però, non amava la compagnia degli estranei. In effetti non amava nemmeno la compagnia dei propri familiari. 

“Tanti occhi che giudicano, tante bocche che parlano.
Tanti odori falsi e sbagliati.”

Sensibile al finto perbenismo del party pomeridiano aveva finito per rintanarsi nello studio dalle pareti rosse, adibito ad aula scolastica per quelle due creaturine angeliche, vicine ormai al compimento dei dieci anni.

“Siamo angeli a cui sono state spuntate le ali… Come ai corvi della regina.  Agath io voglio andare via…”
“Sarai tu il corvo, io mi sento molto più simile ad un uccellino di bosco. Ad un pettirosso… A qualcosa di grazioso…”

Aveva cominciato a dipingere appoggiandosi al banchetto vicino alla vetrata che dava sul balconcino dalle colonnine in stile corinzio. Aveva recuperato gli acquerelli da una delle mensole dello studio, facendo franare un paio di libri e cadendo a sua volta dalla sedia su cui aveva impilato due enciclopedie ed un dizionario. Erano due bomboniere, lei e sua sorella. Tanto piccine quanto graziose.
Eppure differenti.
Una aggraziata e leggiadra, attiva ed elegante, l’altra goffa e imbranata, pigra e pasticciona.
Aveva sbattuto un ginocchio e si era  spellata un palmo sulla moquette ruvida, una cartelletta di documenti le aveva picchiato con lo spigolo sulla nuca, ma aveva i suoi acquerelli. Una volta riempito un bicchiere d’acqua nel bagno della servitù al primo piano aveva preso ad osservare il dipanarsi dei colori sulle pagine bianche ed ondulate del proprio album.
Il rosso sul bianco era il suo preferito.
Sembrava…

-Perchè...?- 
La domanda del ragazzo triste la confuse.
Si era fermata, sul ciglio della strada, come sospesa nel vuoto, tra quel volteggiare di petali rosa, che non facevano altro che mutare la situazione in sovrannaturale. 

-Perchè "Colui che mente"? - 

Era affannato, ma sorrideva. 
Questo però non la rassicurava affatto, al contrario. Le faceva venire la pelle d'oca, aveva il desiderio di scappare, di voltarsi e fuggire, ma non sarebbe andata lontano. 
Era una tartaruga. 

Eppure rispose. 





{Il pesce}


Una sconosciuta, straniera, che sembrava l’incrocio tra una bambola di porcellana e la bambina inquietante di un film horror da botteghino gli aveva lasciato tra le mani uno scarabocchio –anche ben realizzato a dirla tutta- in cui non solo lo ritraeva, ma lo accusava anche, deliziosamente, di essere un bugiardo.
Che il mondo facesse schifo lo aveva capito. Ormai lo sapeva, ma questo era decisamente troppo.

Il color grigio utilizzato pareva donare al disegno ancora più tristezza di quanto già non ne emanasse.
Un ragazzo rannicchiato su sé stesso a lato della strada, ma era certo che le sue dita non stessero stropicciando tanto spasmodicamente la propria camicia, che la luce del pomeriggio non esasperasse a tal punto il proprio essere sfiancato dalla vita stessa.
Era  come se quella creatura, quella … Psicopatica con i boccoli, vi avesse impresso dentro con la forza emozioni celate da una spennellata di grigio.
Era come se lo avesse rappresentato andando oltre le sue bugie. 

Una maschera di anni, cucita con cura sulla sua pelle, appuntata con perfezione chirurgica, connessa ad ogni suo nervo aveva racchiuso le sue emozioni. Tradotto la rabbia in gentilezza.
L’irritazione in perdono.
Il sarcasmo in sorrisi.

Quanti minuti ci aveva messo?
Da quanto lo stava osservando?


Una fitta allo stomaco lo lasciò per alcuni secondi senza fiato, mentre le viscere si contorsero dolorosamente. 
Bugie. Bugie. Bugie. Bugie. Bugie.

“Sono un bugiardo. Ho smesso di provare timore e paura per le menzogne.” 


Lo si insegna ai bambini, quando ancora sono piccoli e pretendono di buggerare i genitori, anche per le marachelle più innocenti. Gli si insegna che nascondere la verità è peccato e che i mostri sgattaioleranno fuori da sotto il lettino la notte, allungheranno membra scricchiolanti sotto la copertina in pile dove ti stai nascondendo.
Ti prenderanno per la lingua, la tireranno come gomma da masticare. Ti scaveranno il naso.
Ti spezzeranno le ginocchia…
Ora, se uno di quei mostri si fosse presentato nel suo letto, si sarebbe domandato di chi aver più timore. Se del cupo figuro o del proprio riflesso allo specchio l’indomani mattina.

Le bugie sono un ottimo paliativo.


Allora perchè quelle due parole sul bordo foglio gli stavano impietosamente sgretolando l’orgoglio?                                      Quale orgoglio?
In quei pochi minuti quella giovane aveva compreso più di quanto gli psichiatri fossero riusciti a carpirgli in sedute e sedute di analisi costituite principalmente da lunghissime ed interminabili chiacchierate snervanti e resoconti della giornata che nemmeno un bambino delle elementari appena tornato da scuola, che racconta alla mamma di che colore erano le mele sulla scrivania della maestra. Tutto ciò cominciava a fargli venire dei dubbi sull’effettiva validità degli studi medici tanto “eclatanti” e decantati del luogo.                                Lo sai che per te non c'è più nulla da fare.
Fastidio, incredibile fastidio. 
Le dita si strinsero, sgualcendo la pagina.                                                        

Crak.

La sua espressione mutava, dal sorriso angelico, labbra pallide e sottili tirate in un esempio di buone maniere, il velo di rabbia e infinita tristezza risaliva a galla come lava sul fondo dell’oceano.

Crack--

Incrinando la menzogna di gesso che si crepava rumorosamente sulla sua pelle.  

“ Patetico..” 

Con un movimento un po' rigido si alzò guardando nella direzione che aveva preso la ragazza e cercando di camminare il più veloce che poteva , tenendo gli occhi puntati suoi piedi come a seguirli nei loro movimenti stando attento che non andassero fuori controllo. Doveva raggiungerla. 
Era così complicato coordinare dei semplici passi?                                 Quando le sinapsi del cervello si fottono è questo che succede. Lo hai già visto. 
Era stato così anche prima?                                                                                    No. 
Si trovò ad allargare leggermente le braccia per recuperare l’equilibrio nel tentativo di ritrovare un ritmo sostenibile che non lo facesse assomigliare alla caricatura di un pinguino.

“Aspetta.. Perchè “colui che mente”?... Fermati, dimmi perchè?! Tu non puoi avermi letto dentro così velocemente, non lo accetto. 
No.“                                                                                                          Devi solo accettare la tua condizione di scarto sociale in fondo

-Aspetta!- 

Essendo una strada secondaria non c'era molta gente fortunatamente e quindi fermandosi, con un leggero ansimo nella voce a causa dello sforzo troppo grande, sperò di richiamare la sua attenzione.

Voltati, voltati, stronza. Non ti permetto di andartene così. Di nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso.
Altro che sasso.
E’ stata una fottuta granata di merda e mi ha colpito dritto in faccia dannazione. Cos’è che vuoi? Sei una veggente del cazzo? Vuoi dei soldi? O godi solo nel mortificare le anime altrui?!                                          

Oh, forse stava dando troppo peso a quella situazione surreale.
Alla fine era solo un disegno stupido, con una scritta stupida nella lingua comune. Che avesse letto un libro che lui non conosceva? E stesse infantilmente ricalcando le orme della protagonista?
I titoli degli ultimi volumi segnati nel catalogo della libreria gli tornarono in memoria spingendolo a domandarsi quale tra i romanzi rosa per fanciulle potesse iniziare una storia d’amore contorta da un’accusa scritta su un pezzo di carta.
In un viale fiorito, di una zona poco frequentata.
Il suo io interiore sorrise amaro, sussurrandogli all’orecchio: “Che bell’esemplare di principe azzurro che abbiamo.”
Non si reggeva in piedi.
Quella lingua velenosa –la sua- aveva ragione.
Si passò una mano tra i capelli, cercando di rimetterli in ordine, inutilmente. L’ultima decolorazione li aveva un po’ rovinati. Le punte erano ruvide e spezzate, continuavano a ricadergli sogli occhi.
Luminose biglie rosso disperazione tra sottili fili di seta spinata bianco sporco e giallo spento.
Azzurro vecchio.
Azzurro cielo.

In uno svolazzare elegante della gonna la fanciulla ruotò sui tacchi di legno degli stivaletti bassi, le calze dalla fantasia fiorita  dai colori tenui fasciavano, semi-trasparenti, le gambe sottili.
Le braccia ricadevano lungo i fianchi, anche se ci si sarebbe benissimo aspettati di vedergliele sollevare come una ballerina, in un gesto finemente aggraziato.

In controluce, per un istante, gli parve di scorgere piume bianche all’attaccatura dei gomiti, e poi giù ino ai polsi, quasi avesse spiegato le ali in quella giravolta infantile.
Durò un solo istante, quella visione melensa che lo convinse di aver lavorato troppo sul settore romantico nell’ultima settimana, ma non era nemmeno colpa sua se la libreria era stata infestata da lattanti che avevano dismesso la tetta l’altro ieri subito dopo la recente assunzione di un liceale piuttosto “popolare”, che aiutasse a sistemare gli scatoloni e i volumi sugli scaffali più alti.
O forse il fatto che vedesse gli angeli, cigni più brutti della norma, stava solo ad indicare che gli restava da vivere meno tempo di quel che pensasse.

 Lei spostò il peso da un piede all'altro osservandolo.
Si era mosso troppo in fretta e dovette appoggiare un momento le mani sulle ginocchia, piegandosi in avanti nel tentativo di far riprendere a circolare l’ossigeno in quel catorcio che il cielo aveva previsto come suo corpo.
Riuscì ad intravederla mentre aggrottava le sopracciglia scure e piegava il capo di lato schiudendo le labbra e poi richiudendole.  Quasi avesse voluto dire qualcosa.
Il gesto non lo incuriosì, affatto.
Poteva tenersi per sé i suoi pensieri di svampita impicciona, la domanda che voleva porle e alla quale avrebbe dovuto rispondere era tutt’altra.
Si era incaponito come un bambino.
Come a scuola, nei primi anni delle superiori, in cui accettava qualunque sfida ridicola gli altri ragazzi gli proponessero. A ripensarci ora era sempre stato troppo semplice intortarlo.

Una folata di vento lieve gli accarezzò la pelle pallida come la porcellana,  forse lui pareva proprio questo: una creatura costruita artificialmente in un materiale freddo i cui movimenti secchi e rigidi lo rendevano ancora più gelido. Un burattinaio spietato aveva dipinto soffici labbra tenui piegate in un sorriso triste e grandi occhi accesi, di un colore troppo vivo per un giocattolo con i fili recisi.
Artificiale.
Sarebbe stato dimenticato nella polvere.

L’ombra di una sedia a rotelle cigolò alla periferia del suo sguardo, così come il comodino ancora con i libri impilati, il letto dal sentore familiare che nessuno avrebbe più occupato.

Il corpo venne percorso da un brivido.
Anche se fasciato da una giacca a vento lunga quasi al ginocchio, il freddo sembrava entrargli nei vestiti e raggiungere le ossa, penetrandovi impietoso.  

Doveva chiederglielo, domandarglielo. Eppure per un attimo le sue labbra non vollero dischiudersi, come incollate dal silenzio che si era teso su quella strada come la  corda di un violino. Dov’erano le persone? I passanti?
Le macchine?
/Ah, no, era un giorno a traffico limitato, poco male, avrebbe rischiato meno di morire investito/
Eppure prima aveva udito il vociare di qualcuno… Che avesse ridotto al silenzio il mondo solo dando le spalle al sole?
Ipotesi stupida.
Inoltre.
Perché se ne stava lì ferma ed impalata senza dire nulla? Era piccina, fin troppo, sembrava una bambina.
Raddrizzando la schiena si rese conto di quanto fosse bassa.
Minuscola.

-Perchè...?- 

La sua voce aveva raschiato un po’ prima di liberarsi nell’aria e potè notare con un sussulto in quelle spalle fragili. Ali? Ma quali ali. Quella fanciulla sarebbe stata portata via dalle correnti se solo si fosse alzata da terra.
Avanzò verso di lei, quasi a voler ristabilire lo status-quo.
“Tu non mi spaventi.
Tu non sai niente”
Un passo ancora. 

-Perchè “Colui che mente”?- 

Un candore estraneo in quelle parole. Avrebbe voluto scagliarle addosso il suo inutile scarabocchio.
Non avrebbe mai ammesso con nessuno l’esistenza di quelle grida isteriche che sbattevano implacabili contro le pareti del suo cervello.
Non gliele avrebbe lasciate intravedere, non gliele avrebbe lasciate fiutar--


-Dimmelo tu.-

Cos’ era uno scherzo?                          Ah, tu credi?
Non aveva voglia di scherzare.                        Una volta eri più divertente. Sei diventato noioso. 
Non si era minimamente scomposta, al contrario gli aveva dedicato un sorriso tutto dolcezza e buone intenzioni. Potè quasi sentirlo sfrigolare sulla superficie della sua maschera rattoppata. 
Appariva come uno scontro tra sentinelle immobili, la prima ormai stanca di reggersi in piedi, la seconda sulle punte, sul ciglio della strada, con uno dei talloni in parte sospeso oltre il bordo del marciapiede, senza che temesse di cascare o forse senza farci caso nemmeno.
Stava per risponderle, educatamente, che quello non era certo il modo di ribattere ad una domanda.
Che anzi, sembrava fin troppo sfacciata.

Che si ridimensionasse un po’!

“Senti un po’, Fuwa! Vedi di mettere la testa a posto! Un  altro dei tuoi disastri e stavolta l’anno non lo passi!”
“Ma stia un po’ zitto vecchio noioso. “
“Attento a come parli, potrei farti espellere!”

Non fece in tempo a formulare una frase, che ella parlò di nuovo.

 -Sono solo parole... No?-


Gli sanguinava il mento. E non solo.
E bruciava.
Bruciava da fare schifo.
L’unico lato positivo era –forse- che adesso era seduto. E da seduto sarebbe stato difficile per lui riuscire a farsi involontariamente del male.
A meno che la sua giovane dirimpettaia e la sua tartaruga misteriosa non gli causassero forti impulsi suicidi.
Cosa che non avrebbe escluso a priori.
Il lato positivo supplementare, nel caso il primo fosse venuto disgraziatamente a decadere dopo un successivo riposo delle proprie magre membra, era l’alcool.
In teoria non avrebbe potuto bere, ma non gliene fregava un cazzo.

Premette al meglio il ghiaccio lì dove avvertiva la mandibola gonfiarsi.
Ordunque.
Avrebbero dovuto mettere in chiaro un paio di cose. 




N.d.A.

Ssssssalve---
Sinceramente non sapresi cosa notificare, alla fine in questo capitolo questi due disgraziati non dicono nulla di strano, ma le notè delle autrici sono un qualcosa di abituale.
La storia è ancora abbastanza... Ehm...
Ferma.
Lo so, lo so.
Ed entrambi i protagonisti si schiaffano da soli direttamente nei primi capitoli senza nessuna introduzione studiata, mi rendo conto anche di questo... PErò alla fine che vi aspettate? Non è così la vita?
Le storie cominciano lì dove le persone si incontrano...  

   
 
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