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Autore: Akita    15/02/2009    3 recensioni
Storia sospesa a tempo indeterminato.
Seguito di "Memorie Dei Rinnegati-La Figlia Delle Spie".
Sono ormai passati tanti anni dal terribile viaggio di Lsyn Amarto, un tempo figlia delle Spie.
Molte cose sono cambiate. Primo, lei stessa. Di nuovo il destino tornerà ad incombere su di lei, e su chi ama, come una nuvola scura. E, di nuovo, bisogerà lottare con le unghie e con i denti per conquistarsi il diritto di alzare il capo verso la vita.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie dei Rinnegati.'
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Scrivere

Ta-dan!

Credevate di esservi liberati di me, eh? Eh? Eh?

Nah nah, non si sottovaluta Akita così xD

Oh, basta, la smetto.

Ma ci tengo a presentarvi la seconda parte delle Memorie dei Rinnegati:

La Cerca dei Sogni.

Vi prometto un bel groviglio di serpi, un bel gomitolo da sciogliere xD

Tuttavia, ci tengo a precisare qualche piccola cosa.

Troverete dei cambiamenti, nell’ambientazione quanto nelle persone a descriverla.

Oltre Lsyn, più in là si aggiungeranno altre due voci narranti, in prima persona, che per ora non vi confiderò, tanto per farvi morire un po’ dalla curiosità.

È una sfida, per me, una cosa nuova.

Si aggiungerà qualche piccolo elemento di modernità, ma prometto di non uscirmene con cose assurde, che nemmeno mi piacciono molto.

Quindi, vedrete sempre, sebbene in minor misura, cavalli e spade xD

 

Prima ancora di cominciare (ebbene si, sono galvanizzata dal nuovo inizio xD di nuovo si riprende, a stramazzare dietro le parole xD), inchinatevi tutti al cospetto di Carlos Olivera! xD

È lui che, dalla fine ad oggi, mi sta dando il pungolo per cominciare al più presto.

Sue, sono come al solito le valanghe inafferrabili d’idee, che, chissà come mai (!), riescono sempre bene xD

Allungano il brodo in maniera sopraffina xD

Nemmeno si comincia, e già ho un grosso debito con lui xD

Ah, vediamo cosa ne pensi xD

Grazie J

 

E voi, altri fantasmagorici o meno lettori, mi seguirete in questa nuova avventura (riusciranno i nostri eroi…ebbene si, mi sto friggendo il cervello xD)?

Io lo speroJ

Buona lettura, e benvenuti al Nuovo Inferno xD

 

Akita.

 

 

 

 

 

Scrivere. Di nuovo. Scrivere. Solo per il gusto di farlo.

Mi sembra strano riprendere, ora, in mano vecchie pagine ingiallite, testimoni di un passato che, forse, è quello che è, finalmente. Passato. Un’ombra ci è passata vicino, a noi tutti, un’ombra che da sempre ha allungato la sua mano adunca sul nostro amato mondo, e sempre lo farà.

Un’ombra che non è mai passata.

Ed è forse per questo che io, Lsyn Amarto, mi chino di nuovo su pile di fogli, e riprendo una furiosa missione.

Forse è per questo che io, un tempo Spia del Regno, elfa dallo spiccato senso della razza, ricca e piena di affetti, un tempo devastata pellegrina sfregiata, per colpa di un incidente premeditato e di una finta sparizione, di un elfo che amava e che credeva tutta un’altra persona, un tempo disperata Ch’argon di Uruk, vuota d’ideali e di affetti, ho deciso di riprendere in mano penna e calamaio e passare di nuovo notti insonni, al lume di una sola, fedele candela.

Forse è per questo, per l’urgenza di raccontare ciò che un tempo fu, ciò che minaccia di ripetersi ad ogni giro della ruota del tempo, la tessitrice che trama un sudario sempre uguale a se stesso.

Buffo.

Ho già raccontato ciò che mi successe in pochi mesi, quel cambio radicale del mio universo, a cui se ne aggiunsero molti altri, raccontato a nessuno, ad uno, a tutti, una storia che può essere di chiunque e solo mia.

L’ ho già raccontato, tutto quello che mi successe, che mi spinse a ritirarmi in una socievole pace, in una stasi, in attesa che il mio momento giungesse.

Come poi effettivamente fu.

Sono diversa dall’elfa che si stese, un pomeriggio d’autunno, su un letto che un tempo non era sua, declamando al vuoto ed al passato di essere tornata.

Diversa, da quell’elfa che mescolava affetto, compassione e disperazione.

Posso dire, ora, che il processo che mi ha portato ad essere ciò che effettivamente sono è finalmente completo.

Lentamente, durante ciò che successe, ciò di cui ora parlerò, trovai il coraggio per alzare la testa, e sbeffeggiare il destino con una linguaccia.

Non ho più rimpianti, ed i dolori passati, i ricordi di persone che c’erano, e non ci sono più, sono meno cocenti.

C’è sempre, ancora, di tanto in tanto, la sofferenza, gli incubi vengono a tormentarmi.

Rivedo ancora quell’attimo in cui la mia spada si conficcò nel corpo del mio amato Chekaril, quel Principe che idolatravo, ed avevo cercato per tanti, tanti anni.

Rivedo ancora l’attimo in cui il respiro del mio amato fratello, quel Tijorn dai profondi occhi grigi, si fermò, stroncato da un male inaspettato e terribile, stroncato da qualcosa che si poteva evitare.

Risento ancora le suppliche disperate di Akita.

Così come risento mille volte gli strilli sofferenti di Nemys.

Eppure, ogni istinto di vendetta, ogni fuoco ardente si è ormai spento, in me.

Dopo tutto questo tempo, sono contenta di vivere.

Verissimo, sono cambiate tante cose, e nuovi problemi si sono andati ad aggiungere ai vecchi.

Qualcosa di buono è rimasto, tuttavia, da tutto questo lutto, da tutto questo male.

Tutto questo dolore, ora lo capisco, non è stato inutile.

C’è stato un motivo per cui ora noi siamo vivi, vegeti e relativamente sereni, ed io ne voglio parlare.

Voglio testimoniare, testimoniare cosa che furono, ferite del passato che stentano a stare buone, pezzi che il destino ha sparso per il mondo, e si è divertito a nascondere, ciò che successe dopo quel periodo che culminò con una giovane e vecchia elfa dalle ciocche bianche, impegnata a guarirsi e curare bambini non suoi.

Diamine, i bambini.

Sapete, da quel giorno in cui apposi l’ultima parola alle mie dolorose confessioni sono ormai passati circa centoquarantasei anni, ed essi sono ormai adulti, giovani adulti che si affacciano allegri alla vita. Tempo lungo per decidersi a riprendere in mano le redini della propria esistenza, vero?

Dei, solo a pensarci mi viene da ridere.

Sono sempre la solita, vecchia, mucca tradizionalista.

Per noi elfi, è tutto più lento. La vita stessa si svolge con ritmi assurdamente dilatati.

Di cose ne sono cambiate, in tutti questi anni. Ma io sono rimasta pressoché identica.

La stessa elfa bassa, drammaticamente piccina, mingherlina, dai lunghi capelli, un tempo neri, ora striati di bianco e grigio, monito perenne agli orrori da me subiti, dagli stessi occhi scurissimi, dagli stessi abiti, dello stesso, significativo colore. La stessa creatura impossibile.

Dallo stesso corpo per metà ridotto ad un terrificante ammasso di cicatrici, segni che faceva di tutto per nascondere, facendo finta di essere serena con quella voce di tomba. O almeno, così fu.

Ora sono diversa, mi sento diversa.

Ma non sto scrivendo per parlare di me, tutt’altro. O meglio, voglio credere così.

Tutto cominciò come sempre.

La vita che mi attornia era, all’inizio, sempre la stessa.

Ero sempre la Ch’argon di Uruk, legata allo stesso regno da un vincolo indissolubile.

Ero sempre l’amica di Isnark, a cui ho inflitto due cicatrici perpendicolari che tanto paiono l’iniziale del mio nome.

Riempivo sempre scartoffie ogni pomeriggio.

Ero sempre legata da un vincolo d’indissolubile amicizia ai miei tre giganti, il timido Capouille, il fiero Benagi e l’austero Zipherias, lo zoppo, gelosissimo Zipherias. Lui trasaliva ancora quando mi vedeva in confidenza con uno sconosciuto.

Il Regno era sempre in mano a Lainay, la madre asfissiante di un povero Kamarducil a cui non era permesso nemmeno di  fare un passo al di fuori del castello di Galinne.

 Il Regno si estendeva sempre per buona metà del continente.

Gli umani erano sempre trattati come bestie.

Torturati, uccisi, seviziati. La loro elfica sovrana trovava sempre un nuovo modo per giocare con i suoi cuccioli.

Si diceva che qualcuno di loro fosse entrato nelle sue grazie, qualche umano che vivesse nella fastosa corte della Città dell’oro, ma io tendevo a non credere a quelle dicerie.

Non riuscivo a pensare Lainay, quella sovrana che con tanta cecità avevo seguito, con tanta dedizione, per poi essere crudelmente torturata da lei stessa, gentile con degli orecchie-tonde.

Lei i mortali li torturava di persona. Li uccideva di persona.

Beh, cose come quelle erano la norma, ormai, e nemmeno io mi scomponevo.

La guerra era sempre una silente minaccia.

Poco tempo fa, tuttavia, era ancora in mera potenza. A parte qualche innocua scaramuccia, niente di che.

Eravamo tuttavia in stato di massima allerta.

Non è bello essere circondati da un regno che vuole prendere il territorio con ogni pretesto, sempre sulla difensiva.

Gli altri regni sedicenti liberi avevano mani e piedi legati.

La resistenza continuava, labile e sotterranea.

Eravamo tutti oppressi da una potenza troppo potente.

Tuttavia, la nostra vita ancora continuava.

Roxen, Chekaril, Manolìa, Nysha, Machin e Nilyan sono tutti cresciuti sani e belli, perfetti.

Vivono, ora, con mio enorme dispiacere, tutti a Kyradon.

Ero rimasta praticamente sola con Amarto e Dae nella casetta di Sharilar.

Tuttavia, non ci rimanevo tutta la giornata, a rimembrare cose passate.

Ero sempre in attività, ed a casa ci tornavo solo di sera.

Tutta la giornata la spendevo con i miei protetti.

Tutti i piccoli sono tanto cambiati, da quando erano bambini innocenti.

Nilyan si è fatta una bella giovane. Assomiglia in un modo impressionante sia alla madre che al padre, con quegli arruffati capelli bianchi e gli occhi azzurri, la pelle olivastra, la corporatura alta e snella e i tratti rapaci, ma ha un carattere che è tutto particolare.

E’ di  dolce pepe,  da capo a piedi. Sono fiera di averla allevata così indipendente.

È testarda, un vero e proprio muro quando serve, e fa quello che vuole e decide lei. Ma è tenerissima, di una dolcezza straordinaria, sempre quieta ed un po’ con la testa fra le nuvole. È l’unica capace di far ragionare le teste calde come mio nipote. Mi vuole un bene immenso, a me come a tutti i personaggi che l’hanno accompagnata dall’infanzia. Ma a me di più. È come se fossi sua madre. Ed io di questo sono fiera.

E’ un pericolo, tuttavia, per se stessa, lo devo ammettere. Da una certa età in poi ha cominciato, un tratto degno della sua natura non esattamente elfica, a manifestare un prepotente e potenzialmente devastante potere magico. La prima volta che  cominciò ad usare la magia fu per me un colpo. Quel giorno mi rovinò un’intera collezione di piatti, presa dal panico di vederli galleggiare. Benagi deve avere ancora lo strano segno che gli lasciò uno di questi, che aveva cominciato a rimbalzare dappertutto, senza rompersi. Da allora, si allena ogni giorno con maghi e sacerdoti, e sembra migliorare. Non bisogna metterla sotto pressione, però, perché la sua forza rischia di erompere e travolgerla, come un fiume in piena. Vederla impazzire sarebbe per me qualcosa di troppo terribile. Non riuscirei a sopportare una cosa del genere.

All’epoca, Nilyan, la piccola Nilyan, che avevo stretto a me quando aveva la febbre, con cui avevo giocato, che avevo allenato ed allevato, a cui le avevo date di santa ragione quando commetteva qualche marachella di troppo, era ancora Principessa, una principessa senza ambizioni di divenire Regina. Non ne aveva la minima intenzione, per inciso. Amava la sua bella vita, piena di allenamenti e di studio. Non si poneva domande, e guardava fiduciosa il futuro, con una speranza tipica dei giovani.

Il suo è un ciondolo semplice ed elaborato, ricavato da uno dei due Cuori che rubai a quei Celestiali che uccisi. Li ho fatti fondere, creando tutte piccole opere d’arte, regalando a cinque dei sei piccoli soli un ricordo della loro infanzia, come Amarto fece con me, al compimento del centesimo anno.

Anche il mio nipotino è cresciuto. Il mio Machin, il mio tesoro. Le aspettative che avevamo di lui da piccolo si sono tutte compiutamente realizzate.

È divenuto un giovane davvero bello, che assomiglia in modo inquietante al mio defunto e carissimo fratello, al mio Tijorn.

Per questo, mi è ancora più caro.

Quando vedo i suoi occhi, grigi e profondi, mi sembra, ora come un tempo, di fissare lui ritornato a vivere.

Ma c’è anche Akita, in quei tratti che fanno cadere ai suoi piedi tante elfe, quelle poverine di cui lui non si avvede minimamente.

Ha strani capelli leggermente ondulati, di un biondo rossiccio, con sfumature aranciate e rosse, una pelle di alabastro, che si arrossa in un attimo, nell’altezza ed in quella falsa magrezza.

Mio nipote era ed è ufficialmente un’inguaribile testa calda. Un istrione, un buffone, un pazzo scatenato, in tutti i sensi. Terribile, sempre sorridente, pronto allo scherzo ed al riso, alla battuta, volatile, un vortice in cui si affogava, inafferrabile, imprevedibile. Aveva ereditato la natura leggermente infantile della madre, la pazienza e la dolcezza estrema del padre, il senso di responsabilità. Ogni tanto tira fuori una serietà niente male. Un guazzabuglio incredibile, un lago di cui è difficile scorgere il fondo. È ancora uno delle persone più difficili da comprendere, per me. Pensava sempre a quello che faceva, anche se faceva finta di non accorgersene. Cercava sempre di stupire. Ma si pentiva quando esagerava. È legato tuttora ad un tenero legame di amicizia, di fratellanza, con Nilyan. Sono quasi gemelli, quei due. Durante l’infanzia sembravano me e Tijorn, con ruoli invertiti. Mi sembra tanto di rivedere me, in mio nipote. Stessa ingenuità travestita da durezza. Stessa inguaribile mania di agire prima di pensare.

Io, però, non avevo la sua libertà di scelta. Gliel’ho dovuto ricordare ben più di una volta.

Beh, d’accordo che gli davo massima possibilità di fare tutto, ma quando era troppo era troppo e basta. Appena adulto, non appena staccatosi dal sicuro nido familiare, aveva manifestato il sincero apprezzamento per un gruppo di attori di un teatrino che era andato a visitare chissà quando. Dopo poco, mi era giunta la notizia che lui, il mio Machin, si era arruolato in quel gruppo, in quella marmaglia, prima come aiuto, ma riscuotendo in seguito molto successo. E lui che non mi aveva detto nulla! Beh, sapeva cosa ne pensavo a proposito. Avevo rabbrividito. Attore. Zipherias può dirmi quanto vuole che i tempi sono cambiati, che sono troppo all’antica, ma io non ci posso fare niente. Mi hanno sempre insegnato che l’attore è uno dei mestieri più depravati e socialmente degradanti di tutti, e non ho mai mollato la linea. Non era affatto decoroso che il nipote della Ch’argon si fosse impegolato con una compagnia di quel genere. Sono andata a prenderlo, quella volta, per le orecchie, letteralmente. Gli ho fatto una lavata di testa che non si dimenticherà, credo, mai più. Doveva ricordarsi che quelli erano tempi di guerra, e non c’era bisogno di futili saltimbanchi. In tempo di pace, beh, penso che non avrei saputo dire di no al mio piccolo mascalzone, ma ora era troppo pericoloso quel mestiere. In caso fossimo stati attaccati, un attore non poteva far nulla. Solo subire, essere maltrattato, essere picchiato. Andava bene come passatempo. Ma come lavoro no. Non dopo tanti anni passati ad insegnargli l’uso delle armi, ad insegnargli la vera vita. Non dopo che io avevo sofferto. Non dopo che i suoi genitori erano morti per lui. Machin aveva capito, aveva capito le mie ragioni. Dopo avermi dato della capra per un bel po’, lo ammetto. Ed era arrivato ad una via di mezzo niente male. Si era arruolato nelle guardie della principessa, una scelta scontata e piacevole, che gli permetteva di stare accanto alla sua sorellina putativa, e, intanto, faceva qualche parte negli spettacoli. L’ho visto recitare, un girono, di nascosto. Lui non lo sa ancora. È bravo. Ama davvero fare ciò che fa. Ed io voglio bene lui come ad un figlio. Quando lo vedo, mi verrebbe di fare la ruota come un pavone. È perfetto così com’è.

 Nonostante questi minuscoli screzi, il rapporto tra me e mio nipote è profondissimo. Lui adorava ed adora ancora me. Come quand’era piccolo, è un po’ geloso di me. Mi tratta come una madre, chiedendomi consigli, chiedendomi riparo, conforto, ed ottenendolo. Ogni tanto si può dimenticare di dirmi qualcosa, come in quella faccenda del teatro, ma di solito mi sta a sentire. Il mio dolce, piccolo mascalzone. Lo reputerò sempre un po’ figlio mio, lo so, nonostante abbia voluto che lui si chiami Machin Tijorn. In fondo l’ho allevato. È sangue del mio sangue. Sacrificherei per lui la mia stessa anima, come per tutti i miei piccoli. Le ho regalato un ciondolo uguale a quello di Nilyan. Lui non lo porta mai, ma so che è sempre in una tasca. Temo sia divenuto il suo portafortuna.

L’altra scelta strana l’ha fatta Chekaril, com’era prevedibile. Devo dire che per lui non ho strepitato così tanto. Il suo mestiere è a me inviso per ragioni tutte personali. È divenuto un Guaritore. Dei, è stranissimo vederlo al Lazzaretto, quel giovane serio e dolcissimo, vestito con la divisa, sempre indaffarato, con lo sguardo pacato e sereno. Mi crede ancora sua zia. Porta i capelli lunghissimi. Non penso si sia dimenticato di ciò che gli fece Lainay. Anche lui è un bel giovanotto, e, se non fosse per gli occhi di quel verde strabiliante, di quei colori del bosco, sarebbe uguale al padre, a quel Chekaril che io ho ammazzato.  Il carattere è, tuttavia, diversissimo. Non ho mai incontrato una persona più fedele, timida e chiacchierona di lui. È solare, una solarità meno sfolgorante di quella di Machin, più tranquilla. È il perfetto pantofolaio, un tranquillo e pacioso Guaritore, sempre sereno, con un sorriso gentile sulle labbra. Penso che non lascerà mai, mai, mai, la sua Miobashin. Quando mi disse di essersi innamorato di quell’elfa, un’elfa paffuta e bassina, Guaritrice come lui, dai riccioli ramati e dallo sguardo ingenuo, penso che mi sia venuto un colpo.  Il mio Chekaril…innamorato pazzo. Il mio Chekaril… quel bambino che mi assordava con le sue chiacchiere… che mi veniva a dare per primo il buongiorno, lottando con tutti, e spesso svegliandosi prima per farlo… innamorato. Devo essere stata sotto shock per chissà quanto. Non me l’aspettavo. Pian piano, ho imparato però ad apprezzare la compagna del mio dolce tesoro. È perfetta per lui. Una tosta, sotto il velo di dolcezza. Peggio di Nilyan. Spesso era lei a prendere per le orecchie me, quando andavo da lei, implorandola di procurarmi un po’ di sonnifero forte. Me lo impediva sempre. Mi diceva che non serviva, che il miglior tranquillante era la pace interiore, qualcosa che dovevo cercare e non ricevere. Aveva ragione. Da quel giorno ho rivalutato totalmente quell’elfa energica e materna. Quelle volte in cui mi capita di andare al Lazzaretto corro sempre da lei. Avevo la netta impressione che quei due, ora che le cose sono cambiate, stessero per risolvere qualcosa che a me sicuramente non sarebbe piaciuto, ma che non avrei mai e poi mai osteggiato per nulla al mondo. Non voglio altro che vedere il mio piccino felice. Benché sia più alto di me di un bel po’, continuerò a reputarlo parte di me, ancora quel bambino che, la prima volta che vide la neve, era corso ad assaggiarla per vedere che sapore avesse, ed era rimasto deluso dal fatto che non fosse dolce, che non fosse fatta di zucchero come aveva sempre immaginato. Il suo è il ciondolo più semplice. Lui non ama le cose troppo elaborate.

Roxen, mia figlia, mi preoccupava un po’. Da buona sorella maggiore, protettiva nei confronti del fratellastro come un cane da guardia, si era arruolata nel corpo delle Guardie del Lazzaretto. Avevo l’impressione che fosse anche per un altro motivo, qualcosa che mi rimaneva oscuro, ma non avevo mai indagato. Erano, quelli, affari della mia piccina. Quando sarebbe venuto il momento, mi avrebbe raccontato tutto. Ne ero certa. Non le avevo ancora detto di essere sua madre. Non trovavo mai il coraggio, benché di occasioni ce ne fossero state molte. Un sacco di volte lei si stupiva del fatto che noi ci assomigliassimo come gocce d’acqua. Ed era, beh, fatta eccezione, fortunatamente l’altezza e gli occhi, verissimo. Crescendo, era divenuta bellissima, di una bellezza diversa da quella di Nilyan, molto più appariscente, cosa che lei tende a sottolineare sempre, cosa che m’inquieta. Quando accarezzavo i suoi ricci corvini mi pareva di accarezzare i miei, un tempo. Come Machin assomigliava fisicamente a Tijorn, lei era come me. Tuttavia, a differenza di mio nipote, c’era qualcosa della vecchia Lsyn che m’intimoriva. Rivedevo me in lei, la mia stessa oscurità, la testardaggine cupa e quasi diabolica, la stessa aura di cinico calcolo, di tracotanza, di ambiguità. Ero in continuo allarme. Lei, come mi aveva sputato più di una volta, non si sarebbe mai venduta al Regno, a quella che le aveva rasato i capelli e picchiata, ma non era nemmeno legata ciecamente ad Uruk, come me. Era libera, come il vento. Assecondava solo i vincoli di affetto che la tenevano legata a me, a Chekaril, ma a Nilyan soprattutto. Se solo questi fossero venuti a mancare, allora lei si sarebbe reputata a diritto cittadina del mondo, ed avrebbe girovagato. Ogni volta che mi parlava così mi spezzava il cuore. Rivedevo in maniera troppo netta me ed i miei errori. La vedevo, spaventata, agire come me prima che un Principe venisse a rubarmi il cuore. Se stessa era  usata  da lei come uno dei numeri nell’immenso algoritmo che era la sua vita. Non avrebbe esitato, né lo fece più di una volta, a mettere in gioco il suo stesso corpo per ottenere quello che desiderava. Era abilissima ad incantare poveri generali, o altri elfi di rango, per favori di vario tipo. Era un genio a simulare l’amore. Eppure, era sempre e perennemente insoddisfatta, come se qualcosa la rodesse dall’interno. Non ho mai, mai capito cosa avesse veramente, la mia povera cucciola. Mi piacerebbe domandarlo, ma non posso. Ogni volta che provo ad affrontare l’argomento mi aggredisce, feroce. Ho deciso di lasciar perdere, perlomeno fino a quando non si sentirà pronta a confidarsi con me. Ma questo cruccio è una spina nel mio cuore. A lei ho regalato il ciondolo e la collanina che una volta fu del padre, quello che io gli regalai credendo che lui mi amasse. Marto l’ha vista, ma non ha fatto parola. Lo adoro per questo. Mi fa piacere vederlo al suo collo sempre. Ciò significa che lei mi vuole bene, almeno un po’, dietro quella scorza durissima che usa per proteggersi da chissà cosa.

Manolìa è una speranza ormai persa. Sta sempre lì, rinchiusa nella biblioteca, emula sognante di Akita, la filosofia fatta elfa. Qualche volta bisogna ricordarle di bere e mangiare, tanto è presa dal suo mondo di carta. Libri, mappe, vecchie  leggende: sta per superare il vecchio Yufrek, in quanto a conoscenze. Ogni tanto la dovevo prendere io dalla torre per le orecchie, tanto per non farle fare addosso uno strato di polvere spesso un dito, ricordarle che i capelli, oltre che puliti, andavano anche pettinati, tanto per non far fare il nido ai topi, ricordarle che, no, le macchie d’inchiostro secche addosso non sono decenti per una giovane bella come lei. Sarebbe stata carina, se solo non si fosse ostinata a vestirsi come capitava, ad andare in giro con il naso per aria per vedere le stelle. È graziosa, esile, nella norma, un’elfa gradevole e dal carattere forse svampito, ma simpatico. Le ho regalato un bel ciondolo appariscente, tanto per darle una nota di colore. Temo che l’abbia usato come segnalibro, o se lo sia dimenticato chissà dove. Ma non la biasimo per questo, non dopo quello che la sorella ha fatto, a lei come a tutti noi, provocando l’ennesima ferita.

Non sapevo dove Nysha fosse finita. Sapevo che abitava a Kyradon, ma non sapevo cosa facesse, né come, né dove. Né la volevo cercare. Da quando si era fatta un po’ più grande, non faceva altro che litigare con me, in rotta per ogni minima cosa, scorbutica, cattiva. Ci eravamo separate con astio, lei che mi aveva inveito contro con tutta la cattiveria possibile ed immaginabile, io che, alla fine, seccata, l’avevo cacciata di casa, con la morte nel cuore. Mi ha fatto malissimo, vederla andarsene senza salutare nessuno, senza nemmeno accettare il mio regalo, che era ancora lì, in un piccolo cofanetto che avevo nascosto, in attesa di un’epifania che forse non sarebbe arrivata mai. Penso che non mi abbia perdonato il fatto di aver lasciato morire il suo amato Maestro. Ma lei dovrebbe sapere che non è stata colpa mia. Io non ho mai voluto la morte di Tijorn. Fa ancora male, a me soprattutto. Ma lei non l’hai mai voluto capire. Ruppe i contatti con tutti. È un grande dolore. La gemella ci soffre ancora, tanto. Ho cercato di starle vicina come ho potuto. Lei si è rintanata nel conforto della pergamena, distaccandosi dal mondo. Soffro, per lei e per tutti. La mia piccina. Le mie piccine.

Dal punto di vista della nostra vita, molte cose sono cambiate.

Accidenti, sono quasi centocinquanta anni, e la vita è continuata.

Sebbene la crisi e la guerra ci attanagliassero con artigli appuntiti, la fantasia degli umani, la loro testardaggine, ed il nostro ingegno, benché separati, hanno combinato grandi cose.

La tecnologia sta continuamente facendo passi da gigante, senza peraltro intaccare l’aspetto esterno delle cose, o almeno così è per noi.

La nostra è basata essenzialmente sul rispetto di ciò che è in sé la natura, della sua sostanza intrinseca, ed usando la magia che, almeno in minima parte, scorre in noi.

Quindi abbiamo inventato tante piccole cose per semplificarci l’esistenza, che scorre sempre, apparentemente, identica. Ad un osservatore umano gli elfi potrebbero apparire uguali. Ma nulla è più diverso dal periodo della mia infanzia.

Non mi piace particolarmente, lo so, ma non per questo sono infelice.

Una nuova illuminazione perenne non cambia la vita.

Gli umani sono, in questo campo, né più indietro, né più avanti di noi. Usano la magia, ma in maniera molto più aggressiva e distruttiva.

Mi spaventa quasi, il loro uso della scienza.

Ma, in questo senso, dopo quello che ho visto… nulla mi spaventa più.

Manterrò valori e tradizioni degni di una vecchia bacucca, a sono un’elfa. È nella mia natura tendere ad innovare mantenendo il vecchio, in modo che tutto si sposi.

È un modo più sano, per me, di vivere.

Devo dire, però, che sono poco contenta degli sviluppi delle armi.

Benissimo, come animali da soma o per spostarsi si usano ancora cavalli, ma orrendi mostri metallici alimentati da magia, invenzione tutta umana, sono padroni della guerra, armi che funzionavano in modo tutto diverso dalle buone, vecchie spade.

Ma questo era appannaggio solo dei soldati, e nemmeno di tutti.

Quelle tecnologia erano ancora in prova: molto della battaglia, per fortuna, era ancora basata sul corpo a corpo classico.

Addirittura, la maggioranza della plebe era quasi all’oscuro di tutti quei cambiamenti, beandosi dei minimi avanzamenti che arrivavano loro.

Ma io sapevo.

Sapevo, e più passava il tempo, più m’inquietavo.

Sapevo, perché ero Ch’argon.

Sapevo, perché da un po’ di tempo ero l’eminenza grigia di un gruppo di soldati volontari che spiavano il nemico.

Sapevo, perché riempivo scartoffie ogni giorno.

Sapevo, perché Isnark mi parlava.

Più di una volta ero rimasta così sconvolta da non dormire la notte.

In quel periodo di cui ora parlerò, dove si giocò il tutto per tutto, dopo un lungo periodo di relativa calma, da entrambe le parti si era registrata un’impressionante corsa agli armamenti. Dopo decenni di pace, Lainay stava cominciando a stuzzicare sia noi che i regni umani. Loro soprattutto. Si erano verificate piccole scaramucce che non presagivano nulla di buono, e noi cominciavamo a temere. Eravamo piuttosto arretrati quanto ad armi. Dovevamo procurarci nuovi e consistenti aiuti. Ogni girono che passava, vedevo una guerra che per tanto tempo si era evitata avvicinarsi, ed ero sempre più nervosa. Isnark condivideva i miei timori. Da un po’ di tempo i dispacci che arrivavano da Galinne non erano amichevoli. S’imponeva una neutralità forzata, un completo disarmo delle truppe, cose così. Il sovrano di Uruk era sempre meno fiducioso. Ogni volta che lo andavo a trovare sembrava volermi dire qualcosa, senza riuscire a parlare.

Ecco. Uruk aveva mani e piedi legati.

Il popolo non era contento, oh no.

Nemmeno noi, per inciso.

Eravamo tutti un po’ più frustrati.

Arrivava sempre meno cibo. I poveri aumentavano.

Si stavano formando nuove strane sette religiose.

È in questo clima di tensione che comincia la mia storia, ciò che seguirà.

È da questo momento d’incertezza che Lsyn Amarto cominciò a ritornare, lentamente, una creatura vivente.

Di nuovo la mia penna tremerà, eppure io sorriderò a riportare ciò che successe in quel periodo così breve rispetto ai cinquant’anni che mi ci vollero per capire che la mia esistenza era solo finzione.

Se solo temessi di rovinare tutto il mio scritto, aggiungere un bel per fortuna, scritto anche in maiuscolo, tanto per sottolineare l’evento.

Eppure, strano, non fui solo io a raggiungere la pace interiore.

Tre anime, altre due anime come la mia, cominciarono a perseguire la lunga strada che porta alla realizzazione di una vita compiuta.

Fummo tre anime a trovare di nuovo noi stessi.

Ed a sfidare il caso ad una partita a dadi.

Una rivincita, un’illuminazione ed un destino che si compì.

Tre anime, strettamente intrecciate e strettamente divise da un percorso parallelo, eppure sovrapposto.

Un cammino tortuoso, eppure dannatamente soddisfacente.

E la mia vita ha inizio quando tutto sembrava tramontare.

Ed al mio tramonto seguì un’alba, della stessa persona diversa.

Che la cerca dei sogni abbia inizio.

 

Persegui. Il tuo Scopo Ultimo. Fino alla Fine.

 

 

  
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