Importante,
per ciò che fu, fu ciò che successe un giorno che,
all’apparenza, era cominciato come gli altri.
O meglio,
non del tutto.
Era un
bel giorno d’inverno inoltrato, lo ricordo ancora.
Accidenti.
In realtà non è proprio così. Quello che mi portò
ad un nuovo viaggio fu qualcosa che si svolse in più tempo. Mi rendo
conto che, in realtà, non c’è un giorno in cui
iniziò tutto. Diciamo che, da quel momento, cominciarono a svelarsi
molte cose.
Faceva un
freddo cane, e, anche se non c’era neve, quell’anno, si era messo
un vento fastidioso che detestavo. Convivo benissimo con la pioggia, adoro il
gelo e la neve. Ma il vento no. Il
vento non fa altro che scompigliarmi i capelli, gonfiandoli, ed insinuarsi
dappertutto, gelandomi anche quando ero ben vestita contro il freddo. Come
tutti i giorni della mia solita, monotona vita solitaria, mi ero svegliata non
appena l’alba si era alzata. Sentivo, come ogni giorno, Amarto e Dae
parlottare da dentro. Loro due si svegliavano molto, molto prima di me. Ero di cattivo
umore. Ero sempre di cattivo umore quando c’era quel vento, che faceva
tremare le imposte della casa come durante un terremoto. Avevo mugugnato,
tirandomi fino al naso le coperte. Era ancora tutto buio nella mia camera, e
non vedevo in modo egregio. Ma, solo la vista dell’ombra di tutti i
documenti, carte, mappe e cartacce varie, bastava per gettarmi nello sconforto
più nero. Odiavo le scartoffie. Le ho sempre detestate, no? Quella era
la parte noiosa di tutto il mio mestiere di Ch’argon. Di solito, era divertente.
Quel giorno, inoltre, avevo un motivo in più per non volermi svegliare.
Da qualche giorno ci era giunta notizia di un gruppo di briganti che stavano
devastando il confine sud di Uruk, banditi elfi che mettevano tutto a ferro e
fuoco, e, a quanto pareva, stranamente ben equipaggiati, e ben addestrati.
Anche se non portavano nessun insegna, tutti noi sapevamo benissimo che quelli
erano tutt’altro che semplici criminali. Un piffero, briganti. Eravamo
più che sicuri che si trattasse di uomini di Galinne mascherati. Non era
la prima volta che accadeva. Sapevamo che il grande Regno non voleva altro che
una scusa per assaltarci, assalirci ed inglobarci. Il più segreto
desiderio di Lainay era quello di divorare anche quello sputo di terra che era
il Matriarcato. Eravamo elfi, e tanto bastava. Non le riusciva concepibile, a
quanto pareva, che creature della stessa razza e dello stesso sangue, un
manipolo d’idealisti dalle orecchie come le sue, dalla stessa vita lunga,
cercassero di sfuggire alle sue mani ingorde. Era impensabile che, aiutata dai mercanti Insathi, che erano divenuti
una risorsa davvero enorme, una nazione commerciasse sottobanco con gli umani,
che avesse relazioni quantomeno tiepide con loro. Impossibile, che esistesse
qualcuno libero di pensare, di gridare il proprio disappunto per quella vita.
Già era tanto che si limitasse a ficcare il naso negli affari di Fiya e
di tutti i regni, da cui gli elfi erano stati espulsi, una mossa davvero
sciocca. Lei si era approfittata immediatamente di quel calo di
popolarità, di quell’arrivo di mercanti e ricchi tutti della
nostra razza. Aveva confiscato le case ai nobili umani, espropriando le loro
ricchezze, riducendoli in miseria. Tutto quello era andato in regalo agli
esuli. Il Regno aveva una casta di potenti al potere che era fedelissima ad una
regina che non faceva altro che, per loro, del bene. Chi era contro
quell’orribile regime non aveva che due possibilità: sparire o
essere ucciso.
La Regina
aveva fatto in fretta a mettere a tacere ogni dissenso. Tanto per far stare
buoni gli umani dei regni liberi, aveva concesso loro qualche città,
tutte bene distanti dalle altre, ma le persecuzioni rimanevano. Mentre mi
alzavo, mugugnando ed avvolgendomi in un qualcosa di più pesante,
riflettei. Eravamo in una posizione davvero pericolosa, sul filo di un rasoio.
Accerchiati da uno dei regni più potenti mai visti sulla faccia della
nostra terra. Il più grande. Il più pericoloso, senza dubbio.
Eppure, gli elfi che facevano parte di Normar amavano tutta quella nuova, inaspettata
ricchezza. Il popolo era cinico. Una macchina di morte. Ad essi bastavano nuove
case, nuove terre da coltivare, nuovo cibo, nuovi intrattenimenti. Poco contava
che essi fossero terribili combattimenti tra morti di fame che vendevano la
propria abilità con le armi per lottare, o altre perversità del
genere. Agli elfi piaceva vedere gli uomini sgozzarsi tra di loro.
La mia
natura di Ch’argon odiava queste cose. Io stessa odiavo tutto quello che
stava accadendo. L’impressione che Uruk fosse davvero in una situazione
critica l’avevo avuta, più di una volta. Avevo ricevuto lettere
minatorie che mi avevano spaventato, dopo anni di silenzio. Avevo paura. Non
volevo morire. Avevo troppe cose da fare. Le Spie erano tornate a ronzare nel
castello. Eravamo stati costretti ad istituire un comando speciale per
stanarle, di cui io ero a capo. Tutti volontari, ovviamente, legati solamente
dalla promessa di stare in silenzio. Se solo avessero voluto togliersi da quel
giro, lo avrebbero fatto senza problemi, a condizione di non rivelare nulla sui
nostri obiettivi. Avevo così ripreso almeno un po’ il mio vecchio
mestiere di Spia. Certo, non era vincolante e gravoso come il mio precedente,
ma mi riempiva d’inquietudine. Sembrava che il destino volesse ricondurmi
a ciò che facevo prima. Io mi ero rifiutata di cedere alla smania
dell’assassina. Quelle volte che avevo trovato Spie a palazzo le avevo
consegnate in altre mani. A volte avevo riconosciuto in loro vecchi colleghi.
Era straziante. Straziante sentirmi chiamare cagna maledetta, traditrice, da
gente con cui avevo condiviso la casa. Se solo avessero saputo quale bestia
stavano servendo. Se solo avessero saputo cosa ero stata costretta a subire. A
volte avevo cercato di parlar loro. Ma, in tutta risposta, come reazione
più gentile mi era arrivato uno sputo dritto in faccia. Io non reagivo. Provavo enorme pena per
quelle persone, destinate ad essere cacciate da Uruk in modo infamante. Isnark,
per fortuna, aveva capito il mio dolore, anche se non l’avevo mai
confessato. Mi aveva sollevato dall’agire direttamente. Il mio sarebbe
stato lavoro di pianificazione. Scartoffie, insomma. Non ho mai amato le carte
come allora. Da quel momento, nonostante il mio nuovo ruolo rimanesse
gelosamente segreto, lettere minatorie si erano andate a confondere con strane
lettere cifrate, lettere che non ho mai più ritrovato. Pazienza. Era un
mistero che non mi atterriva né m’incuriosiva. Dovunque finissero,
sicuramente nessuno di estraneo me le rubava. Avevo i miei metodi per beccare i
ladri, io. Metodi di solito parecchio dolorosi. Bah. Cominciai a vestirmi,
assorta. Quel giorno, io ed Isnark avremmo dovuto parlare. Le grane erano
vicine. Una nuova, stupida, battaglia era pronta per scoppiare. Era una
questione di giorni. Non ero quello che si dice contenta. Odiavo dover
combattere.
Insomma,
non ci andavo per niente pazza, ma vi ero costretta. Diamine, ero la
Ch’argon, avevo una dignità da mantenere. Ero costretta a partecipare alle scaramucce che ad intervalli regolari
sorgevano tra noi ed i fantomatici briganti, piccole battaglie, che, di solito,
finivano senza troppi morti o feriti. Erano però sfiancanti. Non si
sapeva mai dove avrebbero attaccato la prossima volta, e le guardie ai confini
spesso non riuscivano a frenarle. Combattere mi seccava moltissimo. Non so,
dopo tutto il sangue versato in tanti anni di vita come Ombra, mi ripugnava
fare del male a gente pagata per darci fastidio. Quella volta ero più
irritata del solito. Non ce la facevo proprio più. Ero stanca. Mi dispiaceva
enormemente quella guerra. dei, com’era strano. Duecento anni prima avrei
dato un orecchio per dare un paio di fendenti. Ero cambiata. Tantissimo. Il mio
spirito era mutato. Mi stavo trasformando in un grasso botolo piagnucoloso. Un
altro po’ e mi sarei rinchiusa in casa a fare l’uncinetto con Dae. Io,
Lsyn Amarto, la grande Ombra, che per anni aveva terrorizzato elfi e uomini! Mormorando
bestemmie contro il mondo intero, mentre cercavo uno stivale che si era ficcato
chissà dove, cominciai anche a sentirmi preoccupata. Quella volta
avrebbe partecipato anche Machin. Rabbrividivo al solo pensiero. Lui era
entusiasta del nuovo ruolo. Non vedeva l’ora, detto esattamente con le
sue parole, di pugnare gli infami felloni. Penso che il teatro
gli abbia fatto davvero male. Insomma. Io, comunque, ero un po’ meno
contenta. Ero all’erta peggio di un cane da guardia. Machin in battaglia.
L’avevo allenato io, di persona, ma comunque tremavo al solo pensiero di
vedere il suo viso ilare coprirsi con un elmo non da cerimoniale, le sue mani
sottili sporcarsi di sangue. Il mio nipotino era eccitato come un bambino
davanti ad un regalo enorme, di fronte a quella nuova avventura. Beh. Era
giovane, lo capivo. Non aveva ancora imparato a preoccuparsi ad ogni cosa, non
aveva ancora visto la morte in faccia. Era ancora abituato a vivere senza
domandarsi del domani, al momento, con il solo pensiero il ricordarsi a memoria
la battute per il solo spettacolo al mese a cui poteva partecipare, oppure come
renderci la vita un inferno, cacciandosi in guai assurdi. Un paio di volte ero
stata costretta a trattarlo come un bambino, ma lo capivo. Alla sua età
io ammazzavo già, impunemente, spiavo già, ma lo stesso avevo la
testa calda, anzi, bollente. Mi piaceva cacciarmi in nuove avventure, e nulla
mi mandava più in visibilio di un bello scontro in campo aperto. Beh. In
fondo ero io quella che un tempo era tacciata continuamente di avventatezza
estrema, e che ora non faceva un passo senza pensarci prima mille e mille
volte. Machin avrebbe imparato ben presto l’ironia terribile della vita.
Sarebbe cresciuto anche lui. Intanto io ero preoccupata. Moltissimo. Se solo si
fosse fatto un graffio sarei stata capace di mettere a soqquadro il Regno
intero. Se solo si fosse fatto anche un livido da niente, avrei strozzato
Lainay con le mie stesse mani. E guai a chi mi avrebbe ostacolata!
Appena
vestita, mi guardai intorno, cercando di scacciare le nuvole scure che si erano
addensate ai limiti della mia mente, e che minacciavano di rovinarmi la
colazione e la giornata. Filtrava più luce dalle imposte ululanti, e
riuscivo a vedermi intorno. Feci una smorfia irritata. Quella che un tempo era
l’ordinata camera di Tijorn era divenuta una discarica. Un tempo era
tutto impilato con cura maniacale, quando c’erano ancora i piccoli in
casa. Un tempo, rifacevo sempre il letto, piegavo sempre i miei abiti tutti
dello stesso colore. Mi ero lasciata andare, troppo. Da quando anche Nilyan
aveva deciso di preferire il castello ad una casetta isolata dove una zia
asfissiante le impediva anche di fare un passo, le cose erano peggiorate. Anche
da giovane non ero nota per il mio amore per l’ordine, ma ora superava
tutto i limiti della decenza. Lo specchio era sommerso sotto i panni sporchi.
La scrivania non aveva né una fine, né un inizio. Era una
missione suicida il sedersi per scrivere. Non dovevo rifare il letto da forse
una settimana. Mugugnai, insoddisfatta. Stavo davvero scadendo. Mi facevo
schifo da sola. Beh, pazienza. Sbuffai. Che giornata sgradevole. Quel giorno
Isnark mi aspettava. Bisognava concertare tutto, dalla disposizione agli
armamenti, eccetera. Beh, almeno era una scusa in più per vedere Roxen,
Manolìa, Machin, Chekaril e Nilyan. Non che non fossi loro dietro un
giorno si e l’altro pure, ma era bello avere una scusa per ronzare loro
intorno. Potevano reputarmi appiccicosa come miele, ma almeno mi sopportavano.
Anzi. Machin adorava quando io mi sorbivo in anteprima i suoi monologhi. Un paio di
volte l’avevo anche aiutato con la parte. Mi rendeva fiera, quello che
facevo. Almeno, quel pomeriggio mi sarei divertita un po’. Feci per
andarmene, e mi avviai alla porta.
Avvertii,
ad un certo punto, un cambiamento repentino. La temperatura della stanza scese
vertiginosamente. Mi bloccai. Che diavolo stava succedendo? Ad un certo punto,
sentii più freddo. Un freddo strano. Entrava nelle ossa, un gelo che
immobilizzava, neve nell’aria, respiro di demone. Mi parve di essere nel
gelido nord del Regno. Si: mi ricordava quelle volte in cui ero andata in
quelle lande desolate, coperte costantemente dalla neve crudele o da una steppa
triste, da elfi strani ed incredibilmente primitivi, dalla vita orribile in un
inverno perenne. Mi fermai. Accidenti. Dovevo aver chiuso male le finestre. Se
solo si fossero aperte con un colpo di vento, avrebbero seminato il caos.
Contemporaneamente, mi resi conto di una cosa. Non sentivo nessun rumore.
Amarto e Dae, di solito molto ciarlieri la mattina, tacevano. Anche le imposte
avevano smesso di cigolare ed ululare. C’era una quiete spettrale. Cominciai
a sentirmi agitata, senza nemmeno avere un motivo plausibile. Qualcosa mi
diceva che dovevo stare all’erta. Ma che cosa stava accadendo? Sembravo
stare in un tempo sospeso, senza alcun senso apparente. Dei. Cercavo di
ripetermi che non c’era nulla da temere. Invano. Sentivo il mio cuore
battere, ticchettare come un orologio irregolare dietro le mie costole. Il gelo
penetrò più a fondo nelle mie povere ossa. Inspirai, e feci una
smorfia. Una lama di ghiaccio mi aveva trafitto il petto. Strano. Fino a poco
tempo prima, la stanza era stata tiepida. Sentii la pelle d’oca sulle
braccia, la mia pallidissima cute divenire tutta a puntini. Mi resi conto i
star tremando leggermente. C’era qualcosa che non andava, decisamente.
Dovevo avvisare Amarto. Ma, di lì a poco, anche quel pensiero mi si
cancellò dalla mia mente. Dovevo fare qualcosa. Non ricordavo cosa.
Avevo l’urgenza di fuggire. Ma dove? Gettai il fiato tutto d’un
botto. Davanti mi si creò una perlacea nuvoletta di vapore. Rimasi a fissare
la porta, come ipnotizzata, a mezz’aria, a mezzo di un passo. Ero
anch’io congelata. Non ero io a comandare il tempo. Sentii, improvvisa,
una voce. Mi si strinse il cuore. In quel tono c’erano mille voci. In
quel tono c’erano mille dolori. In quel tono c’era il morso gelido
del ghiaccio. “Guarda Indietro”.
Sentii dire. Ebbi l’impressione che quella strana voce mi chiamasse.
Quella voce non umana, quella voce d’oltretomba. Di nuovo, inspirai. E di
nuovo una staffilata mi straziò le carni. Sentii, improvviso, il bisogno
di girarmi. Cercai di lottare contro quel terribile imperativo, con tutt4 le
mie forze, invano. Invano. Mi ritrovai, senza nemmeno sapere come ,a fissare
una figura stranamente evanescente. Sembrava un elfo, ma nulla era chiaro del
suo aspetto. Qualcosa sembrava ostacolare la mia visione, come un velo davanti
agli occhi. L’immagine sembrava lampeggiare. Solo il viso era leggermente
più chiaro. Sobbalzai. Ebbi un lampo fugace di due occhi che mi
fissavano, da un altro mondo. l’essenza del ghiaccio. L’essenza del
Nord. Lo spirito stesso del freddissimo, misterioso Nord era venuto a cercarmi,
in quelle sembianze confuse e vuote. Calò il buio. Nulla era chiaro, se
non la figura incomprensibile di quella creatura. Di nuovo, espirai. Ma
sembravo non avere più un corpo, ormai. Nulla sembrava aver più
importanza. “Guarda Indietro”.
Ripeté quella figura. Ebbi la netta impressione che stessa chiamando me.
Come se avessi sempre avuto quel nome.
Un tonfo.
Sobbalzai, con uno squittio improvviso. Mi sembrò di emergere da un
fiume tumultuoso e ghiacciato. Mi sembrò come se Becco Aguzzo mi avesse
di nuovo salvata da quel lago in cui ero caduta malamente, quel tuffo che mi
portò ad una polmonite, ed ad un Principe che ballava con un’elfa
dall’abito rosso. Tirai il fiato come se fosse la prima volta. Sbattei le
palpebre, perplessa. Ero nella mia stanza. La luce era tornata. Faceva di nuovo
ragionevolmente caldo. Si stava bene. Quel gelo delle ossa non c’era
più, come se non fosse mai esistito. Ero esattamente nella posizione di
prima. Dalla cucina mi arrivavano le voci querule ed allegre del Maestro e
della compagna. Non c’era traccia di quella creatura impossibile appena
comparsa davanti ai miei occhi, quella creatura coperta da un velo inesistente,
come se non fosse mai esistita. Feci un passo indietro. Il cuore rullava come
un tamburo impazzito. “oh, dei…”. Mormorai, con una voce che
non sembrava la mia. Perfetto. Ora avevo anche le allucinazioni. Mi sentii
avvolgere da un panico irrazionale. Perché accidenti avevo così
paura? Perché, se avessi potuto, mi sarei nascosta in un posto ben
affollato senza farmi più vedere? Non ragionai ulteriormente, sulla
strana cosa che mi era capitata. Mi fiondai fuori, nel corridoio illuminato
dalla luce cruda e debole del primo sole invernale. Respiravo come se avessi
corso per chilometri e chilometri. Avevo paura. Cominciai ad avviarmi verso la
camera dove c’erano i miei cari guardandomi continuamente indietro, come
se vedessi spuntare quel tipo dietro di me con un coltello in mano. Avevo irragionevolmente
terrore. Però mi ero accorta che la finestra sembrava chiusa in modo
diverso da come l’avevo lasciata io.