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Autore: Flownes    09/10/2015    1 recensioni
"Cuffiette nelle orecchie, zaino in spalla e vans – quelle vans – ai piedi.
Con quelle avevo conosciuto lei e lei non aveva detto: «Belle, dove le hai comprate?», le aveva guardate, avevo saputo successivamente, aveva sorriso appena, poi mi aveva stretto la mano e aveva pronunciato la prima parola, la prima fra le tante che ci saremmo scambiate da quel giorno in avanti: Ginevra.
Cos’era Ginevra? Un qualcosa di piuttosto speciale, sicuramente almeno quanto quel paio di vans che amavo tanto portare ai piedi. Lei era la rivoluzione, era il vento che ti fa alzare in volo, lo spasmo di terrore prima del tuffo, ma io ancora non potevo saperlo, mi aveva detto una sola parola e quella parola era il suo nome."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Una ragazza sola che da sempre aspetta il ballo




CAPITOLO II

Tutto qui accade per te
 
 
Maledetta.
Maledetta, dannatissima sveglia. Allungai il braccio sinistro alla cieca verso il comodino, ovviamente urtandone lo spigolo e facendomi piuttosto male, nel tentativo di interrompere quel rumore infernale. Le sveglie, gli orari da rispettare… mi sono sempre chiesta chi fosse stato a inventarli, anche se la risposta sta semplicemente nella necessità degli esseri viventi di dormire per ricaricare le pile per un nuovo giorno.
Ad ogni modo, il rumore fastidioso della sveglia finì bruscamente con una bella manata sull’oggetto metallico. Finalmente la pace.
Mugolando il mio disappunto per l’inizio di una nuova giornata di lezione, mi girai sull’altro fianco, avvolgendomi ancora di più nel piumone. Quando aprii gli occhi subito dopo, non riuscii a fare a meno di sorridere. Prima o poi mi ci sarei abituata, prima o poi avrei smesso di credere che fosse irreale il fatto che Ginevra fosse la prima cosa che vedevo al mattino e l’ultima prima di dormire. Era lì, sdraiata su un fianco, verso di me, ancora una volta i suoi occhi stavano solo aspettando che i miei incontrassero il loro misterioso sguardo. Le sorrisi, perché era l’unica cosa che pensavo di poter essere in grado di fare, di fronte ad una vista così disarmante. Il cuore batteva ritmi incredibilmente rapidi, potevo quasi avvertire il sangue scorrere impazzito per tutte le vene del corpo, le gote che arrossivano, lo sguardo imprigionato da quegli occhi neri come carboni. Lei liberò una mano dalle lenzuola e con le dita mi scostò i capelli dal viso, prima di coprire quella breve distanza che ci separava, unendo le sue labbra alle mie in quel semplice primo bacio della giornata.
«Buongiorno…»
 

Se muovi le dita disperdi i pianeti (*)


Maledetta.
Maledetta, dannatissima sveglia. Allungai il braccio sinistro alla cieca verso il comodino, ovviamente urtandone lo spigolo e facendomi piuttosto male, nel tentativo di interrompere quel rumore infernale. Le sveglie, quei meravigliosi aggeggi inventati dalla brillante mente umana, fra gli oggetti più odiati dall’intera popolazione vivente, non erano altro che distruggi-sogni. Ad esempio, pensai girandomi sull’altro fianco, avvolgendomi ancora di più nel piumone, quella mattina, prima del suono della sveglia avrei giurato di star facendo un sogno bellissimo. Ovviamente non ricordavo più nulla, conservavo solo un vago sentore… l’impressione che riguardasse qualcuno, forse mia madre, forse Anna – la mia migliore amica –.
Era passato già un mese e mezzo dall’inizio delle lezioni, da quel lontanissimo primo giorno della mia nuova vita. Tornando indietro non avrei mai pensato che i giorni potessero volare a quel modo. Probabilmente era la vita da pendolare a giocare un ruolo fondamentale in questa fantomatica accelerazione del tempo. Riassumendo le mie giornate universitarie, non facevo altro che seguire le lezioni, dormire sui treni, mangiare sui praticelli della Sapienza e parlare con Ginevra, scherzare con Ginevra, fare discorsi filosofici con Ginevra. Ecco, dal primo giorno di università, lei era rimasta una costante, come il treno regionale delle 7.20 diretto a Roma Termini. Cielo, che paragone squallido. Ginevra era molto più del treno che prendevo ogni giorno per andare a Roma e quel treno era molto più di un semplice treno: era quello che mi portava da lei ogni mattina.
Ormai stava diventando una quotidianità chiedermi che cosa provassi per lei. L’idea che potesse essere solo amicizia somigliava ad immaginare che l’uomo un giorno avrebbe volato al tempo di Re Artù, praticamente impossibile. Il fatto che potessi provare qualcosa per lei e che lei provasse qualcosa per me era una prospettiva molto più veritiera. Il problema, se problema lo si può chiamare, stava nel salire quel piccolo enorme gradino che ci separava ancora. Quante volte avevo provato l’impulso di prenderle la mano, mentre camminavamo per la città universitaria? Quante volte, sdraiate sull’erba dopo pranzo, avrei voluto girarmi verso di lei, nel mezzo di una risata, e farmi di colpo seria, guardando quegli occhi e perdendomi nella loro bellezza, e farmi avanti, oltrepassare quella barriera invisibile che stabiliva i confini dell’amicizia e premere le mie labbra sulle sue… il solo pensiero mi faceva colorare le gote di rosso e scatenava un esercito di brividi sulle mie braccia. L’idea che realmente Ginevra potesse scegliere me, fra tutti, fra tutte, sembrava così possibile e così irrealizzabile al tempo stesso.
Allora mi chiedevo cosa ancora mi frenasse, cosa mi impedisse, ad esempio quella stessa mattina, di andarle incontro, con uno sguardo deciso, la fermezza di chi ha preso una scelta irrevocabile, e prenderle il viso tra le mani, baciandola sulla bocca, a lungo, davanti a tutti, tanto non importava cosa avrebbero pensato i passanti, i professori, i nostri compagni di corso. Eravamo io e lei, Elena e Ginevra. Che altro serviva?
Ma dentro di me, sapevo quanto fosse difficile realizzare una cosa del genere, la scena da film che avevo appena immaginato. L’idea di ripetere l’esperienza di una relazione omosessuale da una parte mi faceva ancora paura. L’avevo già vissuta, avevo già affrontato il trauma di andare contro tutte quelle “norme” che la società e la Chiesa hanno imposto, avevo già provato la paura di essere scoperta, il terrore di venire abbandonata dalle persone più care quando svelavo loro il mio segreto. Ma mi conoscevo, come era stato per La causa di ogni male (**), alla fine avrei ceduto alla forza che faceva correre la maratona al mio cuore ogni volta che lei era vicina.
In preda a quel vortice di pensieri, scesi dal treno, binario 13, e mi incamminai verso l’università. Sulla strada, cuffie nelle orecchie, vans bordeaux ai piedi, sentii il cellulare vibrare nella tasca dei jeans e, come ogni volta che accadeva, il cuore accelerò di un battito leggendo il nome di Ginevra. Quando lessi anche il messaggio, però, si fermò completamente, assieme ai miei piedi: “Dobbiamo parlare”.
Una sensazione familiare mi avvolse come una coperta gelida, nonostante fosse una bella giornata di Ottobre, che ancora conservava i postumi di una calda estate. Cosa fosse quella sensazione? Lo sapevo benissimo. Paura mista ad agitazione, mista ad euforia, nervosismo e quant’altro. Di conseguenza accelerai il passo, raggiungendo la facoltà nel minor tempo possibile.
I miei occhi azzurri corsero al lato delle scale della facoltà, dove di solito Ginevra si sedeva, aspettando il mio arrivo, e anche quel giorno i miei occhi incontrarono la sua figura esile. Pensai di sorridere, ma scoprii ben presto di avere una paresi facciale in atto. O meglio, una paresi totale in atto, dato che anche il mio corpo si era immobilizzato alla sua vista. Fortunatamente scoprii che la cosa non doveva valere anche per lei, perché appena mi vide si alzò in piedi, raccolse la tracolla da terra e mi si avvicinò a passo svelto, mi afferrò il polso e mi trascinò via con sé, dirigendosi verso il retro della facoltà.
«Vieni con me.»
 

Se chiudi la bocca l’ossigeno manca per tutta la Terra



Brividi.
Brividi nacquero dal contatto delle sue dita con la mia pelle e improvvisamente mi sentii meglio, come se una piccola dose di calma mi fosse appena stata iniettata direttamente nelle vene.
Quando non fummo più esposte allo sguardo curioso di tutti i nostri compagni di corso, lei lasciò andare la mia mano e si appoggiò al muro con la schiena, guardandomi direttamente dentro l’anima, come solo lei poteva fare con quegli occhi magici.
«Che succede?»
La voce che uscì dalle mie labbra era straordinariamente serena. Come diavolo era possibile una cosa del genere? Dentro di me avevo una tempesta.
E in quel momento Ginevra mi sorprese come mai prima di quel giorno: distolse lo sguardo, lo portò su un qualche sassolino che si trova a terra. Distolse lo sguardo, ma io lessi nei suoi occhi il tormento, lo stesso tormento che avevo dentro di me dal primo giorno della mia nuova vita, dal primo giorno che l’avevo conosciuta. Quando quegli occhi neri decisero di staccarsi da terra erano ancora colmi di quella confusione che mi aveva attanagliata fino a quella mattina stessa, la ragazza dai capelli castani e gli occhi più scuri della notte polare fece per dirmi qualcosa, ma non ebbe tempo. Un passo avanti, una mano sul muro, l’altra tra il collo e il viso di lei e le mie labbra finalmente trovarono le loro gemelle, quelle di Ginevra.
Il tempo si dilatò.
I sensi si amplificarono.
Potevo avvertire quell’alito di vento scuotere le foglie degli alberi, il chiacchiericcio degli studenti distanti, il respiro di lei bloccarsi, il tonfo della sua tracolla che toccava terra, il suo profumo, mentre le sue mani mi toccavano i fianchi e le sue labbra si schiudevano ricambiando quel bacio così improvviso e così tanto atteso.
Il tempo riprese a scorrere normalmente.
Mi resi conto che il mio cuore non aveva mai scandito ritmi così rapidi.
Riaprii gli occhi e, come ogni volta, trovai il suo sguardo ad aspettare di essere incrociato, le sue iridi così vicine, così vicine che riuscii a scorgere il loro confine con la pupilla. Un confine che mi stregò per sempre.
«Questo, volevo dirti… questo.»
Un sorriso le illuminò il viso, mentre pronunciava quelle parole, prima che per la seconda volta le nostre labbra si fondessero in una cosa sola.
Del resto avrei dovuto prevederlo, quando la sveglia suona all’improvviso facendo dimenticare i sogni più profondi e radicati nell’essere, durante la giornata succede qualcosa che ti fa ricordare il sogno. Più raramente quel sogno si avvera, ma per una volta la fortuna aveva deciso di stare dalla mia parte.
 

Tutto qui accade, tutto qui accade per te
 
 
 
 



Nota dell’autrice
Ho pubblicato questo capitolo non in ritardo rispetto a quando avevo previsto di pubblicarlo, di più. Ad ogni modo, alla fine eccolo qua, pronto per essere letto e pronto per ricevere recensioni! Spero che vi sia piaciuto, aspetto le vostre opinioni.
Al prossimo capitolo!
Flownes

*Tutto qui accade, negramaro.
**La prima ragazza di Elena viene così definita in “You and me, time and space”.
  
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