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Autore: Akita    16/02/2009    1 recensioni
Storia sospesa a tempo indeterminato.
Seguito di "Memorie Dei Rinnegati-La Figlia Delle Spie".
Sono ormai passati tanti anni dal terribile viaggio di Lsyn Amarto, un tempo figlia delle Spie.
Molte cose sono cambiate. Primo, lei stessa. Di nuovo il destino tornerà ad incombere su di lei, e su chi ama, come una nuvola scura. E, di nuovo, bisogerà lottare con le unghie e con i denti per conquistarsi il diritto di alzare il capo verso la vita.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie dei Rinnegati.'
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Importante, per ciò che fu, fu ciò che successe un giorno che, all’apparenza, era cominciato come gli altri

Importante, per ciò che fu, fu ciò che successe un giorno che, all’apparenza, era cominciato come gli altri.

O meglio, non del tutto.

Era un bel giorno d’inverno inoltrato, lo ricordo ancora.

Accidenti. In realtà non è proprio così. Quello che mi portò ad un nuovo viaggio fu qualcosa che si svolse in più tempo. Mi rendo conto che, in realtà, non c’è un giorno in cui iniziò tutto. Diciamo che, da quel momento, cominciarono a svelarsi molte cose.

Faceva un freddo cane, e, anche se non c’era neve, quell’anno, si era messo un vento fastidioso che detestavo. Convivo benissimo con la pioggia, adoro il gelo e la neve. Ma il vento no.  Il vento non fa altro che scompigliarmi i capelli, gonfiandoli, ed insinuarsi dappertutto, gelandomi anche quando ero ben vestita contro il freddo. Come tutti i giorni della mia solita, monotona vita solitaria, mi ero svegliata non appena l’alba si era alzata. Sentivo, come ogni giorno, Amarto e Dae parlottare da dentro. Loro due si svegliavano molto, molto prima di me. Ero di cattivo umore. Ero sempre di cattivo umore quando c’era quel vento, che faceva tremare le imposte della casa come durante un terremoto. Avevo mugugnato, tirandomi fino al naso le coperte. Era ancora tutto buio nella mia camera, e non vedevo in modo egregio. Ma, solo la vista dell’ombra di tutti i documenti, carte, mappe e cartacce varie, bastava per gettarmi nello sconforto più nero. Odiavo le scartoffie. Le ho sempre detestate, no? Quella era la parte noiosa di tutto il mio mestiere di Ch’argon. Di solito, era divertente. Quel giorno, inoltre, avevo un motivo in più per non volermi svegliare. Da qualche giorno ci era giunta notizia di un gruppo di briganti che stavano devastando il confine sud di Uruk, banditi elfi che mettevano tutto a ferro e fuoco, e, a quanto pareva, stranamente ben equipaggiati, e ben addestrati. Anche se non portavano nessun insegna, tutti noi sapevamo benissimo che quelli erano tutt’altro che semplici criminali. Un piffero, briganti. Eravamo più che sicuri che si trattasse di uomini di Galinne mascherati. Non era la prima volta che accadeva. Sapevamo che il grande Regno non voleva altro che una scusa per assaltarci, assalirci ed inglobarci. Il più segreto desiderio di Lainay era quello di divorare anche quello sputo di terra che era il Matriarcato. Eravamo elfi, e tanto bastava. Non le riusciva concepibile, a quanto pareva, che creature della stessa razza e dello stesso sangue, un manipolo d’idealisti dalle orecchie come le sue, dalla stessa vita lunga, cercassero di sfuggire alle sue mani ingorde. Era impensabile che, aiutata dai mercanti Insathi, che erano divenuti una risorsa davvero enorme, una nazione commerciasse sottobanco con gli umani, che avesse relazioni quantomeno tiepide con loro. Impossibile, che esistesse qualcuno libero di pensare, di gridare il proprio disappunto per quella vita. Già era tanto che si limitasse a ficcare il naso negli affari di Fiya e di tutti i regni, da cui gli elfi erano stati espulsi, una mossa davvero sciocca. Lei si era approfittata immediatamente di quel calo di popolarità, di quell’arrivo di mercanti e ricchi tutti della nostra razza. Aveva confiscato le case ai nobili umani, espropriando le loro ricchezze, riducendoli in miseria. Tutto quello era andato in regalo agli esuli. Il Regno aveva una casta di potenti al potere che era fedelissima ad una regina che non faceva altro che, per loro, del bene. Chi era contro quell’orribile regime non aveva che due possibilità: sparire o essere ucciso.

La Regina aveva fatto in fretta a mettere a tacere ogni dissenso. Tanto per far stare buoni gli umani dei regni liberi, aveva concesso loro qualche città, tutte bene distanti dalle altre, ma le persecuzioni rimanevano. Mentre mi alzavo, mugugnando ed avvolgendomi in un qualcosa di più pesante, riflettei. Eravamo in una posizione davvero pericolosa, sul filo di un rasoio. Accerchiati da uno dei regni più potenti mai visti sulla faccia della nostra terra. Il più grande. Il più pericoloso, senza dubbio. Eppure, gli elfi che facevano parte di Normar amavano tutta quella nuova, inaspettata ricchezza. Il popolo era cinico. Una macchina di morte. Ad essi bastavano nuove case, nuove terre da coltivare, nuovo cibo, nuovi intrattenimenti. Poco contava che essi fossero terribili combattimenti tra morti di fame che vendevano la propria abilità con le armi per lottare, o altre perversità del genere. Agli elfi piaceva vedere gli uomini sgozzarsi tra di loro.

La mia natura di Ch’argon odiava queste cose. Io stessa odiavo tutto quello che stava accadendo. L’impressione che Uruk fosse davvero in una situazione critica l’avevo avuta, più di una volta. Avevo ricevuto lettere minatorie che mi avevano spaventato, dopo anni di silenzio. Avevo paura. Non volevo morire. Avevo troppe cose da fare. Le Spie erano tornate a ronzare nel castello. Eravamo stati costretti ad istituire un comando speciale per stanarle, di cui io ero a capo. Tutti volontari, ovviamente, legati solamente dalla promessa di stare in silenzio. Se solo avessero voluto togliersi da quel giro, lo avrebbero fatto senza problemi, a condizione di non rivelare nulla sui nostri obiettivi. Avevo così ripreso almeno un po’ il mio vecchio mestiere di Spia. Certo, non era vincolante e gravoso come il mio precedente, ma mi riempiva d’inquietudine. Sembrava che il destino volesse ricondurmi a ciò che facevo prima. Io mi ero rifiutata di cedere alla smania dell’assassina. Quelle volte che avevo trovato Spie a palazzo le avevo consegnate in altre mani. A volte avevo riconosciuto in loro vecchi colleghi. Era straziante. Straziante sentirmi chiamare cagna maledetta, traditrice, da gente con cui avevo condiviso la casa. Se solo avessero saputo quale bestia stavano servendo. Se solo avessero saputo cosa ero stata costretta a subire. A volte avevo cercato di parlar loro. Ma, in tutta risposta, come reazione più gentile mi era arrivato uno sputo dritto in faccia.  Io non reagivo. Provavo enorme pena per quelle persone, destinate ad essere cacciate da Uruk in modo infamante. Isnark, per fortuna, aveva capito il mio dolore, anche se non l’avevo mai confessato. Mi aveva sollevato dall’agire direttamente. Il mio sarebbe stato lavoro di pianificazione. Scartoffie, insomma. Non ho mai amato le carte come allora. Da quel momento, nonostante il mio nuovo ruolo rimanesse gelosamente segreto, lettere minatorie si erano andate a confondere con strane lettere cifrate, lettere che non ho mai più ritrovato. Pazienza. Era un mistero che non mi atterriva né m’incuriosiva. Dovunque finissero, sicuramente nessuno di estraneo me le rubava. Avevo i miei metodi per beccare i ladri, io. Metodi di solito parecchio dolorosi. Bah. Cominciai a vestirmi, assorta. Quel giorno, io ed Isnark avremmo dovuto parlare. Le grane erano vicine. Una nuova, stupida, battaglia era pronta per scoppiare. Era una questione di giorni. Non ero quello che si dice contenta. Odiavo dover combattere.

Insomma, non ci andavo per niente pazza, ma vi ero costretta. Diamine, ero la Ch’argon, avevo una dignità da mantenere. Ero costretta a partecipare alle scaramucce che ad intervalli regolari sorgevano tra noi ed i fantomatici briganti, piccole battaglie, che, di solito, finivano senza troppi morti o feriti. Erano però sfiancanti. Non si sapeva mai dove avrebbero attaccato la prossima volta, e le guardie ai confini spesso non riuscivano a frenarle. Combattere mi seccava moltissimo. Non so, dopo tutto il sangue versato in tanti anni di vita come Ombra, mi ripugnava fare del male a gente pagata per darci fastidio. Quella volta ero più irritata del solito. Non ce la facevo proprio più. Ero stanca. Mi dispiaceva enormemente quella guerra. dei, com’era strano. Duecento anni prima avrei dato un orecchio per dare un paio di fendenti. Ero cambiata. Tantissimo. Il mio spirito era mutato. Mi stavo trasformando in un grasso botolo piagnucoloso. Un altro po’ e mi sarei rinchiusa in casa a fare l’uncinetto con Dae. Io, Lsyn Amarto, la grande Ombra, che per anni aveva terrorizzato elfi e uomini! Mormorando bestemmie contro il mondo intero, mentre cercavo uno stivale che si era ficcato chissà dove, cominciai anche a sentirmi preoccupata. Quella volta avrebbe partecipato anche Machin. Rabbrividivo al solo pensiero. Lui era entusiasta del nuovo ruolo. Non vedeva l’ora, detto esattamente con le sue parole, di pugnare gli  infami felloni. Penso che il teatro gli abbia fatto davvero male. Insomma. Io, comunque, ero un po’ meno contenta. Ero all’erta peggio di un cane da guardia. Machin in battaglia. L’avevo allenato io, di persona, ma comunque tremavo al solo pensiero di vedere il suo viso ilare coprirsi con un elmo non da cerimoniale, le sue mani sottili sporcarsi di sangue. Il mio nipotino era eccitato come un bambino davanti ad un regalo enorme, di fronte a quella nuova avventura. Beh. Era giovane, lo capivo. Non aveva ancora imparato a preoccuparsi ad ogni cosa, non aveva ancora visto la morte in faccia. Era ancora abituato a vivere senza domandarsi del domani, al momento, con il solo pensiero il ricordarsi a memoria la battute per il solo spettacolo al mese a cui poteva partecipare, oppure come renderci la vita un inferno, cacciandosi in guai assurdi. Un paio di volte ero stata costretta a trattarlo come un bambino, ma lo capivo. Alla sua età io ammazzavo già, impunemente, spiavo già, ma lo stesso avevo la testa calda, anzi, bollente. Mi piaceva cacciarmi in nuove avventure, e nulla mi mandava più in visibilio di un bello scontro in campo aperto. Beh. In fondo ero io quella che un tempo era tacciata continuamente di avventatezza estrema, e che ora non faceva un passo senza pensarci prima mille e mille volte. Machin avrebbe imparato ben presto l’ironia terribile della vita. Sarebbe cresciuto anche lui. Intanto io ero preoccupata. Moltissimo. Se solo si fosse fatto un graffio sarei stata capace di mettere a soqquadro il Regno intero. Se solo si fosse fatto anche un livido da niente, avrei strozzato Lainay con le mie stesse mani. E guai a chi mi avrebbe ostacolata!

Appena vestita, mi guardai intorno, cercando di scacciare le nuvole scure che si erano addensate ai limiti della mia mente, e che minacciavano di rovinarmi la colazione e la giornata. Filtrava più luce dalle imposte ululanti, e riuscivo a vedermi intorno. Feci una smorfia irritata. Quella che un tempo era l’ordinata camera di Tijorn era divenuta una discarica. Un tempo era tutto impilato con cura maniacale, quando c’erano ancora i piccoli in casa. Un tempo, rifacevo sempre il letto, piegavo sempre i miei abiti tutti dello stesso colore. Mi ero lasciata andare, troppo. Da quando anche Nilyan aveva deciso di preferire il castello ad una casetta isolata dove una zia asfissiante le impediva anche di fare un passo, le cose erano peggiorate. Anche da giovane non ero nota per il mio amore per l’ordine, ma ora superava tutto i limiti della decenza. Lo specchio era sommerso sotto i panni sporchi. La scrivania non aveva né una fine, né un inizio. Era una missione suicida il sedersi per scrivere. Non dovevo rifare il letto da forse una settimana. Mugugnai, insoddisfatta. Stavo davvero scadendo. Mi facevo schifo da sola. Beh, pazienza. Sbuffai. Che giornata sgradevole. Quel giorno Isnark mi aspettava. Bisognava concertare tutto, dalla disposizione agli armamenti, eccetera. Beh, almeno era una scusa in più per vedere Roxen, Manolìa, Machin, Chekaril e Nilyan. Non che non fossi loro dietro un giorno si e l’altro pure, ma era bello avere una scusa per ronzare loro intorno. Potevano reputarmi appiccicosa come miele, ma almeno mi sopportavano. Anzi. Machin adorava quando io mi sorbivo in  anteprima i suoi monologhi. Un paio di volte l’avevo anche aiutato con la parte. Mi rendeva fiera, quello che facevo. Almeno, quel pomeriggio mi sarei divertita un po’. Feci per andarmene, e mi avviai alla porta.

Avvertii, ad un certo punto, un cambiamento repentino. La temperatura della stanza scese vertiginosamente. Mi bloccai. Che diavolo stava succedendo? Ad un certo punto, sentii più freddo. Un freddo strano. Entrava nelle ossa, un gelo che immobilizzava, neve nell’aria, respiro di demone. Mi parve di essere nel gelido nord del Regno. Si: mi ricordava quelle volte in cui ero andata in quelle lande desolate, coperte costantemente dalla neve crudele o da una steppa triste, da elfi strani ed incredibilmente primitivi, dalla vita orribile in un inverno perenne. Mi fermai. Accidenti. Dovevo aver chiuso male le finestre. Se solo si fossero aperte con un colpo di vento, avrebbero seminato il caos. Contemporaneamente, mi resi conto di una cosa. Non sentivo nessun rumore. Amarto e Dae, di solito molto ciarlieri la mattina, tacevano. Anche le imposte avevano smesso di cigolare ed ululare. C’era una quiete spettrale. Cominciai a sentirmi agitata, senza nemmeno avere un motivo plausibile. Qualcosa mi diceva che dovevo stare all’erta. Ma che cosa stava accadendo? Sembravo stare in un tempo sospeso, senza alcun senso apparente. Dei. Cercavo di ripetermi che non c’era nulla da temere. Invano. Sentivo il mio cuore battere, ticchettare come un orologio irregolare dietro le mie costole. Il gelo penetrò più a fondo nelle mie povere ossa. Inspirai, e feci una smorfia. Una lama di ghiaccio mi aveva trafitto il petto. Strano. Fino a poco tempo prima, la stanza era stata tiepida. Sentii la pelle d’oca sulle braccia, la mia pallidissima cute divenire tutta a puntini. Mi resi conto i star tremando leggermente. C’era qualcosa che non andava, decisamente. Dovevo avvisare Amarto. Ma, di lì a poco, anche quel pensiero mi si cancellò dalla mia mente. Dovevo fare qualcosa. Non ricordavo cosa. Avevo l’urgenza di fuggire. Ma dove? Gettai il fiato tutto d’un botto. Davanti mi si creò una perlacea nuvoletta di vapore. Rimasi a fissare la porta, come ipnotizzata, a mezz’aria, a mezzo di un passo. Ero anch’io congelata. Non ero io a comandare il tempo. Sentii, improvvisa, una voce. Mi si strinse il cuore. In quel tono c’erano mille voci. In quel tono c’erano mille dolori. In quel tono c’era il morso gelido del ghiaccio. “Guarda Indietro”. Sentii dire. Ebbi l’impressione che quella strana voce mi chiamasse. Quella voce non umana, quella voce d’oltretomba. Di nuovo, inspirai. E di nuovo una staffilata mi straziò le carni. Sentii, improvviso, il bisogno di girarmi. Cercai di lottare contro quel terribile imperativo, con tutt4 le mie forze, invano. Invano. Mi ritrovai, senza nemmeno sapere come ,a fissare una figura stranamente evanescente. Sembrava un elfo, ma nulla era chiaro del suo aspetto. Qualcosa sembrava ostacolare la mia visione, come un velo davanti agli occhi. L’immagine sembrava lampeggiare. Solo il viso era leggermente più chiaro. Sobbalzai. Ebbi un lampo fugace di due occhi che mi fissavano, da un altro mondo. l’essenza del ghiaccio. L’essenza del Nord. Lo spirito stesso del freddissimo, misterioso Nord era venuto a cercarmi, in quelle sembianze confuse e vuote. Calò il buio. Nulla era chiaro, se non la figura incomprensibile di quella creatura. Di nuovo, espirai. Ma sembravo non avere più un corpo, ormai. Nulla sembrava aver più importanza. “Guarda Indietro”. Ripeté quella figura. Ebbi la netta impressione che stessa chiamando me. Come se avessi sempre avuto quel nome.

Un tonfo. Sobbalzai, con uno squittio improvviso. Mi sembrò di emergere da un fiume tumultuoso e ghiacciato. Mi sembrò come se Becco Aguzzo mi avesse di nuovo salvata da quel lago in cui ero caduta malamente, quel tuffo che mi portò ad una polmonite, ed ad un Principe che ballava con un’elfa dall’abito rosso. Tirai il fiato come se fosse la prima volta. Sbattei le palpebre, perplessa. Ero nella mia stanza. La luce era tornata. Faceva di nuovo ragionevolmente caldo. Si stava bene. Quel gelo delle ossa non c’era più, come se non fosse mai esistito.  Ero esattamente nella posizione di prima. Dalla cucina mi arrivavano le voci querule ed allegre del Maestro e della compagna. Non c’era traccia di quella creatura impossibile appena comparsa davanti ai miei occhi, quella creatura coperta da un velo inesistente, come se non fosse mai esistita. Feci un passo indietro. Il cuore rullava come un tamburo impazzito. “oh, dei…”. Mormorai, con una voce che non sembrava la mia. Perfetto. Ora avevo anche le allucinazioni. Mi sentii avvolgere da un panico irrazionale. Perché accidenti avevo così paura? Perché, se avessi potuto, mi sarei nascosta in un posto ben affollato senza farmi più vedere? Non ragionai ulteriormente, sulla strana cosa che mi era capitata. Mi fiondai fuori, nel corridoio illuminato dalla luce cruda e debole del primo sole invernale. Respiravo come se avessi corso per chilometri e chilometri. Avevo paura. Cominciai ad avviarmi verso la camera dove c’erano i miei cari guardandomi continuamente indietro, come se vedessi spuntare quel tipo dietro di me con un coltello in mano. Avevo irragionevolmente terrore. Però mi ero accorta che la finestra sembrava chiusa in modo diverso da come l’avevo lasciata io.

  
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