Ta-dan!
Credevate di esservi liberati di me, eh? Eh? Eh?
Nah nah, non si sottovaluta Akita così xD
Oh, basta, la smetto.
Ma ci tengo a presentarvi la seconda parte delle Memorie dei
Rinnegati:
La Cerca dei Sogni.
Vi prometto un bel groviglio di serpi, un bel gomitolo da sciogliere
xD
Tuttavia, ci tengo a precisare qualche piccola cosa.
Troverete dei cambiamenti, nell’ambientazione quanto nelle
persone a descriverla.
Oltre Lsyn, più in là si aggiungeranno altre due voci
narranti, in prima persona, che per ora non vi confiderò, tanto per
farvi morire un po’ dalla curiosità.
È una sfida, per me, una cosa nuova.
Si aggiungerà qualche piccolo elemento di modernità,
ma prometto di non uscirmene con cose assurde, che nemmeno mi piacciono molto.
Quindi, vedrete sempre, sebbene in minor misura, cavalli e spade xD
Prima ancora di cominciare (ebbene si, sono galvanizzata dal nuovo
inizio xD di nuovo si riprende, a stramazzare dietro
le parole xD), inchinatevi tutti al cospetto di Carlos Olivera! xD
È lui che, dalla fine ad oggi, mi sta dando il pungolo per
cominciare al più presto.
Sue, sono come al solito le valanghe
inafferrabili d’idee, che, chissà come mai (!), riescono sempre
bene xD
Allungano il brodo in maniera sopraffina xD
Nemmeno si comincia, e già ho un grosso debito con lui xD
Ah, vediamo cosa ne pensi xD
Grazie J
E voi, altri fantasmagorici o meno lettori, mi seguirete in questa
nuova avventura (riusciranno i nostri eroi…ebbene si, mi sto friggendo il
cervello xD)?
Io lo speroJ
Buona lettura, e benvenuti al Nuovo Inferno xD
Akita.
Scrivere.
Di nuovo. Scrivere. Solo per il gusto di farlo.
Mi sembra
strano riprendere, ora, in mano vecchie pagine ingiallite, testimoni di un
passato che, forse, è quello che è, finalmente. Passato.
Un’ombra ci è passata vicino, a noi tutti,
un’ombra che da sempre ha allungato la sua mano adunca sul nostro
amato mondo, e sempre lo farà.
Un’ombra
che non è mai passata.
Ed
è forse per questo che io, Lsyn Amarto, mi chino di nuovo su pile di
fogli, e riprendo una furiosa missione.
Forse
è per questo che io, un tempo Spia del Regno, elfa dallo spiccato senso
della razza, ricca e piena di affetti, un tempo devastata pellegrina sfregiata,
per colpa di un incidente premeditato e di una finta sparizione, di un elfo che
amava e che credeva tutta un’altra persona, un tempo disperata
Ch’argon di Uruk, vuota d’ideali e di affetti, ho deciso di
riprendere in mano penna e calamaio e passare di nuovo notti
insonni, al lume di una sola, fedele candela.
Forse
è per questo, per l’urgenza di raccontare ciò che un tempo
fu, ciò che minaccia di ripetersi ad ogni giro della ruota del tempo, la
tessitrice che trama un sudario sempre uguale a se stesso.
Buffo.
Ho
già raccontato ciò che mi successe in
pochi mesi, quel cambio radicale del mio universo, a cui se ne aggiunsero molti
altri, raccontato a nessuno, ad uno, a tutti, una storia che può essere
di chiunque e solo mia.
L’
ho già raccontato, tutto quello che mi successe, che mi spinse a ritirarmi in una socievole pace, in una stasi, in
attesa che il mio momento giungesse.
Come poi
effettivamente fu.
Sono
diversa dall’elfa che si stese, un pomeriggio d’autunno, su un
letto che un tempo non era sua, declamando al vuoto ed al passato di essere
tornata.
Diversa,
da quell’elfa che mescolava affetto, compassione
e disperazione.
Posso
dire, ora, che il processo che mi ha portato ad essere ciò che
effettivamente sono è finalmente completo.
Lentamente,
durante ciò che successe, ciò di cui ora parlerò,
trovai il coraggio per alzare la testa, e sbeffeggiare il destino con una
linguaccia.
Non ho
più rimpianti, ed i dolori passati, i ricordi di persone che
c’erano, e non ci sono più, sono meno cocenti.
C’è
sempre, ancora, di tanto in tanto, la sofferenza, gli incubi vengono a tormentarmi.
Rivedo
ancora quell’attimo in cui la mia spada si conficcò nel corpo del
mio amato Chekaril, quel Principe che idolatravo, ed avevo cercato per tanti,
tanti anni.
Rivedo
ancora l’attimo in cui il respiro del mio amato fratello, quel Tijorn dai
profondi occhi grigi, si fermò, stroncato da un male inaspettato e
terribile, stroncato da qualcosa che si poteva evitare.
Risento
ancora le suppliche disperate di Akita.
Così
come risento mille volte gli strilli sofferenti di Nemys.
Eppure,
ogni istinto di vendetta, ogni fuoco ardente si è ormai spento, in me.
Dopo
tutto questo tempo, sono contenta di vivere.
Verissimo,
sono cambiate tante cose, e nuovi problemi si sono andati ad aggiungere ai
vecchi.
Qualcosa
di buono è rimasto, tuttavia, da tutto questo lutto, da tutto questo
male.
Tutto
questo dolore, ora lo capisco, non è stato inutile.
C’è
stato un motivo per cui ora noi siamo vivi, vegeti e
relativamente sereni, ed io ne voglio parlare.
Voglio
testimoniare, testimoniare cosa che furono, ferite del passato che stentano a
stare buone, pezzi che il destino ha sparso per il mondo, e si è
divertito a nascondere, ciò che successe dopo quel periodo che
culminò con una giovane e vecchia elfa dalle ciocche bianche, impegnata
a guarirsi e curare bambini non suoi.
Diamine,
i bambini.
Sapete,
da quel giorno in cui apposi l’ultima parola alle mie dolorose
confessioni sono ormai passati circa centoquarantasei anni, ed essi sono ormai
adulti, giovani adulti che si affacciano allegri alla vita. Tempo lungo per
decidersi a riprendere in mano le redini della propria esistenza, vero?
Dei, solo a pensarci mi viene da ridere.
Sono
sempre la solita, vecchia, mucca tradizionalista.
Per noi
elfi, è tutto più lento. La vita stessa si svolge con ritmi
assurdamente dilatati.
Di cose
ne sono cambiate, in tutti questi anni. Ma io sono rimasta pressoché
identica.
La stessa
elfa bassa, drammaticamente piccina, mingherlina, dai lunghi capelli, un tempo
neri, ora striati di bianco e grigio, monito perenne agli orrori da me subiti,
dagli stessi occhi scurissimi, dagli stessi abiti, dello stesso, significativo
colore. La stessa creatura impossibile.
Dallo
stesso corpo per metà ridotto ad un terrificante ammasso di cicatrici,
segni che faceva di tutto per nascondere, facendo finta di essere serena con
quella voce di tomba. O almeno, così fu.
Ora sono
diversa, mi sento diversa.
Ma non
sto scrivendo per parlare di me, tutt’altro. O meglio, voglio credere
così.
Tutto
cominciò come sempre.
La vita
che mi attornia era, all’inizio, sempre la
stessa.
Ero sempre
la Ch’argon di Uruk, legata allo stesso regno da un vincolo
indissolubile.
Ero
sempre l’amica di Isnark, a cui ho inflitto due
cicatrici perpendicolari che tanto paiono l’iniziale del mio nome.
Riempivo
sempre scartoffie ogni pomeriggio.
Ero
sempre legata da un vincolo d’indissolubile amicizia ai miei tre giganti,
il timido Capouille, il fiero Benagi e l’austero Zipherias, lo zoppo,
gelosissimo Zipherias. Lui trasaliva ancora quando mi
vedeva in confidenza con uno sconosciuto.
Il Regno
era sempre in mano a Lainay, la madre asfissiante di un povero Kamarducil a cui non era permesso nemmeno di fare un passo al di fuori del castello
di Galinne.
Il Regno si estendeva sempre per buona
metà del continente.
Gli umani
erano sempre trattati come bestie.
Torturati,
uccisi, seviziati. La loro elfica sovrana trovava sempre un nuovo modo per
giocare con i suoi cuccioli.
Si diceva
che qualcuno di loro fosse entrato nelle sue grazie, qualche umano che vivesse
nella fastosa corte della Città dell’oro, ma io tendevo a non
credere a quelle dicerie.
Non
riuscivo a pensare Lainay, quella sovrana che con tanta cecità avevo
seguito, con tanta dedizione, per poi essere crudelmente torturata da lei
stessa, gentile con degli orecchie-tonde.
Lei i
mortali li torturava di persona. Li uccideva di persona.
Beh, cose
come quelle erano la norma, ormai, e nemmeno io mi scomponevo.
La guerra
era sempre una silente minaccia.
Poco
tempo fa, tuttavia, era ancora in mera potenza. A parte qualche innocua
scaramuccia, niente di che.
Eravamo tuttavia
in stato di massima allerta.
Non
è bello essere circondati da un regno che vuole prendere il territorio
con ogni pretesto, sempre sulla difensiva.
Gli altri
regni sedicenti liberi avevano mani e piedi legati.
La
resistenza continuava, labile e sotterranea.
Eravamo
tutti oppressi da una potenza troppo potente.
Tuttavia,
la nostra vita ancora continuava.
Roxen,
Chekaril, Manolìa, Nysha, Machin e Nilyan sono tutti cresciuti sani e
belli, perfetti.
Vivono,
ora, con mio enorme dispiacere, tutti a Kyradon.
Ero
rimasta praticamente sola con Amarto e Dae nella casetta di Sharilar.
Tuttavia,
non ci rimanevo tutta la giornata, a rimembrare cose passate.
Ero
sempre in attività, ed a casa ci tornavo solo di sera.
Tutta la
giornata la spendevo con i miei protetti.
Tutti i
piccoli sono tanto cambiati, da quando erano bambini
innocenti.
Nilyan si
è fatta una bella giovane. Assomiglia in un modo impressionante sia alla
madre che al padre, con quegli arruffati capelli bianchi e gli occhi azzurri,
la pelle olivastra, la corporatura alta e snella e i tratti rapaci, ma ha un
carattere che è tutto particolare.
E’
di dolce
pepe, da capo a piedi. Sono fiera
di averla allevata così indipendente.
È
testarda, un vero e proprio muro quando serve, e fa quello che vuole e decide
lei. Ma è tenerissima, di una dolcezza straordinaria, sempre quieta ed
un po’ con la testa fra le nuvole. È l’unica capace di far
ragionare le teste calde come mio nipote. Mi vuole un bene immenso, a me come a
tutti i personaggi che l’hanno accompagnata dall’infanzia. Ma a me
di più. È come se fossi sua madre. Ed io di questo sono fiera.
E’
un pericolo, tuttavia, per se stessa, lo devo ammettere. Da una certa
età in poi ha cominciato, un tratto degno della sua natura non
esattamente elfica, a manifestare un prepotente e potenzialmente devastante
potere magico. La prima volta che cominciò ad usare la magia
fu per me un colpo. Quel giorno mi rovinò un’intera collezione di
piatti, presa dal panico di vederli galleggiare. Benagi deve avere ancora lo
strano segno che gli lasciò uno di questi, che aveva cominciato a
rimbalzare dappertutto, senza rompersi. Da allora, si allena ogni giorno con
maghi e sacerdoti, e sembra migliorare. Non bisogna metterla sotto pressione,
però, perché la sua forza rischia di erompere e travolgerla, come
un fiume in piena. Vederla impazzire sarebbe per me qualcosa di troppo
terribile. Non riuscirei a sopportare una cosa del genere.
All’epoca,
Nilyan, la piccola Nilyan, che avevo stretto a me quando
aveva la febbre, con cui avevo giocato, che avevo allenato ed allevato, a cui
le avevo date di santa ragione quando commetteva qualche marachella di troppo,
era ancora Principessa, una principessa senza ambizioni di divenire Regina. Non
ne aveva la minima intenzione, per inciso. Amava la sua bella vita, piena di
allenamenti e di studio. Non si poneva domande, e guardava fiduciosa il futuro,
con una speranza tipica dei giovani.
Il suo
è un ciondolo semplice ed elaborato, ricavato da uno dei due Cuori che
rubai a quei Celestiali che uccisi. Li ho fatti fondere, creando tutte piccole
opere d’arte, regalando a cinque dei sei piccoli soli un ricordo della
loro infanzia, come Amarto fece con me, al compimento del centesimo anno.
Anche il
mio nipotino è cresciuto. Il mio Machin, il mio tesoro. Le aspettative
che avevamo di lui da piccolo si sono tutte compiutamente realizzate.
È
divenuto un giovane davvero bello, che assomiglia in modo inquietante al mio
defunto e carissimo fratello, al mio Tijorn.
Per
questo, mi è ancora più caro.
Quando
vedo i suoi occhi, grigi e profondi, mi sembra, ora come un tempo, di fissare
lui ritornato a vivere.
Ma
c’è anche Akita, in quei tratti che fanno cadere ai suoi piedi
tante elfe, quelle poverine di cui lui non si avvede minimamente.
Ha strani
capelli leggermente ondulati, di un biondo rossiccio, con sfumature aranciate e
rosse, una pelle di alabastro, che si arrossa in un attimo, nell’altezza
ed in quella falsa magrezza.
Mio
nipote era ed è ufficialmente un’inguaribile testa calda. Un
istrione, un buffone, un pazzo scatenato, in tutti i sensi. Terribile, sempre
sorridente, pronto allo scherzo ed al riso, alla battuta, volatile, un vortice
in cui si affogava, inafferrabile, imprevedibile. Aveva ereditato la natura
leggermente infantile della madre, la pazienza e la dolcezza estrema del padre,
il senso di responsabilità. Ogni tanto tira fuori una serietà
niente male. Un guazzabuglio incredibile, un lago di cui è difficile
scorgere il fondo. È ancora uno delle persone più difficili da
comprendere, per me. Pensava sempre a quello che faceva, anche se faceva finta
di non accorgersene. Cercava sempre di stupire. Ma si pentiva
quando esagerava. È legato tuttora ad un tenero legame di
amicizia, di fratellanza, con Nilyan. Sono quasi gemelli, quei due. Durante
l’infanzia sembravano me e Tijorn, con ruoli invertiti. Mi sembra tanto
di rivedere me, in mio nipote. Stessa ingenuità
travestita da durezza. Stessa inguaribile mania di agire prima di
pensare.
Io,
però, non avevo la sua libertà di scelta. Gliel’ho dovuto
ricordare ben più di una volta.
Beh,
d’accordo che gli davo massima possibilità di fare tutto, ma
quando era troppo era troppo e basta. Appena adulto, non appena staccatosi dal
sicuro nido familiare, aveva manifestato il sincero apprezzamento per un gruppo
di attori di un teatrino che era andato a visitare chissà quando. Dopo
poco, mi era giunta la notizia che lui, il mio Machin, si era arruolato in quel
gruppo, in quella marmaglia, prima come aiuto, ma riscuotendo in seguito molto
successo. E lui che non mi aveva detto nulla! Beh, sapeva cosa ne pensavo a
proposito. Avevo rabbrividito. Attore. Zipherias può dirmi quanto vuole
che i tempi sono cambiati, che sono troppo all’antica, ma io non ci posso
fare niente. Mi hanno sempre insegnato che l’attore è uno dei
mestieri più depravati e socialmente degradanti di tutti, e non ho mai
mollato la linea. Non era affatto decoroso che il nipote della
Ch’argon si fosse impegolato con una compagnia di quel genere.
Sono andata a prenderlo, quella volta, per le orecchie, letteralmente. Gli ho
fatto una lavata di testa che non si dimenticherà, credo, mai
più. Doveva ricordarsi che quelli erano tempi di guerra, e non
c’era bisogno di futili saltimbanchi. In tempo di pace, beh, penso che
non avrei saputo dire di no al mio piccolo mascalzone,
ma ora era troppo pericoloso quel mestiere. In caso fossimo stati attaccati, un
attore non poteva far nulla. Solo subire, essere maltrattato, essere picchiato.
Andava bene come passatempo. Ma come lavoro no. Non dopo tanti anni passati ad
insegnargli l’uso delle armi, ad insegnargli la vera vita. Non dopo che
io avevo sofferto. Non dopo che i suoi genitori erano morti per lui. Machin
aveva capito, aveva capito le mie ragioni. Dopo avermi dato della capra per un
bel po’, lo ammetto. Ed era arrivato ad una via di mezzo niente male. Si
era arruolato nelle guardie della principessa, una scelta scontata e piacevole,
che gli permetteva di stare accanto alla sua sorellina putativa, e, intanto,
faceva qualche parte negli spettacoli. L’ho visto recitare, un girono, di nascosto. Lui non lo sa ancora. È bravo.
Ama davvero fare ciò che fa. Ed io voglio bene lui come ad un figlio.
Quando lo vedo, mi verrebbe di fare la ruota come un pavone. È perfetto
così com’è.
Nonostante questi minuscoli screzi, il
rapporto tra me e mio nipote è profondissimo. Lui adorava ed adora
ancora me. Come quand’era piccolo, è un po’ geloso di me. Mi
tratta come una madre, chiedendomi consigli, chiedendomi riparo, conforto, ed
ottenendolo. Ogni tanto si può dimenticare
di dirmi qualcosa, come in quella faccenda del teatro, ma di solito mi sta a
sentire. Il mio dolce, piccolo mascalzone. Lo reputerò sempre un
po’ figlio mio, lo so, nonostante abbia voluto che lui si chiami Machin
Tijorn. In fondo l’ho allevato. È sangue del mio sangue.
Sacrificherei per lui la mia stessa anima, come per tutti i miei piccoli. Le ho
regalato un ciondolo uguale a quello di Nilyan. Lui non lo porta mai, ma so che
è sempre in una tasca. Temo sia divenuto il suo portafortuna.
L’altra
scelta strana l’ha fatta Chekaril, com’era prevedibile. Devo dire
che per lui non ho strepitato così tanto. Il suo mestiere è a me
inviso per ragioni tutte personali. È divenuto un Guaritore. Dei, è stranissimo vederlo al Lazzaretto, quel giovane
serio e dolcissimo, vestito con la divisa, sempre indaffarato, con lo sguardo
pacato e sereno. Mi crede ancora sua zia. Porta i capelli lunghissimi. Non
penso si sia dimenticato di ciò che gli fece Lainay. Anche lui è
un bel giovanotto, e, se non fosse per gli occhi di quel verde strabiliante, di
quei colori del bosco, sarebbe uguale al padre, a quel Chekaril che io ho
ammazzato. Il carattere è,
tuttavia, diversissimo. Non ho mai incontrato una persona più fedele,
timida e chiacchierona di lui. È solare, una solarità meno
sfolgorante di quella di Machin, più tranquilla. È il perfetto
pantofolaio, un tranquillo e pacioso Guaritore, sempre sereno, con un sorriso
gentile sulle labbra. Penso che non lascerà mai, mai, mai, la sua
Miobashin. Quando mi disse di essersi innamorato di
quell’elfa, un’elfa paffuta e bassina, Guaritrice come lui, dai
riccioli ramati e dallo sguardo ingenuo, penso che mi sia venuto un colpo. Il mio Chekaril…innamorato pazzo.
Il mio Chekaril… quel bambino che mi assordava con le sue
chiacchiere… che mi veniva a dare per primo il buongiorno, lottando con
tutti, e spesso svegliandosi prima per farlo… innamorato. Devo essere
stata sotto shock per chissà quanto. Non me l’aspettavo. Pian
piano, ho imparato però ad apprezzare la compagna del mio dolce tesoro.
È perfetta per lui. Una tosta, sotto il velo di dolcezza. Peggio di
Nilyan. Spesso era lei a prendere per le orecchie me, quando andavo da lei,
implorandola di procurarmi un po’ di sonnifero forte. Me lo impediva
sempre. Mi diceva che non serviva, che il miglior tranquillante era la pace
interiore, qualcosa che dovevo cercare e non ricevere. Aveva ragione. Da quel
giorno ho rivalutato totalmente quell’elfa energica e materna. Quelle
volte in cui mi capita di andare al Lazzaretto corro sempre da lei. Avevo la
netta impressione che quei due, ora che le cose sono cambiate, stessero per
risolvere qualcosa che a me sicuramente non sarebbe piaciuto, ma che non avrei mai e poi mai osteggiato per nulla al mondo. Non
voglio altro che vedere il mio piccino felice. Benché sia più
alto di me di un bel po’, continuerò a reputarlo parte di me,
ancora quel bambino che, la prima volta che vide la neve, era
corso ad assaggiarla per vedere che sapore avesse, ed era rimasto deluso
dal fatto che non fosse dolce, che non fosse fatta di zucchero come aveva sempre
immaginato. Il suo è il ciondolo più semplice. Lui non ama le
cose troppo elaborate.
Roxen,
mia figlia, mi preoccupava un po’. Da buona sorella maggiore, protettiva
nei confronti del fratellastro come un cane da guardia, si era arruolata nel
corpo delle Guardie del Lazzaretto. Avevo l’impressione che fosse anche per un altro motivo, qualcosa che mi rimaneva
oscuro, ma non avevo mai indagato. Erano, quelli, affari della mia piccina.
Quando sarebbe venuto il momento, mi avrebbe raccontato tutto. Ne ero certa.
Non le avevo ancora detto di essere sua madre. Non trovavo mai il coraggio,
benché di occasioni ce ne fossero state molte. Un sacco di volte lei si
stupiva del fatto che noi ci assomigliassimo come gocce d’acqua. Ed era,
beh, fatta eccezione, fortunatamente l’altezza e gli occhi, verissimo.
Crescendo, era divenuta bellissima, di una bellezza diversa da quella di
Nilyan, molto più appariscente, cosa che lei tende a sottolineare
sempre, cosa che m’inquieta. Quando accarezzavo i suoi ricci corvini mi
pareva di accarezzare i miei, un tempo. Come Machin assomigliava fisicamente a
Tijorn, lei era come me. Tuttavia, a differenza di mio nipote, c’era
qualcosa della vecchia Lsyn che m’intimoriva. Rivedevo me
in lei, la mia stessa oscurità, la testardaggine cupa e quasi diabolica,
la stessa aura di cinico calcolo, di tracotanza, di ambiguità. Ero in
continuo allarme. Lei, come mi aveva sputato più di una volta, non si
sarebbe mai venduta al Regno, a quella che le aveva rasato i capelli e
picchiata, ma non era nemmeno legata ciecamente ad Uruk, come me. Era libera,
come il vento. Assecondava solo i vincoli di affetto che la tenevano legata a
me, a Chekaril, ma a Nilyan soprattutto. Se solo questi fossero venuti a
mancare, allora lei si sarebbe reputata a diritto cittadina
del mondo, ed avrebbe girovagato. Ogni volta che mi parlava così mi
spezzava il cuore. Rivedevo in maniera troppo netta me ed i miei errori. La
vedevo, spaventata, agire come me prima che un Principe venisse a rubarmi il
cuore. Se stessa era
usata da lei come uno
dei numeri nell’immenso algoritmo che era la sua vita. Non avrebbe
esitato, né lo fece più di una volta, a mettere in gioco il suo
stesso corpo per ottenere quello che desiderava. Era abilissima ad incantare
poveri generali, o altri elfi di rango, per favori di vario tipo. Era un genio
a simulare l’amore. Eppure, era sempre e perennemente insoddisfatta, come
se qualcosa la rodesse dall’interno. Non ho mai, mai capito
cosa avesse veramente, la mia povera cucciola. Mi piacerebbe domandarlo,
ma non posso. Ogni volta che provo ad affrontare l’argomento mi
aggredisce, feroce. Ho deciso di lasciar perdere, perlomeno fino a quando non si sentirà pronta a confidarsi con me.
Ma questo cruccio è una spina nel mio cuore. A lei ho regalato il
ciondolo e la collanina che una volta fu del padre,
quello che io gli regalai credendo che lui mi amasse. Marto l’ha vista,
ma non ha fatto parola. Lo adoro per questo. Mi fa piacere vederlo al suo collo
sempre. Ciò significa che lei mi vuole bene, almeno un po’, dietro
quella scorza durissima che usa per proteggersi da chissà cosa.
Manolìa
è una speranza ormai persa. Sta sempre lì, rinchiusa nella
biblioteca, emula sognante di Akita, la filosofia fatta elfa. Qualche volta
bisogna ricordarle di bere e mangiare, tanto è presa dal suo mondo di
carta. Libri, mappe, vecchie leggende: sta per superare il
vecchio Yufrek, in quanto a conoscenze. Ogni tanto la dovevo prendere io dalla
torre per le orecchie, tanto per non farle fare addosso uno
strato di polvere spesso un dito, ricordarle che i capelli, oltre che puliti,
andavano anche pettinati, tanto per non far fare il nido ai topi, ricordarle
che, no, le macchie d’inchiostro secche addosso non sono decenti per una
giovane bella come lei. Sarebbe stata carina, se solo non si fosse ostinata a
vestirsi come capitava, ad andare in giro con il naso per aria per vedere le
stelle. È graziosa, esile, nella norma, un’elfa gradevole e dal
carattere forse svampito, ma simpatico. Le ho regalato
un bel ciondolo appariscente, tanto per darle una nota di colore. Temo che
l’abbia usato come segnalibro, o se lo sia dimenticato chissà
dove. Ma non la biasimo per questo, non dopo quello
che la sorella ha fatto, a lei come a tutti noi, provocando l’ennesima
ferita.
Non
sapevo dove Nysha fosse finita. Sapevo che abitava a Kyradon, ma non sapevo cosa facesse, né come,
né dove. Né la volevo cercare. Da quando si era fatta un
po’ più grande, non faceva altro che litigare con me, in rotta per
ogni minima cosa, scorbutica, cattiva. Ci eravamo separate con astio, lei che
mi aveva inveito contro con tutta la cattiveria possibile ed immaginabile, io
che, alla fine, seccata, l’avevo cacciata di casa, con la morte nel cuore.
Mi ha fatto malissimo, vederla andarsene senza salutare nessuno, senza nemmeno
accettare il mio regalo, che era ancora lì, in un piccolo cofanetto che avevo
nascosto, in attesa di un’epifania che forse non
sarebbe arrivata mai. Penso che non mi abbia perdonato il fatto di aver
lasciato morire il suo amato Maestro. Ma lei dovrebbe sapere che non è
stata colpa mia. Io non ho mai voluto la morte di Tijorn. Fa ancora male, a me
soprattutto. Ma lei non l’hai mai voluto capire. Ruppe i contatti con
tutti. È un grande dolore. La gemella ci soffre ancora, tanto. Ho
cercato di starle vicina come ho potuto. Lei si è rintanata nel conforto
della pergamena, distaccandosi dal mondo. Soffro, per lei e per tutti. La mia
piccina. Le mie piccine.
Dal punto
di vista della nostra vita, molte cose sono cambiate.
Accidenti,
sono quasi centocinquanta anni, e la vita è continuata.
Sebbene la
crisi e la guerra ci attanagliassero con artigli appuntiti, la fantasia degli
umani, la loro testardaggine, ed il nostro ingegno, benché separati,
hanno combinato grandi cose.
La
tecnologia sta continuamente facendo passi da gigante, senza peraltro intaccare
l’aspetto esterno delle cose, o almeno così è per noi.
La nostra
è basata essenzialmente sul rispetto di ciò che è in
sé la natura, della sua sostanza intrinseca, ed usando la magia che,
almeno in minima parte, scorre in noi.
Quindi
abbiamo inventato tante piccole cose per semplificarci l’esistenza, che
scorre sempre, apparentemente, identica. Ad un osservatore umano gli elfi
potrebbero apparire uguali. Ma nulla è più diverso dal periodo
della mia infanzia.
Non mi
piace particolarmente, lo so, ma non per questo sono infelice.
Una nuova
illuminazione perenne non cambia la vita.
Gli umani
sono, in questo campo, né più indietro, né più
avanti di noi. Usano la magia, ma in maniera molto più
aggressiva e distruttiva.
Mi
spaventa quasi, il loro uso della scienza.
Ma, in
questo senso, dopo quello che ho visto… nulla mi
spaventa più.
Manterrò
valori e tradizioni degni di una vecchia bacucca, a sono
un’elfa. È nella mia natura tendere ad innovare mantenendo il
vecchio, in modo che tutto si sposi.
È
un modo più sano, per me, di vivere.
Devo
dire, però, che sono poco contenta degli sviluppi delle armi.
Benissimo,
come animali da soma o per spostarsi si usano ancora cavalli,
ma orrendi mostri metallici alimentati da magia, invenzione tutta umana,
sono padroni della guerra, armi che funzionavano in modo tutto diverso dalle
buone, vecchie spade.
Ma questo
era appannaggio solo dei soldati, e nemmeno di tutti.
Quelle tecnologia erano ancora in prova: molto della battaglia, per
fortuna, era ancora basata sul corpo a corpo classico.
Addirittura,
la maggioranza della plebe era quasi all’oscuro di tutti quei
cambiamenti, beandosi dei minimi avanzamenti che arrivavano loro.
Ma io
sapevo.
Sapevo, e
più passava il tempo, più m’inquietavo.
Sapevo,
perché ero Ch’argon.
Sapevo,
perché da un po’ di tempo ero l’eminenza grigia di un gruppo
di soldati volontari che spiavano il nemico.
Sapevo,
perché riempivo scartoffie ogni giorno.
Sapevo,
perché Isnark mi parlava.
Più
di una volta ero rimasta così sconvolta da non dormire la notte.
In quel
periodo di cui ora parlerò, dove si
giocò il tutto per tutto, dopo un lungo periodo di relativa calma, da
entrambe le parti si era registrata un’impressionante corsa agli
armamenti. Dopo decenni di pace, Lainay stava cominciando a stuzzicare sia noi
che i regni umani. Loro soprattutto. Si erano verificate piccole scaramucce che
non presagivano nulla di buono, e noi cominciavamo a temere. Eravamo piuttosto
arretrati quanto ad armi. Dovevamo procurarci nuovi e consistenti aiuti. Ogni
girono che passava, vedevo una guerra che per tanto tempo si era evitata
avvicinarsi, ed ero sempre più nervosa. Isnark condivideva i miei
timori. Da un po’ di tempo i dispacci che arrivavano da Galinne non erano
amichevoli. S’imponeva una neutralità forzata, un completo disarmo
delle truppe, cose così. Il sovrano di Uruk era sempre meno fiducioso.
Ogni volta che lo andavo a trovare sembrava volermi
dire qualcosa, senza riuscire a parlare.
Ecco.
Uruk aveva mani e piedi legati.
Il popolo
non era contento, oh no.
Nemmeno
noi, per inciso.
Eravamo
tutti un po’ più frustrati.
Arrivava
sempre meno cibo. I poveri aumentavano.
Si
stavano formando nuove strane sette religiose.
È
in questo clima di tensione che comincia la mia storia, ciò che
seguirà.
È
da questo momento d’incertezza che Lsyn Amarto cominciò a
ritornare, lentamente, una creatura vivente.
Di nuovo
la mia penna tremerà, eppure io sorriderò a riportare ciò
che successe in quel periodo così breve rispetto ai cinquant’anni
che mi ci vollero per capire che la mia esistenza era solo finzione.
Se solo
temessi di rovinare tutto il mio scritto, aggiungere un bel per fortuna,
scritto anche in maiuscolo, tanto per sottolineare l’evento.
Eppure,
strano, non fui solo io a raggiungere la pace interiore.
Tre anime,
altre due anime come la mia, cominciarono a perseguire la lunga strada che porta alla realizzazione di una vita compiuta.
Fummo tre
anime a trovare di nuovo noi stessi.
Ed a
sfidare il caso ad una partita a dadi.
Una
rivincita, un’illuminazione ed un destino che si compì.
Tre
anime, strettamente intrecciate e strettamente divise da un percorso parallelo,
eppure sovrapposto.
Un
cammino tortuoso, eppure dannatamente soddisfacente.
E la mia
vita ha inizio quando tutto sembrava tramontare.
Ed al mio
tramonto seguì un’alba, della stessa persona diversa.
Che la
cerca dei sogni abbia inizio.
Persegui. Il tuo Scopo Ultimo.
Fino alla Fine.