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Autore: Martin Eden    10/10/2015    3 recensioni
Seguito de "Lo scrigno del potere" (pensavate di esservi liberati di me? :P)
Sono passati sei lunghi anni da quando Will Turner è ritornato nella sua Port Royal, sei lunghi anni a pensare che cosa farne della sua vita. Niente è andato secondo i suoi piani. Elodie Melody Sparrow è libera per mare, ma non gli è mai capitato di rivederla. Nè lei nè il suo squinternato fratello Jack Sparrow.
Ma se i loro destini si incrociassero di nuovo? E non certo per caso...
Storia scritta con l'aiuto di Fanny Jumping Sparrow, fedele compagna di avventure :)
Genere: Avventura, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jack Sparrow, Nuovo Personaggio, Will Turner
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pirati dei Caraibi - Avventure per mare'
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CAP. 2 - IN CERCA DI UNA SCOMODA VERITA’

 
 
   Quella giornata era stata una lunga giornata.
   Will si era asserragliato dentro casa, con tutte le porte e le finestre chiuse a chiave, e le tende tirate: non poteva correre il rischio che William sgattaiolasse fuori, né che qualcuno potesse curiosare dentro. Sarebbe stato difficile trovare una giustificazione plausibile a tutto, in così poco tempo. Inoltre, quella sera avevano bisogno di tranquillità, loro due.
   Il piccolo, dopo i primi momenti di sofferenza, si era un po’ calmato. Aveva preso possesso della poltroncina in salotto, vi si era seduto, e ormai erano ore che stava là, triste e imbronciato con il mondo. Ogni tentativo di avvicinamento era stato stroncato sul nascere; ogni altra idea, respinta. Will ci aveva rinunciato presto. Del resto, era comprensibile: troppo trambusto per un giorno solamente.
   Con porte e finestre chiuse, aveva poco da temere. Quindi, Will si era ritirato in cucina, a cercare di mettere insieme qualcosa di commestibile per la cena e a dare una pulita. Doveva anche pensare a dove avrebbe sistemato suo figlio per la notte. Il posto ci sarebbe anche stato, ma chissà com’era abituato? Probabilmente dormiva con la sua mamma, Élodie. Ma non poteva certo dormire con lui, Will Turner.
   O forse sì? Magari sarebbe bastata una notte accanto a lui per farlo sentire al sicuro?
   Non avevano parlato più da quella mattina. Ogni pochi minuti Will controllava che il piccolo fosse ancora dove l’aveva lasciato, o lì intorno. La tentazione era troppo forte. E anche l’apprensione.
   Ormai si era fatta sera. La cena era quasi cotta. Will si sporse con la testa nel salotto immerso nella penombra. La luna batteva sui vetri scintillanti, ma lui comunque fece fatica a trovare William, nascosto tra i mobili.
- Dai, vieni qui, è pronto da mangiare.- lo invitò.
   Il bambino non si mosse. Anzi, guardò torvo in direzione della cucina.
   Will fece capolino nella stanza e lo trovò ancora lì, sulla poltroncina, con le gambe e le braccia incrociate. Scrutava fuori dalla finestra, ora, oltre la quale splendeva un cielo pieno di stelle.
   Will ne approfittò per avvicinarsi un po’. A un leggero scricchiolio del pavimento, tuttavia, il bambino si girò e lo inchiodò lì dove era. Will ebbe paura a continuare. Quello del piccolo non era uno sguardo rassicurante, tutto il contrario: era ancora arrabbiato.
   Will si accovacciò a terra, indeciso. Non aveva avuto mai nessuna esperienza con nessun bambino. Non aveva la più pallida idea di come si dovessero prendere. Non sapeva se doveva dire qualcosa, o fare qualcosa di particolare. Lui non era mai stato padre prima d’ora. Purtroppo.
- Vieni.- lo esortò, allungando una mano – Avrai fame.-
   Silenzio dall’altra parte. William non ne voleva sapere di spostarsi da dov’era. Fermo immobile su quella poltroncina, si puniva di una birbanteria che non aveva commesso. Ormai era tutto il giorno che era in castigo. Will non ne poteva più di vederlo così.
   Si rialzò, andò in cucina e prese due tozzi di pane. Poi tornò e si sedette nello stesso punto di prima. Guardò intensamente il piccolo, che era stato incuriosito dai suoi movimenti e ora lo osservava. Will cominciò lentamente a sgranocchiare uno dei due pezzi di pane.
   William continuava a rimanere zitto, nonostante gli occhi lucidi. Doveva avere una fame da lupi. Will attese, per quanto fosse difficile e doloroso attendere un gesto che poteva non arrivare mai. Aveva vissuto quella situazione con Elizabeth, per anni, e ora la riviveva accanto a quel figlio. Doveva aver molti conti da saldare, su quella Terra, se Dio gli aveva assegnato una simile pena.
   Tuttavia, i risultati non si fecero attendere troppo. Dopo una manciata di minuti, il piccolo William si sciolse dalla posizione che aveva tenuto per tutte quelle ore e si sgranchì le gambette ancora corte. Continuava a fissare Will, che non si mosse. Aspettò stoicamente, fermo al suo posto. Finchè il bambino non si decise a scendere da quella poltrona, occhi negli occhi, e a tentare qualche passo caracollante verso di lui. Doveva essere tutto indolenzito, pensò Will. E fu difficile non scattare per prenderlo in braccio.
   In compenso, gli offrì l’altro pezzo di pane, ancora intonso, con un sorriso. Per quanto segnato dagli eventi, era pur sempre un sorriso. Will sperò fosse abbastanza.
   Appena fu più vicino, il bambino allungò una mano per prendere il cibo; ma fu anche lesto a scappare via, verso la finestra. Will fece per balzare in piedi, poi si ricordò che aveva sigillato ogni via di scampo e allora si permise di rilassarsi.
   William non sembrava avere nessuna intenzione di scappare. Si era seduto sotto la finestra e contemplava la luce della luna, che disegnava forme strane sul pavimento. Addentò il pezzo di pane, ne staccò una parte: ma la sua fame era così tanta che in meno di un minuto lo aveva già finito. Spazzò via le briciole intorno a lui. Finalmente si accorse di Will, ancora seduto all’altro capo del suo mondo.
   Non disse nulla. Si trascinò sul pavimento fino al centro della stanza. Aveva lasciato una scia nella polvere del legno, e Will si vergognò tantissimo dello stato pietoso della sua casa: senza una donna, altro non era che un covo per la sudiceria. Si ripromise che l’indomani avrebbe fatto qualcosa, una volta tornato dal lavoro.
   Adagio, offrì a William anche quello che restava dell’altro tozzo di pane. Il bambino questa volta fu rapido a mettersi sulle quattro zampe e a gattonare verso di lui: afferrò il cibo con cupidigia, se lo portò alla bocca e si rimise seduto per mangiarlo. Questa volta non si era allontanato, anzi.
   Will non disse niente, si limitò a guardarlo. Anche il bambino lo guardava. Forse lo studiava. Will invece si stava solo concedendo quello che per sei anni gli era stato negato: la morbidezza di quei capelli, la luce che William aveva nelle iridi. Si godeva ogni smorfia che il piccolo faceva con un angolo della bocca, il suo nasino all’insù. Al tempo stesso, cercava di trasmettergli tutto l’amore che poteva, perché di quello si trattava: gli voleva già bene, anche se erano due perfetti sconosciuti.
   William non sembrava intimorito dalla sua presenza. Aveva poggiato le mani sul pavimento e lasciava impronte nella sottile polvere; osservava quelle forme con aria interessata, e alzava lo sguardo solo di tanto in tanto. Probabilmente per assicurarsi che Will fosse ancora lì.
   Will gli lasciò il tempo di prendere confidenza con quel luogo e quei giochi, approfittandone, intanto, per imparare. Tracciò un sottile disegno tra di loro, con un movimento lento, perchè William non si spaventasse: abbozzò malamente due figure umane, una più grande e una più piccola, che si tenevano per mano.
   Il bambino esaminava il tutto in silenzio.
   Will riguardò quello schizzo e si mise a ridere. Era un pessimo artista. Ma ci aveva provato. Era il suo modo per far capire al piccolo quanto già teneva a lui.
   Allungò amichevolmente una mano. Il bambino lo guardò interrogativamente: era vuota. Will capì al volo e rise ancora, sommessamente:
- Andiamo?- chiese dolcemente.
   Il piccolo lo guardò. Poi si alzò da terra, scavalcò la sua mano e andò in cucina.
 
   Anche in cucina, la situazione non volse molto a suo favore. Il piccolo William non aveva spiaccicato una sola parola, a tavola, e a malapena aveva sfiorato il cibo. Se ne stava come impalato su quella seggiola, sulla quale Will aveva collocato un cuscino perché potesse stare più comodo; magari perché potesse arrivare al piatto. Gli sembrava che potesse funzionare, ma il bambino non aveva fiatato e non si era mosso per tutti quei lunghissimi minuti in cui lui aveva consumato la frugale cena. Will era preoccupato.
   Gli aveva chiesto se desiderasse mangiare qualcos’altro. Se non gli piacesse. Se avesse potuto fare qualcosa per lui. Ma William aveva scosso la testa, chiuso in un ostinato silenzio.
   Will aveva tratto un sospiro sconfortato. Non sembrava avessero molto da dirsi, per il momento. Il tempo di una mela sbucciata fin troppo lentamente era bastato a fargli capire che per quel giorno non sarebbero andati più in là di così.
   Con una calma quasi esasperante, Will aveva sparecchiato, lasciando però davanti al bambino il suo piatto ancora quasi intatto. Sperava che, non più costretto a sottostare al suo sguardo indagatore, il piccolo cedesse e si facesse tentare dalla carne arrostita, per quanto poco invitante potesse apparire. Ma era commestibile, anzi, quasi buona.
   Così, aveva raccolto piatti e ciotole e si era tolto dal tavolo. Aveva già preparato una bacinella piena d’acqua per lavarli. Anche se con riluttanza, aveva infine girato la schiena a William, senza più rivolgergli una parola. Soffriva molto nel doverlo lasciare lì, come un cane abbandonato, ma non sapeva che cosa fare. Sentiva di avere le mani legate.
   Cominciò a strofinare i piatti e la pentola con la quale aveva cucinato. La presenza di William era impalpabile come un battito d’ali. Si sentiva immensamente solo, più di quando lo era stato per davvero, dopo che Elizabeth se n’era andata. Si arrovellava su cos’altro fosse in suo potere fare, senza l’ausilio di Jack Sparrow.
   Che fosse maledetto.
   Stava lavando i suoi piatti, quando, nel nulla, la piccola voce di William si levò altissima:
- Tu ti chiami come me.-
   A Will per poco non cadde la pentola di mano: William aveva parlato!
   Mollò tutto nella bacinella con l’acqua e si voltò per ascoltarlo. Il bambino lo stava guardando intensamente, indeciso se continuare o meno a concedergli quella confidenza.
   In quel viso, Will rivide tutto il suo passato. Rivide sua madre che l’aveva cresciuto, educato e protetto; il suo forsennato bisogno di sapere da dove veniva, di chi era figlio, e del perché non fosse stato possibile per lui vivere una vita come tutti gli altri ragazzi; rivide suo padre quando non c’era, e anche quando infine l’aveva ritrovato, e perso per sempre; rivide Jack, e Élodie.
   Tutte quelle cose lo investirono alla velocità di una carrozza in corsa. Deglutì:
- Sì...- rispose poi, semplicemente.
   Il bambino sembrò recepire malissimo quella risposta. Si puntellò contro il tavolo per spostare indietro la seggiola su cui era seduto, poi sputò fuori:
- Perché?-
   Will rimase per un attimo interdetto, le labbra incollate attorno alla sua impotenza.
   Non glielo poteva spiegare. Non poteva dirgli perché. Non poteva dirgli perché lui era suo padre. Non dopo sei anni. Non avrebbe capito. Lui non voleva essere come altri padri, che tornano nel momento più bello, solo per rovinarti la vita con la loro ingombrante presenza. A pretendere un posto nella tua esistenza, come se ci fossero sempre stati. Ed aspettarsi pure che i figli siano felici, dopo che questi hanno imparato a fare a meno di loro.
   Per quello e per altro che ora non gli sovveniva alla mente, Will lasciò il piccolo al tavolo e si accinse a pulire le stoviglie, senza aver replicato alla sua domanda:
- Mi sa che dovremo stare insieme per un po’...- gli comunicò, quasi per caso, dopo qualche istante di silenzio.
   A quel punto, William scattò in piedi:
- Perché?!- strepitò – Perché devo stare qui?! Io non voglio! Voglio la mia mamma! E anche zio Jack!-
- Lo so, lo so...- e lui non gli disse quanto quelle parole gli facevano male – Io credo che li rivedrai presto.-
- Anche tu dici sempre “presto”, come zio Jack.-
   Will strinse forte il piatto che aveva tra le mani. Non poteva sopportare di essere paragonato a quel pirata da strapazzo:
- Il mio “presto” è molto diverso dal suo, William.- affermò bruscamente.
   Il bambino non si fece intimorire: ora sporgeva bellicosamente il labbro in fuori, un gesto che Will avrebbe imparato a decifrare in fretta, per poi intervenire in tempo. Pena: la rabbia implacabile di William.
- Chi sei tu?- il piccolo gli si affiancò, ma lui continuò ostinatamente a lavare quei piatti – Voglio sapere chi sei tu!- gli tirò un pugno innocente contro la gamba.
(già, chi sono io?)
   Will non rispose. Il bambino afferrò i suoi pantaloni e li scosse furiosamente, chiamandolo con insistenza. Voleva sapere. Voleva sapere tutto. Tutto e subito.
   Dopo un attimo di pausa, Will trasse un sospiro:
- Ti ho sentito, William.- sospirò.
   Il bambino continuò, senza dare cenni di averlo udito. Era sempre più insistente e scoraggiato:
- Perché non mi rispondi?! Perché non dici la verità?!- ormai quasi urlava.
    Will chiuse gli occhi, in cerca di un attimo di pace. Da quel che capiva, chiaramente, non gliel’avevano spiegato: William non sapeva nulla di lui. Né Élodie né Jack dovevano essersi soffermati più di tanto. Era così maledettamente evidente. Will si sentì soffocare:
- Non lo sai chi sono io, William?- tentò.
   Ci fu un momento in cui il cuore del mondo si fermò. Poi, riprese a battere:
- Io non ti conosco.- asserì il piccolo.
   Will fece uno sforzo sovrumano per non piangere. Ci doveva essere una spiegazione, ci doveva essere un motivo, per quanto amaro e ingiusto: non poteva credere che per sei anni, sei lunghi anni, nessuno avesse raccontato a William di suo padre.
   Doveva scoprirlo. Ma non ora, non quel giorno. Quel giorno erano veramente successe troppe cose. Il suo cuore era già troppo vecchio per certe emozioni: dopo quella domenica gli erano rimaste ben poche energie da sprecare.
- Meglio così, per ora.- sentenziò.
 
   Aveva sistemato in fretta il letto della sua camera, aveva scelto lenzuola pulite e aveva cambiato le federe; se non altro, per non dare l’impressione dello straccione.
   Per quanto inatteso, scorbutico e zozzo potesse essere il suo piccolo ospite, non aveva intenzione di dimenticare alcun riguardo, tanto più che si trattava di un membro della famiglia. Anche se non era previsto.
   Mentre lui si dava da fare, il bambino era rimasto sulla soglia della stanza, ad osservarlo. Lo osservava sempre, come se dovesse coglierlo in fallo da un momento all’altro, e magari rinfacciargli qualcosa che era emerso dopo sei anni di silenzi, chissà. Ma non aveva proferito più parola da quando avevano riposto i piatti. Tutto ciò che era venuto dopo si era svolto nella più assoluta incomunicabilità, rafforzata da un ritrovato e ancor più tenace mutismo di William. Del resto, nemmeno Will si sentiva particolarmente loquace, quella sera.
   Una volta terminato, indicò al piccolo che poteva mettersi sul letto. Quello obbedì senza troppe cerimonie. Forse era stanco, almeno a giudicare dall’enfasi con cui si era abbandonato sulle coperte fresche di bucato.
   Will lo lasciò solo. Andò in bagno e si sciacquò la faccia con dell’acqua fredda. Quel contatto lo rinvigorì e lo svegliò, anche se ormai era ora di andare a dormire. Ma lui era ugualmente stremato.
   Approfittò di quel momento di lucidità per spogliarsi e darsi una lavata veloce. Si sentiva sudato dappertutto, nonostante quella ricevuta quel giorno fosse la doccia più gelida che si ricordasse.
   Il lume della candela rischiarò per un attimo i suoi tratti contro la finestra. Aveva i capelli un po’ più lunghi, annodati in un codino. C’erano nuove rughe sulla sua pelle, lì dove non ce n’erano mai state, lì dove non batteva la luce. Pochi avrebbero potuto vederle, ma lui sapeva che c’erano. Lui, quelle rughe le sentiva fino in fondo all’animo.
   Quando si scostò per indossare una camicia nuova, lo specchio gli restituì un’immagine sporca, livida, così diversa da lui. Poco prima che la stoffa gli scivolasse addosso, Will rivide per un attimo il tatuaggio che si era fatto disegnare sulla spalla, tempo prima: rappresentava una sirena, la lunga chioma che si attorcigliava alle squame di pesce e alle braccia, protese verso il nulla. Oppure verso tutto, tutto quello che in quel momento gli mancava. C’era una sola persona al mondo che ne portava uno uguale.
   Élodie Melody Sparrow.
   Elizabeth si era sempre chiesta il motivo di quel bizzarro regalo di compleanno che Will si era fatto, poco tempo dopo la loro ultima avventura piratesca. Era sparito per una mattinata intera, per poi tornare a casa con la spalla dolorante e una fasciatura sotto i vestiti. Lei non aveva capito. Ma lui sì.
   Quel tatuaggio era per non dimenticare.
   Quando Will tornò nella sua stanza da letto, passandosi ancora una volta le mani sul volto tirato, vide che il piccolo William era già sparito inghiottito dalle lenzuola. Non c’erano abiti smessi, lì in giro, quindi indovinò che nemmeno si era spogliato, o cambiato: un chiaro segno di disagio, che spingeva il bambino a non volersi mescolare più di tanto con l’ambiente che lo circondava. Will trasse un sospiro malinconico.
   Stare in sua compagnia non sembrava essere una prospettiva molto allettante.
   Notò che, nonostante la stanchezza, il suo piccolo teneva gli occhi ancora faticosamente aperti. Will si appoggiò allo stipite della porta, esausto. Il rumore riscosse il bambino, che si girò di scatto e lo fissò con quei suoi occhioni scuri:
- Perché non dormi, William?- gli chiese Will.
- Perché zio Jack potrebbe tornare.- rispose seccamente il piccolo.
   Al nome di Jack, Will sbuffò pesantemente, forse senza volerlo. Ma se ne rese conto dal modo ostile con cui William lo guardò. Subito cercò di correggere il suo per niente irreprensibile comportamento:
- Non penso tornerà stanotte, William.- argomentò.
- Come lo sai?- lo interrogò il bambino, sempre più sul chi va là.
   Will sentì il sudore che si impadroniva di nuovo di lui; in più, stava per piegarsi al sonno. Troppe emozioni in una volta, ora ne risentiva.
- Conosco tuo zio...- spiegò stancamente – e conosco i suoi tempi.-
- Lui torna sempre!- sbraitò il piccolo – Sempre! Quando scende dalla nave, poi torna sempre! Non ha mai sbagliato. Io lo aspetto.-
   Will capì che convincerlo sarebbe stato come tentare di cavare un ragno dal buco: impossibile.
- Vuoi che dorma qui con te, mentre lo aspetti?- si arrese.
- No. Io non ho paura dei fantasmi.- replicò con convinzione il bambino.
   Benchè non fosse esattamente la risposta che si aspettava, Will era troppo spossato per controbattere. Così, annuì e sbadigliando raggiunse una sedia poco lontana, la avvicinò alla porta della camera e si sedette. Faceva così caldo che non pensò di aver bisogno di una coperta. Ciò che il clima non avrebbe potuto, ci avrebbe pensato la sua agitazione. Sperava soltanto di riuscire a chiudere occhio per un paio d’ore.
   L’indomani sarebbe stato lunedì e ciò significava tanto lavoro alla fucina: tanto lavoro, pochi pensieri. Questa era l’unica certezza di cui aveva il lusso di potersi lusingare.
 
   Quella notte ripensò a suo padre. Mentre William dormiva placidamente di là, dopo una breve seppur inutile veglia, Will non poteva impedire alla sua testa di continuare inesorabilmente a intrecciare collane di pensieri scordati, quasi a volerlo prendere in giro.
   Tra le varie visioni che la notte insonne gli riservò, il ricordo di Bill “Sputafuoco” Turner era il più vivido. Nel dormiveglia, in qualsiasi posizione Will cercasse di sistemarsi sulla dura sedia, rivedeva il viso del genitore, scomparso tempo prima. Ripercorse con la memoria i pochi suoni che rammentava della sua voce, frammenti di una vita precedente che poi Will aveva abbandonato. A quel tempo, credeva ancora di avere un padre e di doverlo trovare, per conoscerlo meglio. Forse per reclamare una carezza che non era mai arrivata.
   Ora che si ritrovava a essere come lui, con un figlio a carico, si rendeva conto dell’enorme responsabilità che gravava sulle sue spalle. Ma al contrario del vecchio genitore, di cui aveva recriminato il menefreghismo a favore di una vita da marinaio, Will intendeva appropriarsi di ogni odore e sapore che quella nuova condizione gli regalava, o a cui lo condannava. Aveva messo al mondo un figlio. Volente o nolente, non poteva certo far finta che non fosse mai accaduto. Non voleva essere come chi nega l’importanza di avere un erede.
   Instillati in lui, come pietre preziose, c’erano gli insegnamenti che sua madre gli aveva impartito: lo aveva cresciuto in un ambiente ostile alle donne come lei, madri e mogli di una chimera perduta in mare, ma come un’edera lei si era eretta a paladina della sua giustizia e della giustizia per suo figlio. Will.
   Non era più tornato in Inghilterra da quando l’aveva lasciata per andare a cercare suo padre per mare. L’ultima cosa che ricordava di sua madre era quel bacio che le aveva stampato in fronte quando, poco meno che quindicenne, si era imbarcato su una nave diretta ai Caraibi. Da allora, aveva mandato solo alcune lettere, due delle quali erano rimaste senza risposta. Aveva pensato a qualsiasi cosa: che le missive si fossero perse per strada, che fossero state recapitate alla casa sbagliata, di aver dimenticato di includere un indirizzo al quale la madre avrebbe potuto scrivergli. Ma non aveva mai avuto il tempo di controllare. Con i mesi, e poi con gli anni, anche quella era diventata un’incombenza come tutte le altre; alla fine, aveva lasciato stare. Lui ormai era un adulto.
   Più adulto di così, più adulto di quella sera, però, non si era mai sentito. Forse avrebbe avuto bisogno di riceverlo lui, quel bacio sulla fronte, adesso. Sentirsi cullato dall’odore delle frittelle, come allora.
   Frittelle! Forse avrebbe potuto comprarle per William. Certo, come se con un po’ di frittelle si potesse comprare anche il suo affetto. Will si mosse a disagio, nel sonno. Cavalloni densi di preoccupazioni si riversavano nella sua mente ottenebrata. L’indomani sarebbe stato un altro giorno, per fortuna.
   O per disgrazia.
 
   Non potendo star tranquillo per tutta la notte, visti i nervi a fiori di pelle, Will si alzò dalla scomoda sedia appena i primi raggi di sole illuminarono la sua casetta. Si stiracchiò, dolorante in ogni fibra, ma sufficientemente vigile per cominciare la giornata. Si guardò attorno, leggermente spaesato, poi si sporse per controllare il suo letto.
   William dormiva ancora.
   Will sospirò di sollievo. Cercando di non fare rumore, scese le scale e si infilò in cucina. Di solito non faceva mai colazione, andava dritto al lavoro e magari si fermava lo stomaco lungo il tragitto. Avrebbe potuto portare con sé William e non cambiare una virgola delle sue vecchie abitudini ma, chissà perché, avrebbe tanto desiderato fargli trovare qualcosa di buono lì a casa, per quando si sarebbe svegliato. Poteva permettersi aspettare ancora un po’, essendosi svegliato in anticipo.
   Stava rovistando nella dispensa, alla ricerca di qualcosa di commestibile, quando un rumore improvviso gli fece correre un brivido giù per la schiena. Era una specie di cigolio, come di qualcuno che pesta il legno in punta di piedi ma quello scricchiola sotto il suo peso. Will si irrigidì e subito si voltò, brandendo un coltellaccio abbandonato sul mobile.
   Troppa la foga e troppo il disturbo. Sulla soglia della cucina Will si ritrovò faccia a faccia con un assonnato William:
- Santo Cielo...- si lasciò sfuggire.
   Il bambino si stropicciò gli occhi, per niente turbato. Forse era ancora nel mondo dei sogni.
- Sei andato via...- bofonchiò.
   Will, il cuore che batteva a mille, ripose cautamente il coltello in un cassetto. Non immaginava neanche lontanamente che il bambino potesse essersi accorto della sua assenza. Andò da lui e gli si inginocchiò di fronte; visto che quel giorno sembrava molto più propenso a farsi avvicinare, ne approfittò spudoratamente.
- No, non sono andato via. Sono qui.- accarezzò un braccio del piccolo.
   Ma quello si scostò:
- Ho fame.- si lamentò.
   Per Will fu come un fulmine a ciel sereno. Scattò verso la credenza e raccattò vecchio pane e marmellata di more in un vasetto già aperto. Rovistò più a fondo ma non c’era niente di appetibile, sul serio. Forse aveva un po’ di margarina...
   William si sporse in salotto. Girò la testa di qua e di là, come a cercare di vedere qualcosa. Però non lo trovò. Si voltò di nuovo verso Will, rimasto immobile ad osservare:
- Zio Jack non è tornato.- annunciò tristemente.
   Will capì. Sospirò. Posò la magra colazione sul tavolo, poi andò a prendere William. Sembrava incredibilmente docile, quella mattina. Per la prima volta osò allungare le mani per prenderlo in braccio; per la prima volta, il piccolo lasciò fare.
   Will lo strinse delicatamente a sé, inizialmente timoroso. Poi lo sollevò e se lo caricò a cavalcioni su un fianco. William trovò un appiglio sicuro per la sua confusione, anche se quel petto e quelle ossa erano a lui estranee. Will lo riportò in cucina, mentre il bambino si stringeva forte al suo collo. Sembrava non volesse più lasciarlo andare.
   Tuttavia, quando Will sistemò il piccolo su una sedia, vide che il suo visino era di nuovo rigato dalle lacrime.
(jack...maledetta canaglia!!!)
   Subito accorse con pane e marmellata:
- Tieni, mangia.- lo incoraggiò.
   Il bambino cominciò lentamente a trangugiare. Will lo osservava, a debita distanza, ma già con un primo sorriso che sbocciava a un angolo della sua bocca. Avrebbe passato ore, forse anche tutta la vita che gli restava, a guardarlo. Guardarlo mangiare, guardarlo ridere, giocare, crescere. Gli sarebbe stato vicino. Quello era il suo compito.
   Will appuntò poi lo sguardo sulla finestra. Si rese conto che il sole era già volato alto nel cielo, i suoi raggi scaldavano ormai i vetri sporchi.
   Era in ritardo!
   Senza l’ombra di una spiegazione corse di sopra, lasciando il piccolo con un palmo di naso. Svelto, si infilò quel che gli restava del suo abbigliamento, tanto per rendersi vagamente presentabile, poi sfrecciò di sotto.
   Preso William per mano, lo trascinò verso la porta:
- Presto, figliolo! Dobbiamo correre!- gli ingiunse.
- Dove andiamo?- chiese il piccolo, incerto.
- Devo andare a lavorare!- chiarì sommariamente Will – E tu verrai con me! Ti divertirai!-
   Cercava di sorridergli, ma il tempo stringeva e non voleva rischiare di dover dare troppe spiegazioni. Pensava, forse ingenuamente, che non cambiare una virgola della sua tabella di marcia non avrebbe causato disagi a nessuno, e che quindi nessuno si sarebbe disturbato a fare domande. Magari avrebbe anche potuto funzionare, tutto questo; purtroppo per lui, tuttavia, Will non aveva tuttavia tenuto conto della sua vicina di casa.
   Come sgusciò fuori dalla porta, infatti, l’immancabile e vetusta signora sbucò fuori anch’ella, e pure stavolta non perse occasione di scambiare due parole con il suo beniamino. Will una volta l’aveva aiutata con una finestra difettosa, e da quel momento si era inconsciamente autoproclamato suo secondo figlio. Quanto gli era costata cara quella confidenza!
- Ciao, Will!- gracchiò la vicina – Dove scappi?-
- Al lavoro!- Will le sorrise, ma non si fermò. Il piccolo William gli sgambettava dietro, col fiatone, senza nemmeno il tempo di guardarsi in giro.
   Il verbo “scappare” non poteva essere che il più appropriato per descrivere quel frangente.
- Ma chi è quel bel giovanotto?- ciarlò tutta contenta la signora, che per quel giorno aveva già ricevuto la sua razione di felicità.
   Will si bloccò sul vialetto, con il piccolo al seguito. Trattenne il respiro per un lungo momento, che a lui sembrò eterno. Stringeva convulsamente la manina di William e si era voltato lentamente verso l’anziana vicina, fissandola come se stesse parlando con un alieno.
- E’...- balbettò, insicuro.
   Poi, rendendosi conto che non poteva mettere così a repentaglio la segretezza su cui Jack si era tanto profusamente dilungato, decise che una piccola bugia era d’uopo. Anzi...avrebbe potuto salvargli la vita.
- Mio nipote.- sorrise, cercando di essere convincente – Dalla Martinica.-
   La signora parve compiaciuta:
- Oh, che meraviglia!- battè le mani, come una nonnina rallegrata dall’arrivo dei parenti – Un pupo stupendo!-
   Will sentì i brividi che gli correvano giù per la schiena. Inconsapevolmente, anche il piccolo William ne ebbe uno in risposta a quella voce stridula.
- Dobbiamo andare.- dichiarò Will, tirando il bambino.
- State attenti!- li avvertì d’un tratto la vecchia – Non passate per il porto! E’ pericoloso!-
- Cosa?- Will si fermò di nuovo, e il piccolo con lui. Non capiva il motivo di tante brusche soste e scalpitava al pensiero di andare oltre al cancello di quella casa.
   Una volta fuori, alla prima occasione avrebbe potuto andare a cercare zio Jack.
   Will era stato distratto dalle chiacchiere della vicina, quindi non gli prestò molta attenzione. Il piccolo si guardò intorno: era lo stesso cortile, la stessa strada che il giorno prima aveva percorso mano nella mano con suo zio, ma d’un tratto gli pareva tutto diverso. Se il giorno prima era sembrato tutto un’allegra gita, ora quelle rappresentavano le pareti della sua prigione. Voleva guardarsi in giro, appropriarsi di quella realtà nuova per poi sfuggirle. Non era il suo posto, lui era solo stato momentaneamente piazzato lì. Non intendeva perdere altro tempo.
   Will, sempre tenendo per mano il piccolo, si era avvicinato allo steccato che divideva la sua proprietà da quella della signora:
- Cosa è successo?- indagò. Aveva appena avuto una visione: Jack che scappava da Dio solo sa cosa. Ma, forse, la vicina sapeva cos’era.
- C’è stata battaglia...- ansimò l’anziana, avvicinandosi stancamente sul prato ben curato – Non hai sentito le palle di cannone?-
“A dire il vero, no”, pensò Will. Probabilmente si era già addormentato, a quel punto della notte. Niente di cui stupirsi: l’anziana vicina non dormiva quasi mai.
- Fuori Port Royal...- continuò la signora – Hanno beccato dei pirati.-
   Will sentì il sangue che si gelava nelle vene
(jack!!!)
   Avrebbe voluto mettersi a urlare.
   Involontariamente, strinse forte la mano di William; lui cominciò a piagnucolare e dimenarsi, stizzito. A quei gridolini soffocati, Will si riebbe, in tempo per essere investito da una nuova ondata di piena da parte della vicina:
- Sì, sì, sì!- trillò, agitata – Pirati! Bricconi! Poco di buono!- e ogni insulto era un colpo al cuore, per Will – Dovrebbero sterminarli tutti! Tutti, dico io! Questa volta li hanno quasi presi! Hanno loro sparato addosso con i mortai: non si avvicineranno più tanto facilmente! Per fortuna adesso c’è Lord Bellamy a proteggerci...-
   A quell’appellativo, le sopracciglia di Will si aggrottarono da sole. Chi era questo Bellamy? Mai sentito nominare. Era nuovo a Port Royal?
   Lo chiese alla vecchietta, ansiosa di raccontare:
 - Non conoscete Lord Bellamy?- si sorprese – Ma come? Il suo nome è così famoso, ora! E’ uno dei più grandi cacciatori di taglie di tutti i tempi! Ci penserà lui a spazzar via i pirati, come se fossero tutte cartacce! Vivi o morti, lui li prende tutti!-
   Will strabuzzò gli occhi. Possibile che non avesse mai sentito parlare di un tipo del genere?
   Lei riprese fiato:
- E’ agli ordini della Marina, adesso. La Marina lo ha assoldato per fare piazza pulita di ogni manigoldo da qui a mille miglia intorno: e lui lo farà! Ne sono sicura! Lui è molto potente, sai, Will? Lui è molto forte e molto astuto. Alcuni dicono persino che sia stato un pirata, in una vita precedente, ma io non ci credo! Una mente tanto acuta non può puzzare di marcio!- era così infervorata che Will credette di dover assistere, di lì a pochi minuti, al suo primo infarto – Certamente, ci sarà un’altra spiegazione. Lord Bellamy ci salverà dalla marmaglia! Li prenderà!- sorrise.
   Will era raggelato. Avrebbe voluto chiedere altri dettagli, scoprire come era finito lo scontro della notte prima, ma non ne ebbe il coraggio. Un dubbio serpeggiava lascivo tra le sue scapole, riempiendo il suo torace di acqua nera come melma. Will non poteva essere certo che la nave pirata fosse proprio quella che attendeva Jack Sparrow di ritorno dalla sua missione, ma c’erano buone possibilità. Possibilità che lui non aveva tempo di vagliare, quella mattina.
- Grazie!- si congedò in fretta e furia dalla signora. Doveva correre al lavoro.
   William, sempre più confuso, riprese a sgambettare dietro di lui.
  
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