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Autore: Bess Black    11/10/2015    7 recensioni
Louis non lo disse mai a nessuno, ma sapeva già come sarebbe andata a finire: l'aveva visto.
Sapeva del cancro di Molly e di quanto lentamente l'avrebbe uccisa.
Sapeva di Lucy e del motivo per il quale parlasse da sola tutto il tempo.
Sapeva di Roxanne e di Fred, e dei macigni che si trascinavano dietro.
Sapeva ciò che nascondeva Lysander. E ciò che faceva Lorcan per coprirlo.
Sapeva di Evelyn Black e tutto ciò che celava quel cognome.
Sapeva di James ed di Albus, e chi dei due si sarebbe pentito alla fine.
Sapeva chi era Derek Nott davvero, chi non era Amelia Nott e quanto sarebbe costato scoprirlo. E quanto sarebbe costato ad Alexander e Denise Rosier.
Sapeva di Scorpius. E Rose.
Sapeva di Lily, finché sapeva di Hugo.
Sapeva di Frank, tanto quanto ne sapeva di Dominique.
Sapeva di ciò che legava Damian Harper ad Adam Zabini. E di ciò che legava lui ad Adam.
Sapeva chi sarebbe rimasto, chi se ne sarebbe andato e chi, dal principio, li avrebbe traditi tutti.
Louis sa già come terminerà questa storia e sa già di essere tra quelli che, alla fine, non ci saranno.
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Fred Weasley, Fred Weasley Jr, James Sirius Potter, Louis Weasley, Regulus Black | Coppie: Hugo/Lily, Rose/Scorpius, Teddy/Victorie
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'isola che non c'è'
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XI.
La Notte

 
 
 
 
Solo la notte, io, per me, tess’un manto,
madre pelle nera di freddo e buio;
se sacra la solitudine in pianto.
 
Solo se la miseria sola mena 
contro il vento d’altri il manto mio;
m’è sacra la solitudine in pena.
 
Solo, e di manti e d’ombra per sorte,
io, come la notte, davanti a Dio;
vivo sacra la solitudine in morte.
 
In pianto, pena, morte
Sacra solitudine
In vita ed in morte.
 
 
Assolo, I
 
 
 
 
 
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
 
Giacomo Leopardi, A se stesso
 






 
§§§
 
 

 
 
 
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – 21 Ottobre 1972
 
 
 
«Mocciosus!»
«Mocciosus, lo sappiamo che sei lì dentro!»
Una risata galleggiò e arrivò in onda al fiato fin dentro il ripostiglio; l’altra galoppò ed arrivò fin dentro Regulus. Una era divertita ed allarmante; l’altra era divertita, dolce perché cara, ed allarmante.
I due Serpeverde si guardarono. Calcolarono quanto erano soli e quanto, di conseguenza, erano in compagnia; sottrassero dal risultato che ne trassero simultaneamente quanto era concesso loro esser soli e quanto, inversamente, conveniva loro esser in compagnia. Essere soli in compagnia era pittoresco, sublime perché splendido e spaventoso – splendido perché spaventoso e spaventoso da quanto splendido – ma la solitudine ne era l’imperativo. Potevano esser soli in compagnia solo quando avevano la possibilità di essere soli e la possibilità di scegliere di esserlo; la solitudine doveva essere imposta e voluta; doveva esser accusa e confessione; castigo ed espiazione. Assassinio e sacrificio.
Con lo sguardo, con lo sguardo solo si chiesero il permesso e se lo negarono. Con lo sguardo solo si accusarono e si confessarono, reclamando una tregua e rifiutandola. Con lo sguardo solo si castigarono ed espiarono per aver esatto un armistizio e averlo respinto. Con lo sguardo solo si assassinarono e sacrificarono per aver sporto e ritirato un congedo dal loro diritto all’esilio. Coi soli occhi fecero una strage della solitudine in quanto principio ed in quanto diritto all’egoismo, e mai nessuno poté testimoniarlo o commemorarlo.
«Mocciosus, guarda che se non vieni fuori entriamo noi!»
«Spostati, ci penso io!»
Non smisero di guardarsi perché negarsi la compagnia nella solitudine significava premettere l’egoismo, accettare la definizione di Serpeverde egoisti e farla propria – e, soprattutto, non vergognarsene. L’avevano rifiutato prima di proporlo ed avevano scelto la solitudine senza compagnia in nome dell’egoismo che spettava loro, per non vergognarsene. Ma fieri perché egoisti o egoisti perché fieri? Egoisti perché soli o soli perché egoisti? Che vergogna.
Al di là della porta le risate si sovrapposero e non fu più prioritario distinguerle. In quel momento, che nessuno avrebbe mai riportato alla memoria, la porta di legno sfregiato del ripostiglio fu la più artistica asse di simmetria che la scienza, in tutte le sue forme, avrebbe mai vantato.
Perché Regulus Arcturus Black e Severus Piton non furono mai amici, ma seppero come vergognarsene.
 
«Bombarda Maxima!»
Regulus ebbe i riflessi pronti, senza volerlo; riuscì ad indietreggiare fin dove poté e ad urlare a Severus d’imitarlo, allo stesso tempo. Non ce ne fu alcun bisogno perché il ragazzo aveva già evocato un Sortilegio Scudo tra loro e le schegge di legno che esplosero, abbastanza efficace laddove risparmiò loro lesioni o abrasioni, ma non abbastanza padroneggiato da evitar loro di schiantarsi contro il muro.
Si rimisero in piedi in fretta perché le risate – seppure non più filtrate da una porta, ma da un varco – erano ancora sovrapposte, incastrate tra loro come rime incatenate nelle quartine di un sonetto. Regulus spazzò via la polvere prima dal libro di Trasfigurazione e poi dai propri vestiti e dai capelli, con le mani.
Si guardarono ancora, ancora, ancora. Sempre la logica sarà grata all’ambiguità dei rapporti tra cause e conseguenze per il solo modo in cui si guardarono: seppur decisero che sarebbero stati egoisti e – e perché – soli, seppur decisero di esser soli e – e perché – fieri, continuare a domandarselo era conferirsi una possibilità seppur ritrattandola, ammetterla attraverso la negazione. Era confessare in poesia il coraggio, solo abiurandolo.
Ogni volta che Regulus e Severus si guardavano, si chiedevano l’un l’altro il permesso di non essere egoisti, non esser soli e vergognarsene; se lo negavano, certo, ma per domandarselo ancora, ancora, ancora. Che vergogna.
James Potter spinse il suo sorriso tra la polvere e l’aria, fino a toglierne a Regulus. Inforcò al meglio gli occhiali, nonostante le lenti rotonde fossero imbrattate di polvere, per vederlo meglio; tuttavia non si avvicinò, non s’inginocchiò al suo livello, piuttosto lo afferrò dall’avambraccio, e lo alzò con uno strattone garbato.
Regulus si sollevò sollecitato da tale garbo, inciampando nella maniglia della porta finita tra i suoi piedi e negli occhi di James Potter. «Avevi ragione, Sirius.» continuò a guardare lui, ma parlò a qualcuno alle proprie spalle. «Sei più bello tu.»
«Bene bene, Mocciusus. Sei furbo a scegliere i nascondigli, quanto a scegliere le compagnie.» rise, risero entrambi, ma le loro voci non si sovrapposero questa volta perché quella di James fu solo una smorfia più distratta che sinceramente divertita, un riflesso involontario di chi è abituato a vedere solo il lato comico dell’ironia.
Regulus non seppe muoversi e forse fu questo a far sì che nemmeno James smettesse di stringere il suo avambraccio sinistro. «Perché mi guardi così?» sussurrò, infine.
Scosse il capo, lasciando il braccio proteso affinché l’altro non smettesse di stringerlo.
«Che c’è?» chiese ancora, bisbigliando con la voce e col sorriso che stava solleticando le guance e lo stomaco di Regulus. Che vergogna.
 
Nessuno dei due avrebbe potuto saperlo, ma James Charlus Potter aveva la mano intorno al punto esatto in cui sette anni dopo sarebbe stato inciso il Marchio Nero sulla pelle di Regulus Arcturus Black.
 
 
 
 
 
§
 
 
 
 
 
Louis chiude gli occhi una seconda volta, già dormiente.
Si sente ancora accoccolato e caldo, come se fosse rimasto tra le coperte del suo letto, nel dormitorio, nella Sala Comune, nella Torre Grifondoro, ad Hogwarts. Ancora al sicuro.
E invece, è nel peggior territorio di battaglia: il suo.
Si trova a galla sulle nubi. È paradossalmente assurdo, ma cerca di consolarsi ripetendosi che non è la realtà, che è un sogno e che, come nel precedente aveva camminato sopra il Lago Nero senza cadere in acqua, anche questa volta ha ottime possibilità di non cadere nel vuoto e, se dovesse mai accadere, al massimo si risveglierebbe. Non è nulla di tutto ciò a preoccuparlo.
Si siede ad un soffio freddo dalle nuvole sotto di lui, incrocia le gambe perché sa che deve aspettare; sa che qualcuno arriverà e solo così lui se ne andrà. Incanala il proprio sguardo sulla conca dolce che creano le sue mani, l’una nel grembo dell’altra, timoroso di ciò che avrebbe visto di lì a poco perché sapeva che avrebbe dovuto ricordarlo anche da sveglio.
Tutt’attorno iniziano a piovergli addosso piume bianche; eppure quando se ne accorge nota anche che il loro modo di precipitare è perpetuo persino nell’aria, come se fossero nate per cadere ancora, ancora e ancora, e fosse lui ad essere di passaggio. Si chiede, dunque, senza alzare gli occhi raccolti nelle proprie mani, chi stia cadendo davvero.
«Ti piacciono?»
Molly gli accarezza i capelli e Louis chiude gli occhi. Ed è così che lei fa scivolare le mani dai suoi capelli ai suoi occhi, incoraggiandolo – comprensiva laddove solo lei aveva mai saputo esserlo – a tenerli chiusi. Chiusi nel sonno e nel sogno, sradicandolo da realtà e irrealtà, e lasciandogli solo l’immaginazione.
«Se me ne vado, rimango. E tu lo sai, Louis, lo sai.» E immaginazione e verità mai più avrebbero raggiunto un connubio tanto compiuto, tanto fedele, tanto artistico. «Tu sei il mio miglior modo di restare, Louis.»
Le parole di Molly piovono dall’alto come piombo tra la morbidezza delle piume; gravate dal significato di cui si facevano carico e aggravate dai significanti che celavano i significati dei significati.
«Se me ne vado ora, rimarrò sempre.»
Questa è la frase incisa sulla lapide della tomba di Molly Andromeda Weasley tutte le volte che Louis ha visto, previsto, sognato e vissuto il suo funerale.
«Portami via, Louis. Andiamo dove le strade finiscono.» lo supplica avvicinandosi, solo perché ormai si stava allontanando. «E lasciami sulla soglia del precipizio più alto, prima di tornare indietro a costruire strade.»
E, finalmente, Louis si permette di piangere lacrime che nascono – e muoiono – nascoste nelle mani di Molly sui suoi occhi, come una carezza, come una promessa che voleva seppellire tutti i segreti coi quali solo loro due – e loro due soltanto – avrebbero mai vissuto e con cui solo lei – e lei soltanto – sarebbe morta. Era disposta a condividere la propria tomba coi loro segreti, così come lui avrebbe fatto coi propri incubi.
«Gli uomini costruiscono strade e poi le distruggono per paura di terminarle e scoprire dove portano.» gli sfugge un singhiozzo che si affretta ad ingoiare assieme a tutto ciò che sapeva non avrebbe mai più avuto l’opportunità di confidarle. «Me lo hai detto tu.» commemora lui, raccogliendo alla memoria le parole di sua cugina come care reliquie.
Molly gli lascia un bacio tra i capelli. «Ricorda, Louis. Ricorda che la costruzione così come la distruzione è arte di vivere, ma finora i ponti sono gli unici capolavori. Riesci ad immaginare perché?»
Ad occhi chiusi Louis scuote il capo contro il petto della ragazza, alle sue spalle. Sa già quello che lei sta per fare e non vuole che lo faccia: se queste sono le ultime parole di Molly, vuole sentirla pronunciarne altre.
«Perché sono i primi a crollare, sempre prima delle strade, ma solo dopo le coscienze.» toglie le mani dai suoi occhi, senza lasciare ogni traccia di tatto; come se le sue mani non ci fossero mai state – come sei lei non ci fosse mai stata, mai vissuta, mai esistita né nella realtà né nei sogni; solo nell’immaginazione.
«È un ponte quello che mi stai chiedendo di costruire, vero?» E gli va bene, finché Molly è lì, è qui, ora, va bene; finché è dietro di lui, le mani sui suoi occhi o nei suoi capelli, qui e ora, va bene; finché Molly rimane ora prima di rimanere per sempre, va bene. «Questo significa che non potrò costruire strade, non potrò distruggerle.» Eppure non è questo il punto, non finché va bene e lo sa; lei lo sa.
«Chiedimi di chi è il sangue, Louis.» Molly gli sorride sul collo, gli sorride brividi sulla pelle ed è il suo commiato: vuole che lui la ricordi sorridente, anche ai suoi pianti; perfino ai propri.
«Di chi è il sangue, Molly?» ora che le mani di lei non gli bendano più gli occhi, anche le lacrime piovono assieme a piume e parole di piombo, sul suo grembo.
«Di chi rimane.» Finché va bene.
Louis apre gli occhi perché non sente più Molly alle sue spalle, ma non si volta.
«Non piangere per chi se ne va, Louis.» lo consola con condoglianze sarcastiche di chi sa, ma non capisce. «Se io me ne vado, a te e per te lascio quel che è rimasto del mio tempo. Se io me ne vado ora è giusto e tu lo sai, Louis, lo sai.» E allora non è più l’unica a sapere e non capire. «Se io me ne vado ora, rimarrò sempre.»
Quando Louis si volta è Molly a dargli le spalle. Infine, vede che le piume che precipitano, cadono dalle ali che spuntano sulla sua schiena nuda. Non sa non piangere e non sa come può continuare ad andare bene, ma sa che non è piangente che vuole ricordarsi con lei, perfino negli incubi – e nelle tombe.
«Se te ne vai ora, rimarrai sempre.» giura.
Allora, solo allora, Molly respira; spiega le sue ali spelacchiate, ormai spoglie di piume, e si butta giù dal cielo.
 
 
Come il giacinto che i pastori pestano per i monti, e a terra il fiore purpureo sanguina.
 
-Saffo, fr. 105 b Voigt (trad. S. Quasimodo)
 
 
 
 
Aveva gli occhi aperti ancor prima di svegliarsi: aveva assistito alla morte di Molly ad occhi spalancati nel sogno e nella realtà; la morte era troppo onesta, troppo giusta per l’immaginazione, perfino quando era in perfetto connubio con la verità.
Portò le mani sul viso a cancellare lacrime che non trovò perché ancora premature e, ricordò a se stesso, perché Molly le aveva cancellate con le sue mani e se l’era portate dietro – nella tomba.
«Ho parlato nel sonno? Ho detto qualcosa?»
L’orologio sul comodino di Frank, esattamente di fronte a lui, segnava le quattro e venti minuti. Fred aveva solo pantaloncini addosso e, nonostante provasse chiaramente freddo, non si era ulteriormente coperto. Rispose a testa chinata quando capì che James non l’avrebbe fatto.
«Urlavi, piuttosto.» sbottò con distrazione. «Abbiamo gettato un Muffiato attorno al letto perché stavi svegliando tutto il dormitorio.»
«Molly dov-»
Lo precedette, frapponendo tra i ricordi del sogno e le prime consapevolezze un cenno fermo, saldo e risoluto. «Siamo andati a controllare, Lou.» si voltò verso di lui, lo guardò finalmente in faccia, ma rimase ancora costante nella sua tenacia, esattamente quanta ne richiedeva il momento. «Molly dorme.»
Louis trattenne il fiato fino a privarsene, così come le parole di Fred l’avevano spronato ad immaginare la cugina.
Tuttavia il ragazzo non si mosse; rimase coerente coi suoi propositi. «Louis, Molly dorme. Dorme davvero.»
Era raro che Fred Weasley guardasse qualcuno negli occhi, inconsueto perché occasionale, o meglio, eccezionale, tanto che Louis riusciva a dimenticare il verde acqua vivido delle sue iridi pugnalato al centro dal contrasto con la pupilla nitida di nero, come se fosse un obiettivo che lo inquadrava e riprendeva da qualche dettaglio in più d’altezza – e Louis, in fede, gli lasciava il tempo di rigirare il pugnale e prendere la mira. Un obiettivo è pur sempre bersaglio e Fred aveva sempre avuto un modo tutto suo di pugnalarlo.
Fino agli undici anni aveva passato ogni fase primaverile nel cuore dell’Africa, dai nonni materni e questo aveva fatto sì che istintivamente subisse un’educazione completamente dislocata da quella del mondo tradizionalmente occidentale. Guardare negli occhi le persone è una responsabilità, piccolo Freddie. Suo nonno reggeva due secchi di legno di baobab battuto sulle spalle, procedeva a passo istintivo, primordiale e gli parlava con quel suo inglese rude e paratattico. Guardare negli occhi le persone è sacro, piccolo Freddie. Aveva fatto in modo di reggere entrambi i secchi con un unico braccio, attento a non versare l’acqua che avevano appena riempito dal pozzo, pur di liberare quello destro ed indicargli così il sole. Devi sapere, piccolo Freddie, che gli occhi sono forgiati dallo stesso materiale del sole. Louis non ricordava molto il mito che il nonno di Fred gli tramandò quel giorno, più che altro non riusciva a rievocare in pieno il ricordo, a farlo suo in quel momento perché, come spesso accadeva negli ultimi anni, la sua mente lo aveva preceduto, aveva strategicamente anticipato la sua mossa ed era arrivata al termine, all’obbiettivo; al bersaglio. Perciò, mentre Fred si assumeva la responsabilità di guardarlo negli occhi, Louis vedeva un campo di grano maturo improntato da un uomo anziano ed un bambino che camminavano perpendicolari alle loro ombre e alla frase incisa in aria battuta che pendeva contro gravità sulle loro teste, la conclusione del mito. Perché credi che non siamo capaci di guardare il sole, piccolo Freddie?
Louis sbatté le palpebre tanto che balbettarono al posto delle parole che non conseguì a pronunciare. Si era trascritto quella frase nel diario lo stesso giorno in cui Fred aveva a sua volta trasmesso a lui e James quel mito e se l’era recitata, sussurrandosela da solo nelle proprie orecchie, ogni singola volta che Fred si nascondeva da lui, ma alla sue spalle e si assicurava per primo di perdere prepotenza d’esistenza, insistenza di presenza. Come Molly nel sogno, nell’ultimo sogno – e tu lo sai, Louis, lo sai – lo amava alle sue spalle, ad occhi chiusi e a bassa voce. Finché va bene.
«Louis.»
Fred riprese la mira, senza batter ciglio e Louis pianse sangue in cuore pur di non piangere lacrime nei suoi occhi; perché quelle, ancora e per sempre, rimanevano per gli incubi e le tombe. E sapeva che Fred in quel momento si stava caricando in spalla il sacro pur di ricordargli che c’era anche lui, che lui c’era, che era lì e sapeva anche lui, capiva anche lui, soffriva anche lui. Era il suo modo di ricordagli quanto bene andasse, ma Louis e Molly sapevano che andava bene solo ed unicamente finché andava bene.
«Molly dorme, Louis.» Finché va bene.
«Hai- hai detto che urlavo nel sogno.» bisbigliò come si cammina in punta di piedi; bisbigliò come si poteva solo bisbigliare e non sussurrare. «Che cosa stavo urlando?»
«Di non svegliarti.»
James gli voltava le spalle come Molly nel sogno, nell’ultimo sogno – e tu lo sai, Louis, lo sai – ma prima di buttarsi. Vestito di fardelli, James si abbinava alla più bella delle domande che Louis riusciva a porsi, da sveglio: perché non siamo capaci di guardare il sole? Ma il fatto che persistesse a dargli le spalle appaiava alla domanda il gesto medesimo e allora Louis poté portarsi nuovamente le mani in grembo e tormentarsi: adesso che faccio? Adesso, io, che faccio?
Qualcuno gli mise una mano sulla spalla e Louis non ebbe dubbi che fosse Fred – per ricordargli che lui c’era e che Molly dormiva – perché James ancora gli voltava le spalle per rispondergli.
Molly dormiva, Fred era lì e James? James era ancora lì. Finché va bene.
«Ci pregavi di non svegliarti.»
 


 
 
 
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Derek Nott era certo che fosse colpa dei Potter.
Quell’aria sinistra che rabbuiava il clima nel castello, la pioggia che andava avanti ormai da una settimana intera, i quattro temi di cinquantacinque centimetri di pergamena ciascuno che gli erano stati assegnati il giorno prima, le gite ad Hogsmeade cancellate fino a data da decretare, le lettere binominali e perentorie che riceveva nell’ultimo periodo dai genitori, gli Efli Domestici che non preparavano più millefoglie per colazione, le lezioni pomeridiane di Cura delle Creature Magiche annullate per il resto del semestre, la pratica durante le lezioni di Trasfigurazione improvvisamente proibita per gli studenti di tutti i corsi, le ragazzine dei primi anni che sobbalzavano al suo passaggio sussurrandosi percentuali di probabilità che fosse coinvolto nel caso Joshua Thomas, lui che reprimeva la voglia di far sì che non avessero bisogno di arrotondare per difetto per aver azzeccato la giusta percentuale di violenza repressa che gli circolava più delle proteine, Alexander Rosier che interveniva personalmente per evitare che scoppiassero vere e proprie risse, il suo alto rischio di perdere la carica di Prefetto a causa della terza e quarta delle risse che alla fin erano comunque scoppiate, Adam Zabini e i suoi attacchi epilettici notturni che l’avevano svegliato due volte nell’arco di tre ore solo nell’ultima notte, quindi le sue occhiaie e quell’interrogativo cruciale che lo tormentava fino ad infastidirgli l’involontaria attività respiratoria e pure quella cardiaca: mi uccido o uccido tutti?
Sembrava che fosse una peste, dunque non poteva che essere colpa dei Potter – o, era disposto ad accettarlo in alternativa, dei Weasley; Weasley e Potter insomma, perché comunque almeno uno di quest’ultimi era indubitabilmente il boss mafioso della situazione.
Boss mafioso. La similitudine sinaptizzata nella sua mente gli piacque fino a compiacerlo, tanto che – mentre vestiva l’uniforme Serpeverde di Quidditch – se la ripeté, utilizzandola come sinonimo valido a Potter. I Potter erano la peste e la mafia – e anche qualcos’altro di squallido e tangibilmente deleterio per le specie non ancora estinte, doveva solo trovare i termini o coniare i neologismi giusti e propri in cui sintetizzare il concetto.
Poggiò con attenzione la sua scopa accanto a quella di Malfoy e si sedette sul bordo del suo letto per allacciarsi con calma le scarpe, approfittando del fatto che Albus Severus Potter fosse ancora in bagno, probabilmente a sceneggiare davanti allo specchio il discorso d’incoraggiamento pre-partita meno ridicolo che gli riuscisse – ammesso che gliene riuscisse mezzo. D’altronde, si sgridò a bassa voce, il Potter Serpeverde era il prodotto meno nocivo mai congeniato da quella sciagurata progenie, i sospetti nei suoi confronti erano sospinti dal cruciale fatto che fosse un Potter, a giudicarlo inoffensivo invece era solamente la remota possibilità che potesse essere stato scambiato col neonato di un’altra famiglia al S. Mungo: Albus, per quanto lo riguardava, rimaneva un individuo autistico camuffato da essere umano con una complessa personalità.
Sciolse il nodo che aveva macchinosamente composto, quasi dando forma ai pensieri attraverso due lacci di lino e lo iniziò nuovamente, scuotendo il capo contro le ginocchia e digrignando i denti in un sorriso agro. Personalità complessa ‘sto cazzo.
Non riusciva proprio a tollerare l’idea di essere vissuto in contemporanea con l’essenza più banale che l’antropologia potesse comprendere: l’uomo del ventunesimo secolo. Cercava in un qualche modo di placare quell’arteriosa e venosa disposizione allo scempio di quelle convinzioni mediocri e fasulle che ogni homo sapiens-sapiens si ergeva attorno a colonna portante, facendogli notare quanto fosse asimmetrica con la profondità che vantava e quanto, in realtà, fosse solo dell’amor proprio scadente. Eppure una rivoluzione sociale o addirittura comunista non sarebbe bastata per convincerli della più cruciale verità che potevan vantare: no, loro non erano tanto importanti; no, la vita non era tanto scontata; no, il mondo non era tanto ovvio; ma le persone proprio non riuscivano ad accettare la più che logica, valida ed effettiva possibilità che loro potessero non valere assolutamente nulla, e non era una questione filosofica, era solo un’osservazione accorta, con tanto di deduzione ragionevole. Avrebbe dovuto tenere una conferenza, prima o poi, e rimproverare al mondo la sua totale banalità, nel negare la sua parziale banalità: non valete un cazzo!
Le persone sentivano il bisogno di rendere drammatico, commovente, forse elegiaco, ogni fatto che li riguardava o riguardava ciò che li riguardava, ma non era così: a volte il fatto prescindeva da qualunque spiegazione, la frase reggente da qualunque subordinata, il nome da qualunque attributo. A volte, dietro una persona morta – fatto – potevano esserci le più scientifiche constatazioni sulle modalità di decesso, il luogo, l’orario, i dati anagrafici del defunto – spiegazioni – ma una persona morta era una persona morta; e morta rimaneva. A volte, ad una frase semplice come, ad esempio, sei stato adottato potevano seguire tutte le proposizioni causali – perché i tuoi genitori sono morti, avversative – ma noi ti vogliamo bene lo stesso, coordinanti – e ti abbiamo accolto in casa nostra come un figlio, temporali – da quando avevi quattro anni soltanto, finale – per darti un futuro migliore, comparative – che altrimenti con difficoltà avresti avuto, concessiva – nonostante non sia stato facile, aggiuntiva – oltre che poco conveniente, modale – abbiamo fatto il possibile.
«Fanculo!» imprecò ancora chinato contro le sue scarpe, con le dita ingarbugliate tra i fili che incastrava e scioglieva di continuo.
Un abbandonato era un abbandonato; ed abbandonato rimaneva.
Dietro la timidezza poteva non esserci la scontata voragine di un animo tormentato, ma solo una persona che non aveva nulla da dire, nulla da dare al mondo. Dietro l’astuzia poteva non esserci l’immediata presa di posizione reazionaria dell’Io a danno degli altri, ma solo dell’effimera abitudine. Dietro il coraggio potevano non esserci valori abissali o idee portanti, ma solo una reazione involontaria ed istintiva. Dietro la conoscenza poteva non esserci dottrina o arte, poteva non esserci alcuna passione od intenzione, poteva non esserci nemmeno intelligenza, ma solamente consolazione ripetitiva.
Dietro un vaso rotto poteva esserci stato lo sfogo della rabbia o il gesto sbadato di un qualunque imbecille: il vaso rimaneva rotto. Dietro una porta chiusa poteva esserci qualcuno o assolutamente nessuno: la porta rimaneva chiusa. Ed ancora una volta e per sempre, i morti erano morti.
Spesso, la risposta era più ovvia della domanda stessa perciò si perdeva d’occhio. A volte dietro la cattiveria, la rabbia, la cupidigia, il pregiudizio, la violenza, l’ingiustizia, l’indifferenza non c’era nulla di profondo o radicato, nulla di spiegabile o sensato, nulla di valoroso o potenziale; spesso, dietro c’era solo stupidità – e la stupidità era solo un altro fatto da pesare sullo stesso piatto della bilancia.
La definizione spoglia dei fatti, delle persone gli aveva insegnato a stare solo e a gradire il più possibile i rapporti con gli altri, laddove fossero necessari e anche qualora divenissero piacevoli. L’eliminazione del dettaglio irrilevante o superfluo lo aiutava e spronava all’accettazione, in un qualche modo lo aiutava a vivere.
La porta del dormitorio si aprì e si chiuse, ma Derek stette fermamente inchinato sulle sue scarpe, con la voluta insistenza di dare le spalle a chiunque fosse entrato.
Allacciarsi le scarpe era il suo antistress per eccellenza. Cercava di creare il nodo più aggrovigliato, ingarbugliato e talvolta intricato che potesse, cercando di superare la complessità dei suoi pensieri. Aver tra le mani qualcosa di più disordinato della sua mente lo rinsaldava, lo aiutava a stabilizzarsi, a limitarsi al fatto e a ricordarsi che non c’era nulla dietro. Anche a costo di metterla su piano ironico, forse sarcastico; beffardo, amaro.
Ad esempio, i Potter erano un dettaglio per lui personalmente irrilevante – potenzialmente dannoso, ma questo marcava ancor di più la loro futilità in termini obiettivi; una volta eliminata la loro presenza, più della metà dei problemi politici, economici, sociali, ecologici, fisici, biologici, psicologici, chimici, astronomici e metafisici si sarebbero conseguentemente risolti. Peccato che tale eliminazione a scopo umanitario implicava la commissione di crimini e reati, nonché offendere la sua etica kantiana e passare il resto della sua vita ad Azkaban. Era colpa dei Potter pestiferi e mafiosi, e non c’era nulla dietro.
«Pronto per la partita?»
Scorpius Malfoy era tutto sommato un bravo ragazzo; lo era anche tutto sottratto, in realtà. Era un bravo ragazzo e non c’era nulla dietro: i lacci avviluppati glielo stavano mostrando che non c’era assolutamente nulla dietro. Per questo motivo gli rispose e si preoccupò anche di farlo gentilmente, ma prima che Albus Potter uscisse dal bagno si affrettò a sistemare i lacci delle scarpe con un colpo fermo di bacchetta ed a chiudere la conversazione con Malfoy. Sempre in termini di educazione, lo salutò e gli disse che si sarebbero rivisti poi in campo.
Uscì sbrigativamente dopo aver afferrato la sua scopa ed essersela caricata in spalla. Il corridoio era animato da passi sgattaiolati ed echi sfuggiti che gli facevano da sfondo e da sottofondo, mentre si guardava giudizioso le scarpe. Mise le mani in tasca, dove aveva un paio di nastri di seta, strappati dalla vestaglia di sua madre – dodici anni prima – e camminò rigirandoseli tra le dita, attillandoli tra un dito e l’altro, certo che poi, la notte, quando li avrebbe tirati fuori, sarebbero stati incastrati come un tranello, in cui far cadere tutti i pensieri in agguato che si erano insidiati nella sua mente, sotto la sua pelle, dietro i suoi occhi durante il giorno. Allora, solo allora avrebbe potuto dormire.
«È aperto.»
Aveva bussato, due colpi erano bastati a profanare il silenzio di pergamena e libri che c’era nei dormitori del settimo anno.
Alexander Rosier era vestito con la quotidiana divisa Serpeverde, abbinata ad un libro rilegato di ocra scolorito che, sdraiato ancora sul baldacchino, leggeva a pochi centimetri dal viso, tanto che glielo copriva interamente.
Derek entrò furtivamente nel dormitorio del ragazzo, ma più ad agio di come era uscito dal proprio. Rimase in piedi ad aspettare, come gli era di consuetudine, che Alexander finisse il paragrafo o il capitolo che stava leggendo.
Giravano voci tumefatte sui fratelli Rosier. Di loro di parlava solamente dopo aver esaurito tutte le possibili maldicenze sui Nott o sui Zabini, dopo aver indiscretamente riportato le dicerie più diffamanti sugli Harper ed i Rowle, successivamente ad un accenno illuminante sui Malfoy, perfino in seguito ad ogni diceria sui Carrow, gli Yaxley ed i Travers – o per lo meno, ciò che ne era rimasto. Per ultimi arrivano Alexander e Denise Rosier, qualche commento superficiale su di loro – le solite malignità radioattive al rispetto – sul loro modo di vestire, sulla loro reclusione dagli altri che immediatamente veniva collegata alla bancarotta della famiglia, Derek un giorno aveva addirittura sentito un la loro famiglia torturava ed assassinava, già che c’erano non potevano metter da parte qualche soldo per i nipoti? Guardali sembrano usciti da un mercato dell’usato rinascimentale! che gli fu tossico fino a fargli vomitare la colazione ed anche il pranzo e la cena che non aveva mangiato, fino a fargli saltare le lezioni pomeridiane e fargli passare l’intero pomeriggio ad allacciare e slacciare le scarpe ed a ripetersi che non c’era nulla dietro, se non stupidità – e il cerchio si chiudeva lì perché stupidità non aveva ragioni.
I genitori di Denise ed Alexander erano entrambi reclusi ad Azkaban, da dodici anni oramai. Un’indagine condotta dal Ministero aveva provato che – sì, più di dieci anni prima dell’accusa, durante la guerra – il signor Rosier aveva preso parte a crimini contro i Babbani ed i Natibabbani e che la moglie gli era stata complice. Gli Auror erano semplicemente entrati in casa Rosier e li avevano catturati, reclusi per gli interrogatori ed infine imprigionati; avevano confiscato loro proprietà e beni perché non assicurati, finiti direttamente nelle casse del Ministero degli Interni. Alexander aveva cinque anni, Denise tre.
«Vuoi scendere già?»
Continuava a nascondersi dietro il libro, ma Derek non pretese che si facesse vedere. Annuì, anche se sapeva che non poteva vederlo e lasciò che finisse di leggere con calma.
L’affidamento di Denise ed Alexander era passato ai Nott. E non fu un problema, all’inizio, anche perché non se lo pose nessuno. Furono ospitati nella loro dimora per qualche mese, prima che questioni di affidamento prioritarie e la gravidanza della signora Nott di Amelia non fecero sì che i coniugi si ponessero il problema, ma per risolverlo. Decisero di mantenere i due Rosier a distanza per concentrarsi sulla loro famiglia. Derek lo seppe ad un’età esasperatamente precoce, ma quando lo capì era già maturato a sufficienza per prender coscienza di ciò che accadeva perciò non ebbe modo di chiedere cosa ci fosse dietro; non ebbe modo di chiederselo, ma solamente d’imporselo. Semplicemente sostituì al punto interrogativo un punto fermo che gli facesse lo sgambetto ogniqualvolta fosse tentato di andare oltre; il punto, lo sgambetto serviva a farlo inciampare, a far sì che notasse che le sue scarpe non erano allacciate e che c’era un altro nodo da fare per dimostrare che non c’era nulla dietro, un altro nodo ingarbugliato di prime ed ultime coscienze abbastanza complesso da sublimarci la parte della verità che non serviva alla storia. Perché non c’era nulla dietro, nessuno dietro: nulla l’aveva fatto inciampare, nessuno gli aveva fatto lo sgambetto, in realtà; erano solo le scarpe slacciate.
Quando i Zabini e gli Harper erano venuti a sapere che Alexander e Denise vivevano in uno squallido appartamento di Edimburgo, con una balia a crescerli, sono intervenuti personalmente.
Decisero immediatamente di assumersi la tutela – e ci vollero anni prima che il Wizengamot gliela concedesse – e di dividersi le spese ed i termini d’adozione. Erano più di tredici anni che Alexander e Denise Rosier si trasferivano continuamente dalla dimora Harper a quella Zabini, e viceversa. Senza dimora alcuna.
«Devo assicurarmi che Amelia stia migliorando.»
Alexander scostò il libro, col gesto arreso di chi decide di togliere l’ombrello anche se non ha mai smesso di piovere.
Derek gli fece un cenno e tirò fuori l’ultima delle ultime lettere ricevute, buttandola sul letto, vicino alle sue ginocchia. L’altro immediatamente l’afferrò, la aprì e la lesse.
«Ho la nausea.» disse, mettendosi seduto e porgendogliela nuovamente. «Perciò direi che salterò la colazione e verrò con te.»
Qualche anno prima aveva origliato una conversazione tra la signora Zabini e la signora Malfoy. Aveva sentito la prima lamentarsi preoccupata sui Rosier e confidare alla seconda che non avrebbe voluto che facessero continuamente avanti ed indietro tra casa loro e quella degli Haper; disse che aveva proposto di trovare una soluzione affinché non dovessero trasferirsi continuamente, che aveva proposto ai due, allora poco più che bambini, di vivere ognuno da una famiglia, senza doversi più spostare. Naturalmente, Denise ed Alexander rifiutarono di separarsi e la signora Zabini ne fu tanto mortificata quanto commossa, ma Derek se ne andò prima che potesse udire altro, prima che le due donne potessero avanzare propositi o spiegazioni sul perché della loro scelta.
Derek sapeva perché, lo capiva e lo viveva: perché non si fidavano. Alexander e Denise non si fidavano di nessuno, e qualunque cosa ci fosse dietro non sarebbe mai importata abbastanza.
Era stato Alexander a crescere la sorella e, successivamente, era stata lei a prendersi cura di lui, ma erano stati e rimanevano soli in un modo che faceva male alla vista perché non era il quanto fossero soli, ma il come lo fossero. Derek ci aveva pensato molte volte allacciandosi le scarpe e sciogliendole in fretta quando non riusciva a fare un nodo altrettanto imbrogliato che gli permettesse di fermarsi al solo fatto e non divagarsi a cercare ciò che c’era dietro.
Non aveva ancora creato un nodo più intricato di quello che i suoi pensieri gli suggerivano a riguardo e per convincersi che non ci fosse assolutamente nulla dietro aveva dovuto ingarbugliare tutti i fili di tutte le scarpe che aveva. Si era seduto dopo aver disposto tutti i lacci annodati davanti a lui e li aveva guardati, come soleva sedersi e guardare di nascosto Denise ed Alexander ancorati l’uno all’altra dalla fiducia che non avevano per gli altri. Aveva guardato i fili con le mani tra i capelli e si era autoimposto ignoranza. Il fatto, guarda il fatto e fermati lì, per favore. Aveva ordinato alla sua intelligenza. Lo vedi? Non c’è nulla dietro, c’è solo il fatto e tu non c’entri niente. Ripeti con me “non c’è niente dietro”, ripetilo! “Non c’è niente dietro!” quello che vedi è solo il nulla che si trascina dietro la solitudine. Il vaso è rotto, la porta è chiusa ed i morti sono morti.
 
«Non c’è nulla dietro.»
Alexander si voltò a guardarlo. «Cosa?»
«Niente.»
Esattamente, niente. Finché va bene.
 
 

 

 

 
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«Volevo sposarla, sai?»
James era uscito poco dopo, nonostante fossero le quattro del mattino; non aveva detto dove sarebbe andato, non aveva detto nulla – era solo uscito. Sempre di spalle.
Fred anche era uscito, ma più lealmente; almeno aveva atteso che il sole sorgesse. Gli aveva detto che sarebbe sceso a far colazione e che l’avrebbe aspettato lì. Forse a dimostrargli ancora che lui c’era; sapeva, capiva, soffriva.
Frank e Liam si erano svegliati presto anche loro. Il primo era uscito non appena aveva capito che non era aria, che non c’era abbastanza aria per tutti nella stanza ed il secondo era rimasto a contendersi la stessa poca aria con lui.
«Era tutto perfetto. Il diploma, il matrimonio, il trasferimento, le selezioni di Quidditch in Ungheria del prossimo anno, la sua specialistica in Architettura, una bella casa al confine con la Turchia, un figlio o una figlia, una seconda casa in Grecia, magari un altro figlio. Era tutto perfetto.»
I corti capelli castano chiaro rabbuiati dal sole che sorgeva in seno alla notte e vi rimaneva nascosto a spiare di luce il buio. Sedeva sopra il suo baule, con addosso la divisa stirata nelle parti sbagliate come un vagabondo che errava, ma in terre conosciute; la postura scorretta e storta di chi sapeva reggersi in piedi solo zoppicando con stampelle sproporzionate perché imprestategli da qualcun altro.
Louis non disse nulla perché aveva già visto quel momento, anni prima ed ora doveva solo farci i conti.
«Avrei dovuto saperlo che sarebbe finita così.» sorrise. «Anche solo da quanto ne parlava, da comecome ne parlava presa, entusiasta… Non ci credeva davvero.»
Si sedette vicino a lui nonostante il sipario fosse abbassato e le luci fossero puntate dietro le quinte; nonostante quel momento non fosse destinato ad essere condiviso, Liam non fosse destinato ad essere compreso e la sua sofferenza non fosse destinata alla gloria.
«Non so se era il suo modo di accontentarmi o di accontentarsi.»
Louis lo sapeva, ma non lo disse per pietà e perché anche i microfoni del palco erano spenti.
Ad ogni parola che Liam scontava, l’aria si consumava per brinamento e cadeva a grandini per coprire l’eco della sua voce.
«L’ho amata davvero. Prima che fosse necessario, prima che fosse scontato.» annuì, ma non lo guardò; non c’erano spettatori da impressionare. «Prima di diventare quello che sta con la Weasley malata.»
Louis mise una mano sopra quella Liam, ancora una volta per pietà. Avesse dovuto far parte della scena ed assisterla allo stesso tempo a tende chiuse, avesse dovuto esserne personaggio e spettatore, ad occhi chiusi prima ed aperti dopo, lui solo: gli avrebbe trovato un pubblico.
«Credo sia giusto così. Farmela mancare, dico.»
La mano sudaticcia di Liam sotto la sua s’irrigidì e tremolò piano, ma contenuta perché arresa – proprio come zoppicava lui sullo stesso posto – perché non c’era un pubblico da commuovere e chieder tregua attraverso la pietà era stato il modo più gentile in cui avrebbe mai potuto ammetterlo.
Louis sentì il suo affanno arrancare per conficcare ed inchiodare parole e pause all’aria che non reggeva il peso di entrambi, non permetteva loro di riuscire a dire quello che c’era davvero da dire: come era successo a lui nel sogno – e tu lo sai, Louis, lo sai.
L’aria non resisteva alle lacrime d’entrambi, l’aria non garantiva per i sospiri d’entrambi, l’aria non supportava le vite d’entrambi. In pianto, in pena, in morte.
Ma l’aria stava fallendo ai loro piedi, stava condensando in terra – terra viva e rugiadosa d’acqua com’era solo la terra dei cimiteri – e gli stava mostrando che uno tra loro due non ne sarebbe uscito – in pianto, in pena, in morte – e non solo da quella stanza o da quel palco spoglio d’aria e gloria.
«Forse tutto quello che posso è farmela mancare e andare prima che se ne vada lei.» chinò il capo da un lato. «Non voglio rimanere dietro di lei.»
Louis non pianse perché non si era visto farlo quando all’età di tredici anni aveva visto quella scena; in un qualche modo, non faceva parte del copione – o perlomeno, non di quella scena del copione. Proprio come era successo, quella stessa notte, appena si era svegliato dal sogno: aveva sanguinato lacrime a battiti pur di non mostrarle sul viso. Di ciò che stava accadendo aveva pianto già ed avrebbe pianto poi, ora poteva solo lasciare che accadessero – e tu lo sai, Louis, lo sai.
«L’ho lasciata. Ieri. Le ho detto che la amo, poi l’ho lasciata. Forse mi aveva già lasciato lei ed io l’ho solo detto. Non importa. Non dopo che ha rifiutato l’intervento senza dirmi nulla, non dopo che ha permesso che l’amassi più di quanto lei amasse noi. Non importa più, non ora che se ne sta andando.» aveva parlato in fretta, stimolato dal conto alla rovescia dell’aria, che gli franava addosso e lo seppelliva prematuramente di morte d’altri. «Non rimarrò dietro di lei.»
«No.» lo consolò, infine, perché sapeva che Liam era l’unico segreto che Molly si sarebbe portata dietro nella tomba, ma che lui non avrebbe conservato negli incubi perché l’aria mancava per gli spettatori e mancava la gloria per la quale fingere che ce ne fossero. E non c’entrava nulla il sogno in cui seguiva Liam nei bagni di una stazione ferroviaria ungherese per vederlo morire di overdose, all’età di ventitré anni.
Quando gli chiese di uscire e lasciarlo solo, Louis lo fece immediatamente, in nome della pietà per i vivi, il rispetto per i morti, lo scadere dell’aria, l’epilogo tronco della scena nel copione ed il silenzio funebre della notte. Finché va bene.
 
 
 
 
 
 
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«Non trovo nulla da mettere!»
Le lamentele di Roxanne uscivano cotonate dagli strati di vestiti in cui si era spontaneamente sepolta.
Damian si fermò nel gesto di chiudere le cinghie dei parastinchi della divisa di Quidditch, solamente per voltarsi ed allargare le braccia. «Quello è il mio armadio!» portò sconsolato una mano, con tanto di parastinchi destro, ad indicarla seduta a gambe incrociate tra tutti i vestiti – una volta ordinati, ora scomposti come solo un Grifondoro avrebbe potuto renderli – nel tentativo di mostrarle tutto ciò che lui ci vedeva e ne risultava di sconsolato. «Certo che non trovi nulla di mettere, quello è il mio armadio!»
«Sì, anche il letto è tuo, se è per questo.» Gli lanciò contro una camicia blu in ricami bianchi, tre paia di calzini e fece per lanciargli anche qualcos’altro prima che lui la minacciasse di fare lo stesso col parastinchi che aveva ancora in mano. «E non è colpa mia se hai fatto Evanescere la mia divisa!»
Scoprì che l’ultimo degli indumenti che aveva voluto lanciargli contro era una canottiera bianca, semplicemente perché comunque gliela lanciò.
Il ragazzo scostò la canottiera dal viso e gliela rilanciò a sua volta. «Sì, tre giorni fa! E non ti sei mai posta il problema. Cos’è, voi negri non siete ancora arrivati al periodo d’evoluzione in cui l’uomo bianco ha strutturato il tempo o semplicemente vi è troppo complicato assimilarlo?»
Roxanne si alzò in piedi, facendo cadere le giacche a vento e qualche altra camicia, ed uscì dalla massa di vestiti. «Il mondo è ancora bloccato nel tartaro della libertà di parola, concessa senza restrizioni, nemmeno nei confronti dei bianchi idioti.» gli puntò il dito contro, con tanto di smorfia, affinché non avesse libertà d’interpretazione.
«Bianco idiota è una contraddizione in termini, quanto Guerra Santa.» non mise via il parastinchi perché era chiaro che ormai lo ritenesse parte integrante del confronto verbale, nel caso avesse dovuto all’improvviso non essere più esclusivamente verbale.
Roxanne trattenne scenicamente il fiato, indignata tanto da lasciar perdere i pantaloni del ragazzo che cercava di accorciarsi addosso con la bacchetta. «Ma se eravate voi bianchi a fare le guerre e spacciarle per sante?»
Lui aprì bocca per risponderle solo dopo aver ostentato un’espressione che mostrasse quanto poco lo mettesse a disagio ciò con cui la ragazza aveva obiettato, ma la comodità che si concesse prima di rispondere fece sì che non riuscisse a concludere prima che bussassero alla porta.
Roxanne alzò le sopracciglia con ammirazione. «C’è ancora gente al mondo che bussa prima di entrare?»
Le fece segno di tacere e le intimò un «mettiti qualcosa addosso, dannazione!», prima di avvicinarsi alla porta e chiedere chi fosse.
Facendogli il verso con enfasi assolutamente spropositata rispetto all’irritazione con cui lui aveva parlato, s’infilò il pantalone del pigiama che Adam aveva lasciato sul suo letto – dopo averlo rifatto secondo un principio che aveva a che fare con l’abnegazione e gli Elfi Domestici – sopra una maglietta che aveva raccattato nell’armadio di Harper, con impresso il volto di un uomo dai capelli verdi ed un inquietante sorriso folle.
Entrarono due ragazzi verso i quali Roxanne evitò di allungare lo sguardo più di quanto l’avesse spronata la curiosità per l’incognito perché la stava prendendo una viscerale voglia di entrare nuovamente nell’armadio, chiudersi le ante e rischiare di morire soffocata all’interno.
Erano la personificazione di tutto ciò che era concepibilmente Serpeverde, persino nell’ombra che proiettavano e l’altezza da cui la proiettavano. Erano entrati senza aprir bocca, con alcun movimento a coordinarli perché incastrati di presenza e d’espressione. Incastrati anche d’altro, ma lei non poteva saperlo.
Si era seduta sul letto di Zabini perché era il più lontano dalla porta, prendendo in mano il libro rilegato in rosso che Adam si portava dietro ovunque andasse, come lei avrebbe fatto solo col denaro ed un amuleto repellente per la sfortuna. Lo sfogliò adagio, quasi pagina per pagina, ma la pergamena era spoglia di segni: era chiaro che il ragazzo ci aveva gettato un incantesimo di protezione perché nonostante il bianco consunto, odorava di vissuto e inconfessato. Se lo rigirò tra le mani, come se lo avesse già visto fare, nell’oblio di ricordi involontari. Non c’erano altre scritte, ma c’era un’incisione mal tracciata, come se fosse stata riportata con le unghie. Roxanne ruotò il libro e ne sillabò i graffi in parole.
 
Segue e insegue anche se in realtà è fermo. Che cos’è?
 
Perché fosse circondata da persone che cercavano di complicarsi la vita, più di quanto non lo fosse già da sé, non lo avrebbe mai compreso. Quando Adam sarebbe uscito dal bagno turco al quale si stava concedendo da ormai un’ora, gli avrebbe fatto tutt’un discorso netto, ma tondo sul masochismo.
«… sai che lei non dovrebbe essere qui.»
Si voltò verso i tre Serpeverde, sentendosi chiamata in questione.
«Oh Derek, per favore.» fu riconoscente allo sbuffo annoiato di Damian e non si risparmiò di annuire alle sue parole, anche se il ragazzo dai capelli neri con la divisa da Quidditch che stava parlando non aveva alzato lo sguardo su di lei nemmeno una volta da quando era entrato.
«Stai infrangendo almeno cinque decreti, di cui tre da soli basterebbero per farti espellere. Che diamine pensi, di essere in luna di miele?»
Roxanne digrignò i denti, socchiudendo gli occhi e buttando di lato il libro di Adam per incrociare le braccia sotto al seno: che importasse un minimo anche il suo rischio di espulsione?
Fu grata alla loquela immediata e deviatrice innata in Harper per una volta nella vita. Incrociò le gambe sul letto, strisciando i piedi nudi sulla morbidezza della trapunta verde, disfacendo il letto per infilarli tra la seta del lenzuolo argentato.
«…abbia fatto a fargli smettere di cantare quando fa il bagno, ma io e Denise ti saremo grati…»
Stava cercando di trattenersi dallo sdraiarsi perché sapeva che gli amici di Harper certo non avrebbero apprezzato il suo buon costume – e fin qui fu solo un motivo in più per cui sdraiarsi bellamente, dato che non la stavano apprezzando a priori – e perché sapeva che poi il ragazzo avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma quando volle trovare una posizione di compromesso il piede sinistro le scivolò in un liquido denso e liquefatto.
«Non ha mai smesso…»
Si levò a sedere composta all’improvviso, come punta sotto le scapole, spostò la trapunta e spogliò l’argento del lenzuolo sporcato di un violaceo diluito non del tutto assorbito a causa della poca permeabilità della seta. Si alzò immediatamente in piedi, macchiando il pavimento col quel fluido che le aveva sporcato il piede e le dita della mano.
Non era stata l’unica a spostarsi velocemente e ad allarmarsi all’improvviso. Harper ed i due Serpeverde le passarono affianco di corsa quasi travolgendola.
«Adam!»
«Adam, apri la porta!»
« … prendi la bacchetta!»
Derek Nott tirò fuori la bacchetta immediatamente dalle tasca interne della divisa ed in un istante, risoluto e fermo, fece saltare i cardini che fissavano la porta, incurante del danno che avrebbe poi riportato. Una volta rotti i perni inchiodati fu più facile rompere il lucchetto ed allora bastò un pugno per buttar giù l’intera porta.
Damian lo precedette entrando per primo nella polvere e nel vapore dato dall’acqua calda che scorreva da ore, ormai. Prima di raggiungerlo lo sentì chiudere i rubinetti.
«Dov’è?» Alexander alle sue spalle aveva la bacchetta in mano e almeno cinque incantesimi di difesa sulla punta della lingua.
Il vapore era esageratamente denso, non riuscivano a distinguersi tra loro in tre: Derek fu pratico ancora una volta a cercare d’eliminare quanto vapore riuscisse, subito aiutato da Alexander.
«Ehi, quello cos’è?» Damian indietreggiò su di loro. «Quello che accidenti è?»
Un mantello nero, squarciato in più punti, che si dimenava davanti a loro. Un mantello che pendeva da più di due metri d’altezza e, man a mano che il vapore diminuiva, il nero era sempre più nitido, insistente. Pensarono di immobilizzare la figura, forse di schiantarla, ma fu Roxanne ad agire. Li superò e si lanciò sulla figura, iniziando a strappare gli stracci neri ed allora fu istantaneo, quanto perturbante.
Alexander la seguì velocemente, Damian la allontanò prima di unirsi, seguito a ruota da Derek che la spinse col solo sguardo, senza posarlo su di lei però. Roxanne indietreggiò fino ad inciampare sulla porta rotta e abbandonata sulla soglia del bagno, con gli stracci neri ed umidi strappati ancora incastrati tra i suoi pugni. Vide il ragazzo biondo riuscire a trovare un solco di spacco strategico nel tessuto del mantello e lacerarlo a mani nude, aiutato da Harper, mentre il terzo cercava di tenere ferma il più possibile la figura.
Caddero piume.
Precipitarono dallo squarcio sul mantello, prima sulla vasca da bagno e addosso ai tre ragazzi, successivamente arrivarono fino a lei; tantissime, grandi, sporche di bianco e bagnate, quindi prive della presupposta morbidezza. Non se ne accorse, ma aveva urlato.
Adam Zabini era in piedi, fermo al centro dello sfogo di tutto ciò che lo aveva soffocato. Non tremava dal freddo in modo innaturale.
Il ragazzo dai capelli neri, che continuava a voltarle strategicamente le spalle, lo scosse e lo chiamò per nome, ad alta voce. Harper fu il primo a toccarlo, sulla spalla nuda e poi sull’avambraccio. Si avvicinò anche lei, senza vergogna e prima che il biondo lo coprisse con un panno pulito.
«Era una maledizione, quella? Come hai fatto ad evocarla, Adam?»
Le piume bagnate sparse a grumoli per terra, attorno al lungo mantello nero le causarono una nausea stordente, un fastidio distraente, perciò non capì chi dei tre gli avesse posto la domanda e si limitò solo a rispondere, senza deglutire.
«Non è stato lui, la sua bacchetta è sul comodino.»
A quella ravvicinata, seppur prudente, distanza riuscì a riconoscere Nott nel ragazzo dai capelli neri non appena lui ebbe uno scatto, l’impulso immediatamente frenato che altrimenti lo avrebbe portato a volarsi per guardala e chiederle di più.
«Adam come hai fatto tutto questo?»
«Non è stato lui.» ripeté ancora incerta a chi si stesse rivolgendo. «La sua bacchetta è di là.»
Nott uscì dal bagno a passo pesante ed interrogativo, probabilmente voleva verificare personalmente che fosse vero e lei lo seguì.
«Credi che stia mentendo?»
Il suo modo di non rispondere fu di una spontaneità talmente vissuta che Roxanne non ebbe il dubbio, ma la certezza illogica che lui non l’avesse sentita – o, addirittura, che lei non avesse proprio parlato.
Nott prese in mano la bacchetta di Adam e rievocò con un sortilegio non verbale tutti gli ultimi incantesimi di cui era stata capace, ma parve non averne tratto alcunché di considerevole perciò la rimise immediatamente al suo posto – esattamente nella posizione incompiuta ed obliqua in cui era prima che la toccasse. Mirò allora al baule, chiuso ai piedi del letto e fu allora che notò le macchie sul pavimento, scese a gattoni di Roxanne dal letto.
Ma non si avvicinò per vedere meglio, continuando ugualmente ad osservare la sostanza in piedi e dall’alto. Non seppe né come appurarlo né come ritrattarlo, ma nella sua precisa volontà di non inginocchiarsi, Roxanne lesse una dichiarazione di poetica.
«Alexander.»
Pronunciò il nome con spontaneità tanto piana che lei, ancora dietro di lui, ci mise un po’ a capire che stava chiamando qualcuno e non stava parlando con lei; smaltì l’ambiguità solamente quando dal bagno uscì il ragazzo biondo – le maniche ripiegate, ma sotto i gomiti ed i vestiti bagnati a macchie indefinite – e guardò direttamente Nott, come se lei fosse coperta con un mantello dell’invisibilità.
Si valicarono un paio di sguardi dai quali lei era, ed era giusto che lo rimanesse, esclusa.
«Che c’è, che succede?»
Damian entro nella stanza con l’amico contro costola, ancora avvolto dallo stesso panno, ma poco più asciutto. Andargli incontro fu istintivo, fermarsi al fianco di Adam invece che al suo fu prudente.
Alexander Rosier guardò prima Nott, poi la soluzione liquida violacea, prima di azzardare gli occhi verso il cipiglio affannato di Harper. «Non siamo sicuri.» saldò lo sguardo e continuò. «Sembrano inchiostro ed acqua ossigenata.»
«E qual è il problema?» non stava rinfacciando alcunché, la sua voce era angoscia melodica; la sua era una domanda sincera.
Nott non si mosse, rimase fermo a sovrastare l’immagine irrisoluto, come se stesse scalando un monte la cui vista già s’intravedeva. «Ci sono boccette d’inchiostro vuote sul comodino.» disse, senza sprecarsi in espressioni più o meno significativamente suggestive. «Ma l’acqua ossigenata è concentrata, l’odore è troppo forte e non è incolore quanto dovrebbe.»
«In tutto il castello si trova solo nelle dispense di Pozioni ed in infermeria.» aggiunse Alexander.
Harper s’allontanò improvvisamente, facendo sì che il peso di Zabini ricadesse altrettanto improvvisamente sulla Weasley. Ebbe il buon senso d’avvicinarsi alla sostanza, ma senza chinarsi, e di annusare il miscuglio liquido, solo per ritrarsi immediatamente.
Roxanne non disse nulla e non si lamentò del peso del ragazzo che storceva il suo; aveva imparato velocemente a riconoscere lo sguardo illuminato di Harper quando indagava – o credeva d’indagare – su un fenomeno qualsiasi; semplicemente s’adeguò all’equilibrio di ruoli, non appena notò la serietà cucita di travaglio in pelle, che ora vestivano tutti e tre i ragazzi.
Fece scivolare in una carezza la sua sinistra attorno alla vita di Adam e, prima di arrivare a tenergli la mano, gli accarezzò i capelli, seppure il ragazzo tenesse il capo troppo basso perché potesse riconoscere l’effetto del suo calore su di lui.
Un cenno immobile, come un sintomo cieco e sordo deviò la colonna portante della figura di Nott e lo indusse al cedimento. Allora, capì anche lei, suturandosi il travaglio ogni dove il suo corpo non fosse coperto dai vestiti.
Fu Damian a togliere la trapunta e Roxanne notò che lo fece con la stessa foga intrepida di quando si alzava fulmineo la mattina presto, quasi brusco, come se si fosse svegliato nel cuore della notte solo per incoraggiarsi a farlo. Ricordava di averlo apostrofato nel peggiore dei modi, due mattine prima, quando con lo stesso gesto aveva scoperto anche lei – perché sonno, freddo e vergogna erano un’alleanza infida.
Riuscì a conferire un minimo di significato al suo gesto, e alla reminescenza che ne era scaturita, solo quando Rosier si spostò e poté distintamente leggere gli scarabocchi d’inchiostro sul lenzuolo che chiedevano pace in lettere e punti interrogativi.
 
Segue e insegue, anche se in realtà è fermo. Che cos’è?
 
La frase era scritta almeno tre centinaia di volte, in una calligrafia miope, come una maligna punizione assegnatali per il suo bene. Riuscì a leggerla da lontano solamente perché la sua mente già l’aveva vista e si era appigliata all’amo del punto di domanda, come se la penitenza includesse anche lei – come se fosse un castigo cui erano soggette tutte le persone che leggevano l’enigma, ma non sapevano controproporgli una soluzione.
«Adam» Harper parlò con un dolore la cui fitta arrivò anche a lei. «cosa diavolo è tutto questo?»
Nott raccolse da terra il cuscino e quando lo rigirò, trovò lo stesso inchiostro criptato in un maiuscolo punto interrogativo; se lo rigirò in mano e lo rimise sul letto con una delicatezza adempiente solo al rispetto. Dunque, fece qualche passo indietro e si guardò le scarpe con le mani in tasca.
«Segue e insegue, anche se in realtà è fermo.» Adam li guardò, senza posare gli occhi su di loro, ma solamente alzando il capo: il suo pallore li guardò. «Ditemelo voi, che cos’è
 
 
 


 
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Denise Rosier guardava a braccia conserte i comodini dei letti delle due pesti rosse.
Hugo Weasley e Lily Potter erano stati dimessi due giorni prima e figurarsi se si erano degnati di svuotare il loro capezzale da tutti i dolciumi che avevano ricevuto durante il ricovero. Nelle saltuarie ore in cui era passata per l’infermeria, aveva avuto l’occasione d’incontrare almeno una ventina di parenti che, in un qualche modo assolutamente misterioso alla statistica, riuscivano rigorosamente a sbagliare l’orario delle visite. E figurarsi se Madama Chips li aveva rimproverati o anche solo ammoniti. Forse Derek aveva ragione, dopotutto. Senza il forse, ma con il dopotutto.
Ora, Denise non aveva alcunché contro i Potter o i Weasley, ma per esperienza empirica non poteva negare o ritrattare la comodità sfacciata con la quale vedevano la vita, annessi tutti i dopotutto ed esclusi tutti i forse del caso. Come, ad esempio, il fatto che in quel momento Lily Luna Potter fosse sfrontatamente entrata in infermeria, si fosse seduta nel letto di fronte alla sua poltrona e avesse preso a fissarla.
Aveva sorvolato sulla sua presenza con una disinvoltura leggera e profondamente sincera. Perché il principale motivo per cui non aveva nulla contro quella famiglia era perché francamente non le importava nulla di ciò che li riguardava – non erano finali alla sua sopravvivenza o al suo benessere, nemmeno strategici o ispiratori perché, davvero, non erano così importanti e non lo pensava con cattiveria o rancore, semplicemente, per quanto la riguardava, erano persone con un accesso alla felicità più immediato in confronto agli altri; il motivo secondario era ancor più nobile da parte sua: Denise stimava i dopotutto perché era certa che al posto di una qualunque erede Weasley o al posto della Potter stessa, avrebbe fatto inno del suo sangue con la stessa sfrontatezza molesta ed autocelebrativa che veniva loro tanto naturale. Insomma, sì, Derek aveva ragione, ma la ragione era solo una consolazione e, in termini funzionali, una distrazione.
Alexander aveva un’opinione più audace a riguardo, invece. Ne avevano parlato una sera estiva, a casa Zabini, nella stanza degli ospiti che dividevano le prime due settimane di luglio e le ultime due di agosto, quando tornavano da villa Harper. Derek era passato a trovarli, senza avvertire della sua presenza prima o giustificarla dopo il suo improvviso arrivo. Lui e suo fratello ne avevano parlato seduti sul davanzale della finestra, guardando la sera calda ma ventosa dall’interno di una prigionia ereditaria; in realtà avevano cominciando discutendo d’altro: formalità convenzionali, formalità confidenziali, approfondimenti di specifiche formalità sfociati in spiegazioni o giustificazioni, la presa in considerazione di una di queste in particolare e, com’era prevedibile data la presenza fisica e verbale di Nott, l’inevitabile colpa dei Potter. Anche Alexander aveva convenuto che Derek aveva ragione, con un po’ più di discretezza, propria di chi non si fida per reazione volontaria, la stessa di uno starnuto e la presa di posizione volta ai fini del dibattito confidenziale, ma che lo aveva tradito, snudando il suo fallace disinteressamento a quella famiglia. Qualcuno deve accontentarsi dei ruoli secondari. Non possiamo essere tutti protagonisti. Aveva detto scrollando le spalle, come se fosse giunto ad una tale consapevolezza solo dopo essersi arreso; ma ad una consapevolezza tanto intima e molesta si giungeva solo dopo essersi arresi milioni di volte. Qualcuno si sacrificherà nel ruolo dell’antagonista; qualcun altro reciterà la parte del mendicante all’angolo della strada e sarà solo una comparsa. Non possiamo essere tutti eroi.
Denise aveva dodici anni. Era sdraiata sul tappeto centrale della stanza e cercava una posizione dalla quale potesse giungerle la brezza serale, ostacolata dai due giovani sul davanzale della finestra, all’epoca ragazzini, che si sprecavano a cercare di capire la vita degli altri, a danno della propria.
 
«Ne vuoi una?»
La Potter stava protendendo verso di lei una gelatina rosa e una richiesta di conversazione che rifiutò con la premura di un gesto di diniego e una parola di ringraziamento.
«Mmh.» commentò l’altra, scegliendo dal pacchetto un’altra gelatina. «Questa va bene?» gliene porse una verde.
Denise si voltò verso la dormiente Amelia Nott, prima di respingere nuovamente la sua offerta. Così, Lily Potter decise che porgerle l’intero pacchetto raccattato dal comodino del letto che aveva occupato Hugo durante il suo ricovero fosse un’azione molto più risolutiva. Denise non si sentì a disagio perché nel suo fare, non c’era nulla d’intenzionale: a lei non piacevano le gelatine sul serio.
«Stamattina mi sono svegliata tardi.» incominciò Lily, quando capì che la Rosier non l’avrebbe sollecitata a farlo. «Il che non succede mai quando ho una partita.» specificò immediatamente, con fare impulsivo. «In dormitorio non ho trovato nessuno, così sono rimasta sdraiata a pensare e ho deciso che saremmo diventate amiche.»
Denise batté le palpebre un paio di volte percependo lo stesso sapore delle gelatine che non mangiava mai in quelle parole.
«Perciò mi sono detta che era il caso di avvertirti, insomma è giusto che lo sappia anche tu.» le concesse, buttando le gelatine su un lettino senza badare quale. «Naturalmente l’ho detto a Hugo e lui ha suggerito di approcciare regalandoti le Orecchie Oblunghe di edizione limitata, sai è un segno di fiducia… non so, non mi convinceva. Ho pensato che le gelatine fossero un’idea migliore per battezzare la nostra lunga amicizia.»
«Ehm… frequentiamo gli stessi corsi da cinque anni e non ci hai mai rivolto la parola.» nessun rancore, solo verità meno improvvisata di quella della ragazza. «Ora tutt'un tratto vuoi diventare nostra amica?»
«No.» Lily scosse il capo. «Solo tua.» guardò oltre le sue spalle Amelia sdraiata sotto le lenzuola slavate di biancore. «Senza offesa, non ho nulla contro di te!» le urlò congiungendo le mani ad imbuto. Guardò, dunque, Denise con lo stesso fare confidenziale di poco prima e sussurrò: «Civetta con Hugo.» come se una tale constatazione fosse la parafrasi del suo dire e fare dialogico.
Denise si volse verso la Nott ancora addormentata e fu la seconda avveduta omissione di risposta da parte sua.
«Lo so.» sbuffò l’altra. «Preferisci le Orecchie Oblunghe.» roteò gli occhi ed incrociò le braccia contrariata. «Volevo portarne un paio in più con me, ma ora che hanno chiuso tutti i sottopassaggi non so come procurarmele e Hugo si è messo in testa che deve convincere Molly a fare quell’intervento ed è andato via in fretta, James non si stacca dalla Mappa, Fred fa da balia a Louis tutto il tempo, Roxanne convive con un Serpeverde, Dominique è fuori dai cancelli ad aspettare Céline, Lucy preferisce parlare con la sua ombra che con me e Rose è presa dalle sue cerimonie illegali di beneficenza.»
«Veramente io non ho idea di cosa siano.»
Lily Potter la guardò scandalizzata. «Tiri Vispi Weasley, piano terra, primo reparto, quarto e quinto scaffale. Come fai a non averle viste?»
Perché non c’era mai stata.
«Oh, non importa!» le disse con indulgenza, frugandosi tra le tasche. «Ho le mie, te le faccio vedere.» estrasse dei lunghi fili a tre estremità e le offrì quelle più sottili. «Chi vuoi origliare?»
«Nessuno.»
«Perfetto, allora iniziamo con qualcosa di accomodante.» annuì, arricciando le labbra. «Ti farai gli affari di Madama Chips, ma è per una buona causa.»
Denise osservò le sommità dei fili che le aveva dato, di un colore ocra chiaro e tenue, quasi lo stesso del biondo grano dei suoi capelli.
«Devi metterli nelle orecchie.» la informò, mentre faceva aderire il terzo cavo alla parete che divideva lo studio dell’infermiera.
 
«… schedato in tempo…»
 
Denise sobbalzò ed allontanò dall’orecchio le prolunghe. «Sta avendo un colloquio, Potter.»
«Chiamami pure Lily, cara.» fece l’altra rimettendole gli auricolari.
 
«… che al reparto Inguaribili non è mai stato segnalato nulla.»
«Certo che no, i protocolli delle visite vengono archiviati tre giorni dopo. Io passo al S. Mungo solo ciò che è urgente.»
«Se permette, Madama, il ragazzino aveva il diabete, era necessario che fosse continuamente monitorato.»
«E lo era, Auror Watson, due volte a settimana! Non c’è stata alcuna anomalia, tranne l’unica che ho comunicato al reparto la mattina stessa!»
«Io non sono una Guaritore, Madama. Ho bisogno di sapere da lei cosa è successo, mi servono i dettagli e le circostanze, non i sintomi.»
«Nessun sintomo, Auror Watson, niente dettagli o circostanze. Semplicemente il ragazzino si è presentato dicendo che non si sentiva bene. Quando ho effettuato un controllo, ho visto che aveva perso molto sangue, tutto qui. Come potrà capire lei stesso, anche se non è un Guaritore, la perdita di sangue non ha nulla a che fare col diabete.»
«Io qui leggo… Primo novembre, Joshua Thomas, perdita sostanziosa di sangue, ricovero di quattro giorni e dieta a base di carni rosse… Questo alle quattro del mattino. Come mai così presto?»
«Beh, invece di perdere tempo con me, potrebbe andare a cercarlo, metterlo in salvo e chiederlo direttamente a lui!»
 
La Potter la guardava con mani sui fianchi e un sorriso pieno sul volto. «Che dicono là dentro?» Denise tolse le Orecchie Oblunghe e gliele consegnò. «Ti piacciono non è vero? Il prossimo finesettimana di Hogsmeade le andiamo a prendere!»
«Le uscite sono state sospese fino a data da destinarsi… probabilmente per il resto dell’anno.» le fece notare.
«Significa solo che saremo amiche fino a data da destinarsi.» sospirò sentita Lily. «Intanto ci sono cinque cose che dovresti sapere.» si avvicinò, chiuse la mano a pugno per enumerarne le dita. «Sono allergica alla zucca.» Via il pollice. «Il mio colore preferito è il viola.» Anche l’indice venne scartato. «Mi piace ricevere collage per il mio compleanno perciò faremo tante foto, in modo che tu possa farne uno bellissimo e decorato con nastri viola il trentun marzo di ogni anno a venire.» contò il medio. «Ci tengo personalmente che tu assista alle mie partite future e faccia il tifo per me.» anulare. «E già che ci sei, ti chiedo gentilmente di sposare mio fratello, così potremo vederci più spesso, abitare vicine e imparentarci.» il mignolo chiuse il cerchio.
Denise cercò di mettersi comoda sulla poltrona che Derek aveva sostituito alla sedia al capezzale di Amelia. «Sinceramente…»
«Naturalmente parlo di James. Albus non è mutuabile finché non rendiamo inoffensiva la Black… credo che potrebbe essere capace di avvelenarti la colazione, il pranzo e pure la cena solo per l’illusione di averti uccisa tre volte.»
«No sul serio, io ti-»
«Oh, non sentirti in imbarazzo! James una volta ha detto che sei affascinante.» le confidò con fare risolutivo. «Ha aggiunto peccato che sia piccolina, ma ci possiamo lavorare.» promise annuendo con occhi semichiusi, riflessiva e minacciosa.
Denise inspirò aria in cerca di pazienza e diplomazia. Era disposta ad includere anche una forma di riconoscenza nella risposta disinteressatamente opinionista che cercava di profilarle con gentilezza e cortesia, ma Lily Potter ebbe l’impulso puramente opinionista di risparmiarle il tutto.
Si chinò su di lei e le lasciò uno sbarazzino bacio sulla guancia. «Dopo la partita passo da te. Mangeremo schifezze e ci racconteremo i nostri segreti imbarazzanti.»
 
Ora, Denise non aveva alcunché contro i Potter o i Weasley, ma per esperienza empirica non poteva negare o ritrattare la comodità sfacciata con la quale vedevano la vita, annessi tutti i dopotutto ed esclusi tutti i forse del caso. Questo perché Denise Rosier non sapeva che ad essere stato incaricato del mandato di arresto dei suoi genitori, dodici anni prima, fu l’attuale capo del dipartimento Auror, il signor Harry J. Potter.
 
 
 
 
 
 
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«Per un’accidenti di volta, dico una sola va giusto qualcosa in questo posto. Sapete da quanto non viene nominato un Serpeverde a fare la cronaca per le partite? Professore, io non la sto accusando di favoreggiare i Grifonrame, sto solo discutendo la questione pubblicamente… no, non ci rimanga male, se esistesse un circolo di tutte le persone che hanno reso facile la vita agli studenti di quella a casa, a danno di quelli delle altre, lei sarebbe in buona compagnia… dovreste affittare una diga per i vostri incontri e probabilmente non basterebbe…»
«… le permetto di-»
«Lasci qui il microfono! Le ho dett- Molli questo dannat- Oh, ecco le squadre che entrano! Figurarsi se i Grifonalluminio non erano i primi! Entra Potter, seguito da Weasley, da Weasley, ancora da Weasley e poi da Potter… Notate qualcosa di strano?»
Il professor Neville Paciock dovette aver cercato di lanciare un incantesimo perché dal suono acuto che il microfono aveva prodotto, fu chiaro che l’incanto era rimbalzato contro le onde sonore.
«No! Ehi, non ho detto nulla che non fosse evidente! Ma- senta un po’, vuole per caso...? D’accordo, ma lasci qui! Come dicevo, entra Potter primo, nonché capitano e cacciatore seguito dagli altri due, i Weasley neri. Subito dopo i battitori, le due pesti rosse, la Potter e Weasley e… Non ci posso credere! Quello è Baston! Non sarà un altro Weasley travestito? D’accordo, professore! Dopo il portiere Baston, segue la nuova nomina da Cercatore, Frank Paciock… Oh, ecco perché è tanto coinvolto, eh professore…»
La cronaca saltò per qualche secondo di troppo, abbastanza da attirare l’attenzione degli studenti sugli spalti.
«-co! Uno non può nemmeno fare una batt- non ho- La squadra di Serpeverde, signore e signori! Si sposti! Dicevo… finalmente accade qualcosa d’interessante! Guardateli quanto sono belli… sì, così si applaude, gente! Entra il cercatore e capitano Potter rinnegato, seguito dal portiere Warrington, i cacciatori Malfoy, Nott e Davies ed infine, belli come il sole, i due battitori Harper e Zabini!»
Derek prese alta quota, allontanandosi immediatamente al cerchio che Albus aveva creato per recitare il suo approssimativo discorso d’incoraggiamento al quale seguiva una stretta di mano in squadra. Nonostante indossasse i guanti imbottiti della divisa, l’unico modo che avrebbe avuto per disinfettarsi dal contatto con un Potter sarebbe stato usare l’acido e farsi corrodere la pelle.
Aspettò a distanza che avessero finito, prima di abbassarsi il giusto, accostandosi al fianco di Adam. «Cerca di stare o vicino a me oppure a Damian e se qualcosa non va, scendi immediatamente.»
Albus si avvicinò, cauto e comunque a distanza. «Che succede?»
«Nulla!» si affrettò a contrattare Adam, dando all’improvvisa risata liscia di Derek il tempo di dissolversi.
«Hai qualcosa da dire Nott?» il cielo burrascoso che li sovrastava era la perfetta metafora alla quale rimandare l’umore di Albus.
«Sì.» Derek non lo guardava, ma parlava come se lo stesse facendo. «Prendi quel cazzo di boccino il prima possibile.»
«… Non mi fermo certo a farvi notare la varietà anagrafica della squadra Serpeverde a differenza di quella Grifonzolfo, giusto per evitare che il professor Paciock cerchi di maledirmi un’altra volta… non mi guardi così, professore, stava per farlo sul serio, non si preoccupi resterà tra noi… Bene, i capitani fingono di stringersi le mani… accidenti che disagio… ringrazio chiunque abbia deciso di nominare entrambi i Potter capitani per questo momento di soddisfazione… Non può togliermi il microfono proprio ora che la stavo ringraziando! La partita sta per iniziare, si tolga!»
Derek sentì il fischio lontano, appiattito dal peso dell’atmosfera che lo divideva a brezze di vento freddo dal campo.
«Pluffa in mano alla Weasley… Qualcuno gliela leva! Zabini non fare il gentiluomo, tirale il bolide contro!»
Dovette scendere a picco per evitare che la pluffa passasse in mano a Potter, già fermo vicino agli anelli Serpeverde.
«Nott, che tu e la tua progenie siate benedetti a vita! Nott passa a Malfoy e Malfoy schiva il bolide di Weasley peste rossa giusto in tempo! Passa a Davies già posizionata, brava ragazza! Weasley marca Davies perché è un fallito e non sa che fare, Weasley e Davies hanno la pluffa, non capisco chi dei due, sono troppo… ma fanno a botte? Pluffa cade di mano a Davies ed è intercettata dalla Weasley… ma perché sono sempre in mezzo, qualcuno li tolga di torno! Harper colpisce la Weasley con un bolide ben assestato, grande! Malfoy prende immediatamente la pluffa e sfugge da Potter, anche lui sembra non aver aspirazioni nella vita quindi decide di marcarlo, ma gli va male! Haha! Malfoy fa in tempo a passare la pluffa a Davies, Davies fa una finta ben riuscita e la ripassa a Malfoy, Malfoy la passa a Nott e Nott… Se la tiene. Le due pesti rosse lo prendono di mira coi bolidi, sta’ attento! Sì, così ti voglio, uomo! Tira! Tira! DIECI PUNTI A SERPEVERDE!»
Derek riafferrò la pluffa prima che Liam Baston gliela potesse sottrarre, facendo un giro attorno agli anelli della porta Grifondoro e, seppur a ravvicinata distanza, tirò un’altra volta.
«Baston pare sia oppresso da tutti quei Potter e Weasley attorno perché si lascia sfuggire due tiri, uno dopo l’altro! Siamo venti a zero, stronzetti!»
Non fu inverosimile prevedere l’ennesimo scontro di ruoli tra il professor Paciock e Conrad, dalla torre centrale degli spalti e la cronaca saltò per almeno tre minuti di confronto tra i due, in cui Grifondoro fece in tempo a riprendersi e segnare un paio di volte, frapposte da un’altra Serpeverde per mano di Atlanta Davies.
«Qual è la punizione per aver pietrificato un professore? No, sto scherzando, è qui che m’inveisce contro, però non è una cattiva idea… va bene, va bene, insomma addolorato vi comunico che la pluffa è in mano a Potter primo e che ha appena schivato il bolide di Zabini… Zabini dov’è finita la tua mira?! Ma… sono io o fa sempre più freddo, insomma una giornata peggiore in cui fissare la partita non l’avete trovata? Dicevo, a rimediare ci prova Harper, ma il suo bolide viene deviato dalla mazza della Potter e rispedito contro Malfoy… oh, ma che diamine, ce l’hanno con lui! Potter passa a Weasley, ma interviene Nott a marcarlo e Warrington si prepara a parare il tiro… ehi, fermi tutti, è il boccino quello che Potter e Paciock stanno inseguendo…? Per Salazar, stanno precipitando, ma… non vedo nessun bocc-»
Derek si arrestò all’improvviso a mezz’aria, ritrovandosi tra Potter – che come lui si era fermato bruscamente, con la pluffa ancora in mano – e Malfoy – sospeso nell’atto di guardarsi attorno.
«Oh, mio Dio, cosa sono quei…? Non saranno…?»
 
 


 
 
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Lysander si cercò sul fondo di un bicchiere.
I lineamenti del suo viso barcollavano da fermi prima nel Whiskey, poi nel doppio strato di vetro sul fondo del bicchiere. Le sue occhiaie riuscivano a diluirsi nel liquido, facendo del suo volto un unico livido appannato e trasparente. Si cercò ancora e non seppe se trovarsi nell'alcol o in tutto ciò che c'era prima, non capì se l'immagine di sé che lo spiava da quel fondo d'idee liquefatte fosse riflessa nel liquido o nel vetro: se fosse la metà piena o la metà vuota del bicchiere.
«Ci vuoi del ghiaccio?»
Alice si sporse sul bancone e il piccolo giullare sul fondo del vetro sorrise di presenza, deformando il suo volto di quel poco che sarebbe bastato a chiunque per confonderlo con Lorcan.
I Tre Manici di Scopa era uno dei pochi locali di Hogsmeade che avevano un orario settimanale continuo; la maggior parte dei negozi aprivano solo il finesettimana, altri addirittura solamente in occasione delle gite degli studenti di Hogwarts: l'apertura infrasettimanale richiedeva un dispendio che non riusciva ad essere ricompensato dalle entrate, soprattutto dopo che gli Auror avevano chiuso diverse strade e si erano insediati a turni nella via d'incrocio principale, dal rapimento di Joshua Thomas. Gli affari andavano a rilento, per certi versi non andavano proprio, solo un locale ormai storico come I Tre Manici riusciva a campare il giusto con una ventina di bevande vendute nel migliore dei giorni.
Da più di una settimana Alice Paciock gestiva sola il locale. Nelle ultime sere, Lysander era passato a ridosso della pioggia e aveva spiato dal vetro appannato – come il giullare violaceo che gli rifletteva il bicchiere – che gli fu cornice dello stesso quadro di cui ora faceva parte anche lui: i tre barboni nell'ultimo tavolo in fondo che parlavano a tono rude e voce premeditatamente piana anche e soprattutto laddove non era d'onore che fosse udita; i signori anziani sul bancone, affacciati sulle ultime edizioni della Gazzetta del Profeta e due altri quotidiani locali che commentavano animatamente scontrosi, supponendo tutti i possibili complotti dietro il caso del ragazzino negro, per me sono stati i tedeschi, ci rimetto la gamba buona se non c'entran qualcosa! E la questione non si risolveva lì perché l'amico di vecchia data e di Vodka del signore anziano era certo che, invece, fosse colpa dei russi.
Il punto di fuga partiva e terminava dal bicchiere pulito che Alice reggeva con una mano e asciugava con uno straccio nell'altra; lei, del punto di fuga, era l'aureola. Eppure il giullare nel bicchiere aveva il suo stesso occhio di rigurgito per il quadro che stava osservando, ma ne faceva parte: la finestra dalla quale spiava prima di entrare a passo d'ombra non era che una cornice interna del quadro, anch'essa solo acqua e tempere a toni scuri, gli stessi del bancone, i tavoli e le sedie.
Lui era stato pennellato di spalle, bicromo e in chiaroscuro, come il bicchiere che aveva in mano, perché il pittore lo conosceva bene, senza cornici. Perché aveva visto nel suo volto la risata sincera del giullare sul fondo del bicchiere e aveva deciso di rifletterla nel vetro della finestra dietro la quale spiava il suo quadro e, dolcemente, lo profanava di sublime. Per la pioggia che picchiettava il vetro e, finemente, anticipava la metà piena del bicchiere che lui non era.
Si alzò non appena Alice mise giù il vassoio che aveva in mano - lucido, come il riflesso che gli restituiva - e gli si avvicinò con la vaschetta di ghiaccio, in cambio delle poche parole che da lui avrebbe mai preteso.
«Vai già via?»
Le sue parole avevano lo stesso sapore del Whiskey, lo stesso retrogusto amaro, la stessa dose di alcol. Per questo il giullare ne rideva in quel modo strascicato e derisorio, perché riempivano la metà piena del bicchiere. Per questo lui se ne andava lasciando il bicchiere mezzo pieno, per riuscire a vederlo mezzo vuoto. Finché va bene.
«Ti saluta Lorcan.»
Non era vero. Era solo la bugia più bella che sapesse dire ad alta voce.
Alice s'indebolì in un sorriso dolce - perché amaro, un sorriso sciolto come il ghiaccio che aveva voluto offrirgli in cambio della bugia e il dolore nella sua bellezza, un sorriso agiato in confidenza sulle sue labbra e sugli occhi di Lysander.
Gli rispose, rispose di timidezza e debole felicità, chiedendogli di ricambiare il saluto e lui proibì severamente al giullare che lo seguiva, ora aggrappato alle sue spalle, di trascriversi le parole di Alice che, in ogni modo, rimanevano aggrappate in gola e sullo stomaco - come il Whiskey, perché sapeva che altrimenti il giullare gliele avrebbe recitate e cantate, tenendolo sveglio tutta la notte - come l'alcol.
Una volta lui e il giullare avevano fatto un patto, sul fondo di un bicchier d'acqua che non aveva bevuto: Lysander avrebbe ascoltato ogni opera che il giullare avesse voluto recitare, in cambio il giullare non avrebbe mai raccontato la storia di Lysander.
Le disse che sarebbe passato per les toilettes prima di uscire, col sorriso di Lorcan pizzicato sulle guance e la risata del giullare a solleticargli le orecchie.
Camminò a passo intruso, come quello di un peregrino in una terra sacra, che gli giurava di cancellare le sue orme, non appena fosse passato. Le avrebbe cancellate con vento e sabbia, nebbia e pioggia in chiaroscuro.
Camminò a passo amputato come quello di un condannato a morte per impiccagione. Il giullare se ne accorse e gli mostrò come sistemarsi la ghigliottina attorno al collo: per la prossima volta, cantò.
Camminò a passo muto e solitario, che cancellava il precedente e non sapeva anticipare il successivo. Il passo di chi va via, va solo via, non resta, non è da nessuna parte, non c'è; il passo di chi non ha storia cantata, lo tormentò il giullare aggrappato alla sua gobba.
Via, Lysander. Va’ via.
Nel bagno non c'erano specchi, non c'erano finestre e la luce non era abbastanza nitida da rimarcare la sua ombra; nulla che potesse provargli quanto fosse solo, quanto sostanzialmente e tangibilmente fosse solo. E lo sentiva, come un mal di pancia vertiginoso – illusorio, ma dolente. Da parecchio tempo, ormai, la solitudine era l’unico rumore che sentisse – ed era un rumore piatto, di fondo, echeggiava ovunque; da parecchio tempo, ormai, la solitudine era il dolore più bello che avvertisse. Ovunque andasse c’era l’eco della sua solitudine che rimbalzava contro specchi, ombre, vetri di finestre chiuse e riecheggiava: via, Lysander. Va’ via.
Erano momenti di buio – il rumore era così forte per l’udito da freddargli gli altri sensi. Il giullare non c’era più, non c’era più nessuno perché nessun altro sapeva impersonare meglio il ruolo del giullare. C’era solo lui, la metà vuota del bicchiere, cieco e sordo di solitudine – in chiaroscuro, come le due metà della metà che lui era. E l’altra metà, piena com’era stato il bicchiere delle dolci ed amare parole di Alice, che lo seguiva sottoforma di Lorcan. Finché va bene, Lysander. E va bene se vai via. Va’ via.
Camminò a pioggia contro il primo cubicolo, s’infranse imponente e consacrato contro il legno ruvido ed inespressivo.
Si chiuse l’anta alle spalle, girando la serratura due volte.
Espirò aria mai inspirata, spalmando le mani contro le piastrelle del bagno, sudate di sporco. Sudò anche lui, sudò segreti sudici e volgari che immediatamente si mimetizzarono nel lerciume delle piastrelle. Restò fermo. Inchinato in una pace immobile nel suo dolore frenetico alla pancia perché in realtà inesistente: non era pace, era solitudine. Ma era il modo più bello in cui potesse andar bene, perché era il più doloroso in cui potesse andare via. Va via.
Si chinò e vomitò, abbracciandosi la vita: abbracciando la sua solitudine.
E finì di vomitare prima di piangere.
Quando il giullare, il giullare sì, gli aveva mostrato come stringere il cappio attorno al collo, aveva detto per la prossima volta: prima il vomito, poi le lacrime. Una morte alla volta.
Forse per questo rimase in ginocchio e pianse prostrato in preghiera di perdono al pittore e tutte le pennellate che avevan violato e disertato il quadro. Pianse, solo, per altri.
Aspettò di aver pianto anche il Whiskey, prima di concedersi un singhiozzo, uno solo, il singhiozzo solista di un uomo che non sa piangere per abitudine e solitudine; aspettò di aver pianto la metà piena del bicchiere, la sua metà e le dolci parole, solo quelle dolci, della metà della sua metà, prima di elargire vergognoso un singhiozzo per la metà vuota che era; aspettò di aver pianto anche la vergogna per quelle lacrime, nel sottofondo delle risate beffarde del giullare.
Sono tre i momenti in cui ogni uomo è indissolubilmente solo e nulla al mondo è in grado di negarlo: pianto, pena e morte. E quel bagno odorava di tutti e tre.
 
«Lysander!» la porta esterna delle toilettes maschili fu scossa a colpi. «Lys, i Dissennatori! Dissennatori ad Hogwarts!»
 
Lysander si cercò sul fondo del suo vomito, questa volta.
Fu il suo modo di guardare in faccia la solitudine. Ora che lo stava tradendo come lui stesso stava attento a tradire: in faccia.
Perché ora che non c’era più modo che andasse bene, non riusciva più a vedere la metà vuota, ma solo quella piena del bicchiere, di tutto ciò che restava: lacrime, vomito, sangue; pianto, pena, morte.
Perché il vuoto non esiste. Il giullare non esiste. Il quadro non esiste. Tu non esisti, Lysander.
Ora, non hai più modo di andartene.
Ora, non c’è più modo perché vada bene.
 
 
 
Che fatale mi sia l'ombra mia dove,
come il fato, per angoli me insegue,
me pedina, e ombre manca e fugge.
Che cara m'incomba l'ombra mia quando
per mano la prendo e con piè fermo erro,
in giro, come risa d'altri su me di scherno.
Ma di scherno mi son'i cari senza sorte,
ma di scherno mi è sorte senza i cari,
mancati cari, fuggiti cari: in morte.
-Assolo, II
 
 
 
 
 
§
 
 
 
 
 
Adam Zabini aveva trovato Lucy Weasley nell’aula di Antiche Rune del terzo piano.
«Avete visto Weasley, Louis Weasley?» aveva chiesto precipitoso, ancora affannato e stremato per la corsa tra corridoi e scale. «Che ci fate qui poi? Dovete andare in Sala Grande!»
Il professore aveva precipitosamente ordinato a tutti di rinchiudersi in Sala Grande e chiamato all’appello chiunque sapesse evocare un Patronus, quindi studenti del settimo anno, a fare di guardia ai portoni. Tre Dissennatori erano stati contati, ma Adam non era rimasto abbastanza per verificare se ce ne fossero altri.
Il suo primo istinto era stato quello di urlare, il secondo quello di cercare Damian nella confusione nel campo e sugli spalti. Subito dopo esser giunto al giusto compromesso urlando il suo nome, volle solo trovare Derek e Alexander per andare immediatamente in Sala Grande e non uscirne; ma Alexander era stato reclutato tra gli studenti del settimo anno, Derek era dovuto scappare in infermeria per cercare la sorella e Damian stava litigando con la Weasley per un motivo che per loro pareva aver la sua coerenza logico-cronologica.
Era quasi caduto dalla scopa nel tentativo di evitare che iniziassero a picchiarsi, ma la Weasley gli era corsa in contro, nel fango della pioggia in campo, e gli aveva gridato addosso. Adam ci aveva messo qualche secondo tardo a comprendere le sue parole. Il mantello nero in bagno, non capisci? Lo stesso dei Dissennatori!
Era atterrato anche lui tra il fango, buttando la scopa di lato, in una pozzanghera. Damian stava scuotendo il capo, chiedendogli mimeticamente di lasciare stare, in qualunque caso doveva lasciare perdere.
Idiota d’un Zabini, devi andare a cercare Louis, ora! Roxanne lo aveva afferrato dalle spalle ed aveva preso a scuoterlo. Devi dirgli tutto! Raccontagli tutto quanto!
«Non è sicuro che rimaniate qua, dovete andare in Sala Grande dove stanno evocando i Patronus.»
Lucy Weasley lo pungeva con uno sguardo spigoloso, lo sguardo di chi sta sempre all’angolo ed è abituato a guardare solo con la coda dell’occhio. «Ho visto Louis.» gli disse con voce roca ed affievolita, una voce che in un altro momento, in un’altra situazione Adam avrebbe notato e ricordato. «Stava salendo le scale centrali.»
Quasi gli mancò l’aria quando cercò di associare il danzare delle sue labbra nel suono ventoso che emettevano. «Ehi, stai bene? Va… va tutto bene?» voleva avvicinarsi e cercarsi una risposta da solo, nel pallore lampeggiante della sua pelle e quell’innaturale schiarimento a chiazze nei capelli e negli occhi di lei, ma il modo in cui lo stava guardando era come una punta affilata ad un pelo di contatto con il suo petto che non solo gli impediva di muoversi di un solo passo, ma addirittura d’espirare tutt’un groppo d’aria che non si era reso conto di star trattenendo.
«Sì, stiamo bene, grazie.»
«D’accordo.» Aveva fatto un passo indietro, ma cercava ancora conferma nelle macchie verdi degli occhi di Lucy ed il bellissimo luccichio col quale lo stavano ingannando.
«Vattene.»
«Sì, vattene.»
 
La porta dell’aula venne sbattuta con esitazione, ma Lucy stava ancora contando i passi che l’avevano superata in entrata e quelli che l’avevano raggiunta in uscita. C’era una differenza di tempi ed intenzioni che le parlava in rumori teneri e promettenti.
Luke le accarezzò i capelli, abbandonandola tremante alla sensibilità del suo tocco impalpabile come un soffio d’aria assiderata.
«Non siamo più soli, ora.» sorrise, sorrise col suo sorriso; le stava rubando il sorriso. «Non sarà mai più come prima.»
«Non sorridere per me, posso farlo da sola.»
«Allora perché stai piangendo?» la accarezzò ancora sui capelli dove, innaturalmente, già da diverso tempo, si stavano schiarendo. «Perché, Lucy? Perché non riesci a capire cosa significa tutto questo? Perché non sei in grado di vivere, Lucy?»
«Smettila di sorridere.»
«Ora ci è concesso vivere. Ora ci è permesso esistere.» Rise, allora. E quella risata era oltre la sua. «Perché non riesci a sentirlo?»
Perché stava morendo. Lei stava morendo. Lei… lei chi?
«Lo sai cosa significa tutto questo?» riprese ad accarezzarla.
Non significava niente, nulla.
«L’abbiamo trovato.» le rubò di nuovo il sorriso e lo battezzò sul proprio volto informe. «Abbiamo trovato la sua parte migliore.»
«Non… non ne siamo sicuri… non credo, Luke. No.»
Rise sguaiatamente, istericamente. «Non vedi? Ora ne ho una anch’io.» si guardò alle spalle, raccogliendo la sua risata in un sorriso unico, con due fossette profonde come sue buche: una delle due sicuramente per lei.
Lucy guardò oltre la sua spalla i vetri ottagonali sopra i lavandini, ma lui scosse il capo davanti a lei e la nuca nel riflesso sugli specchi appannati di sporco come occhi di lacrime – in pianto, in pena, in morte. Continuò ad esprimere diniego con un ticchettio occlusivo dentale che non andava a ritmo dei secondi perché era troppo eccitato per l’impazienza, finché lei non fece penzolare lo sguardo a qualche soffio d’aria – come le sue carezze – dal pavimento.
Allora Luke batté le mani con la stessa mancata musicalità del suo diniego vocale. «Non è bellissima?» si commosse, sorridendo orgoglioso.
Eccola lì, nitida come una certezza: l’ombra di Luke che accarezzava i capelli alla sua.
«Ora che abbiamo trovato la sua parte migliore, non ci resta che distruggerla, ma lentamente.» promise. «Come lui ci ha creati.»
 
 
 
 
 
E tu morta giacerai né mai ricordo di te
ci sarà nemmeno in futuro. Tu non partecipi alle rose
della Pieria. Ma ignota nella casa di Ade,
volata via, vagherai qua e là tra i morti.

 
-Saffo, 168 B
 
 
 
 
 

 
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Un capello biondo gli era caduto in grembo e curioso l’aveva guardato a testa in giù.
«Mama, das gehört dir!»
Aveva un po’ camminato, un po’ gattonato verso di lei, ma l’uomo incappucciato l’aveva sottratto alle braccia della madre con un altro strattone, lo stesso delle due volte precedenti.
Suo padre urlava, ma parlava in inglese e le poche parole che ai suoi quattro anni vantava di sapere erano tedesche.
«Dadi, das ist Mom!»
Strinse il capello biondo in un pugno impacciato e cicciotto e lo guardo di nuovo a testa in giù.
Un altro signore incappucciato gli stava puntando contro quello che, ad una tale tenera età, aveva visto come un bastone di legno. Trovò il gesto buffo e si mise a ridere, ma poi sua madre urlò e si mise, invece, a piangere.
Qualcuno, uno dei tre uomini col mantello nero che si erano intrufolati in casa loro quella notte, lo aveva sollevato dal suo maglioncino di lana e lo aveva portato dalla madre. Non poteva saperlo, ma l’uomo le aveva ordinato di zittirlo.
Lui aveva abbracciato la sua mamma, questo lo ricordava bene, benissimo; ma, invece di smettere di piangere, aveva continuato più forte perché quegli uomini stavano colpendo il suo papà.
 
Il Dissennatore alle sue spalle riproduceva glaciale le urla di sua madre, facendogli sanguinare le orecchie.
Il corridoio stava ghiacciando e Derek stava gelando, ma trovò la forza d’imbucarsi nella prima stanza di cui trovò la porta aperta, lungo il corridoio ghiacciato dei sotterranei.
 
«Nicht mein Sohn!»
Sua madre non stava più gridando, li stava pregando.
«Er tat nichts! Nimm mich! Töte mich! Sparen mein Sohn, bitte! Bitte!»
Quando l’uomo alle spalle di sua madre la prese per i capelli, lui tirò su il capo dal suo seno e riuscì a voltarsi il giusto per vedere suo padre steso a terra in una pozza di sangue alimentata dalla lama che aveva conficcata sotto le costole. Era ancora vivo. Sobbalzava a ritmo dei singhiozzi della madre dal tremore, ma era ancora vivo.
 
Riuscì anche a chiudersi la porta dietro e fu qualche secondo di speranza nel buio che ebbe gli stessi brividi della vista di suo padre agonizzante nel pavimento della cucina, dietro le sue palpebre.
 
Prima che l’uomo lo prendesse per il maglione di nuovo, fece in tempo ad aggrapparsi alla vestaglia della madre.
La vide morire in un battito di ciglia: vide solo il prima ed il dopo. Un momento aveva gli occhi aperti e sua mamma gridava in lacrime, l’attimo dopo li chiudeva e si sentiva tirare indietro con veemenza, la stessa con la quale lui stringeva i nastri della vestaglia di seta della donna e li stappava; e infine, quando apriva gli occhi blu bagnati, aveva appena la visuale del collo spezzato di sua madre ed il silenzio. Silenzio assoluto, rotto, tronco. Il silenzio di un vaso, il vaso d’argilla fatto da sua mamma, che crollava a terra in mille e mille scaglie, mentre lui aveva gli occhi troppo annebbiati dall’orrore per vedere chi era stato a farlo cadere. Il silenzio di una porta chiusa, dietro la quale venne nascosto il cadavere di sua madre e, subito dopo, quello di suo padre. Il silenzio dei morti.
 
C’era silenzio anche in quella stanza perciò, quando cadde a terra, il tonfo che produsse fu piatto e scomparì senza rimbombare.
Un fruscio alla sua destra lo allarmò e credette che il Dissennatore gli avesse rubato anche quei pochi secondi di vantaggio.
Quando riaprì gli occhi, sua madre gli dava le spalle, accucciata al suo fianco.
Tossiva d’affanno di vivere, Derek riusciva a sentirlo nelle vene.
«Mama, bist du?»
Strisciò tra la polvere fino alle sue spalle e le accarezzò i capelli biondi con il respiro, cingendole la vita.
«Mama… Alles ist gut, wir sind zusammen, jetzt.»
 
 
Derek Nott non si chiamava Derek Nott. Non importava quanto lo fosse.
Il suo nome era Henri, il suo secondo nome Christopher; il suo cognome, invece, un’altra storia.
Era nato a Freiburg, in Germania, da madre tedesca e padre di origini anglofrancesi. All’età di quattro anni tre uomini non identificati uccisero i suoi genitori e lo portarono via, in Inghilterra. Nessuno indagò mai abbastanza sulla morte babbana dei suoi genitori, ma quando ci pensava col senno di poi, si rendeva conto che gli Auror erano troppo impegnati ad arrestare i Rosier per preoccuparsene.
Henri Christopher fu raccattato, non si seppe mai esattamente come o dove, da Theodor Nott e la moglie, i quali rinunciarono all’affidamento di Alexander e Denise persuasi dall’eredità che spettava a lui, una volta raggiunta la maggiore età. Avevano stabilito le regole immediatamente: sei stato adottato perché i tuoi genitori sono morti, ma noi ti vogliamo bene lo stesso e ti abbiamo accolto in casa nostra come un figlio da quando avevi quattro anni soltanto per darti un futuro migliore, che altrimenti con difficoltà avresti avuto, nonostante non sia stato facile, oltre che poco conveniente abbiamo fatto il possibile; dividere l’eredità con noi, una volta che sarai maggiorenne è il minimo che puoi fare.
Ecco ciò che c’era dietro: ecco perché non importava. Semplicemente perché il vaso continuava ad essere rotto, la porta ad essere chiusa ed i morti, per sempre, morti.
 
 
«Stiamo morendo?» chiese Evelyn, stringendo le mani che l’abbracciavano ed infilando le dita nei nastri tra i loro palmi.
Henri Christopher le sospirò nei capelli. «Nicht noch einmal.»
 
 
 
 

 
 
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Adam lo aveva trovato seduto al centro del corridoio del quinto piano, a gambe incrociate, con il suo Patronus alle spalle.
Il corridoio era assolutamente deserto, fatta eccezione di loro due. La notte improvvisa era una ninna nanna, delicata e senza fondo, in sottofondo.
Louis lo guardava ad occhi chiusi. Adam s’inginocchiò di fronte a lui e con un sospiro gli baciò la fronte.
«È una musa.» gli disse soltanto. «Il mio Patronus è una musa.»
Alzò lo sguardo verso la fonte di luce, guidato dalle sue parole, ma quando le riabbassò accecato, Louis era scomparso.
 
 




 
 
§§§
 
 
 



 
Venticinque giorni dopo
 
 
 
Louis alzò le mani ed i cancelli si aprirono.
Vibrarono interrotti all’indietro prima che potesse toccarli, cigolarono contro vento precoci, pur di precederlo, si aprirono un varco, rinunciando alla loro unione, ansiosi di approdare al momento giusto. Era lui ad essere fuori tempo.
Il pavimento freddo del quinto piano si era dissolto in erba alta ed umida sotto il suo tocco.
Barcollò su un piede, sull’altro, su entrambi e poi sulle ginocchia. Barcollò a quattro zampe, gli barcollò l’aria dentro e il vento attorno; si rimise in piedi solo dopo aver capito come barcollargli contro.
Camminò, allora, in avanti, mantenendo il ritmo che aveva instaurato con le ginocchia ed il vento tremanti; camminò in avanti, percependo il sangue uscire caldo dalle ferite sulle gambe ed accarezzarlo come avrebbe potuto far meglio solo il vento; camminò in avanti perché non c’erano altre strade, non c’era nessun’altra via, alcun incrocio o varco, scorciatoia o sottopassaggio. C’era una direzione: la fine; un solo verso: l’inizio.
Aprì gli occhi.
Il suo sguardo andò a sbattere direttamente contro il portone del castello, inciampando sulla soglia. Louis lo soccorse tenendolo fisso e non spostandolo altrove, e cercando di andargli incontro più fretta.
Guardò in basso, l’erba di un prato già tosato, le scarpe bagnate della pioggia che doveva arrivare, il fango di una stagione passata, il sangue prematuro; guardò le sue mani, le schegge, i graffi, le ustioni, le ferite che si chiudevano ad ogni fugace secondo di quel perenne momento, per riaprirsi quando avrebbero dovuto.
Così, guardò in alto, guardò il cielo. Sarebbe piovuto da lì a poco.
Fu il primo motivo per cui volle piangere.
Erano gocce quelle che gli pizzicavano le palpebre ogni qualvolta socchiudeva lo sguardo: era la stessa pioggia che si era lasciato dietro; amichevole, affettuosa, premurosa, pronta a ritrovarlo. Pioveva già prima di piovere davvero, pioveva sin dall’inizio, prima e dopo la fine, pioveva mentre aspettava che cominciasse, subito dopo che il tutto si era concluso, pioveva mentre andavano incontro alla fine, ricorsi dall’inizio.
Si asciugò gli occhi sulla manica del maglione, imbrattandoli coi residui di sangue ormai incrostato. Si fermò non appena giunse ai piedi del portone centrale, spalancato. Si guardò attorno, contemplando il silenzio tacito, fugace nel perenne.
Chiuse gli occhi e gli scappò finalmente il primo singhiozzo; poteva permetterselo, era tornato a casa.
 
Hogwarts ridacchiava sottovoce, sibilando le stesse profezie che aveva esalato prematuro ed esagitato il vento sulla pelle di Louis. Gli confidò il futuro che celava in ciascun mattone scuro all’angolo acuto ogni muro. Gli giurò il migliore dei benvenuti, tra cori di saluti ed assoli di congedi, ornati tappeti rossi srotolati ai suoi piedi, profumati strati di alissi or colorati or candidi, chinati ad alti e folti cipressi congiunti e separati da ombre in cui nascondere i segreti precedenti ed antecedenti tutti i suoi invalidi ed avventati tormenti. Allora lo derise, sorrise e poi rise, delle sue paure improvvise alle quali promise speranze indecise, incise sulle lapidi insieme alle pretese recise tra le quali frappose tutti i se con cui in principio lo offese ed infine lo uccise. Fu il suo modo di scusarsi cortese quello d’indicargli dove nascondere gli scudi delle armature, concessi in nome delle battaglie future e non delle perdite premature, e di accoglierlo esiliato, mostrandogli il suo futuro nel passato.
Louis prese parte al rito da bentornato, con un singulto ridacchiato che fu il suo commiato da benarrivato, chinato sul varco duettò coi solisti col solo fiato e si beò dell’applauso quando l’ebbe oltrepassato.
 
L’atrio era caldo, musicale e natalizio.
Fred e James furono i primi che vide, i primi che lo videro ed allora fu un momento di grida ovunque attorno a lui.
«Voglio dormire.»
Fu l’unico suo desiderio, come se fosse l’ultimo; ma Louis sapeva di tormento, e ne odorava anche, che in realtà era solo il primo degli ultimi.
Fred lo stava sorreggendo, ci aveva messo un po’ a realizzarlo. James era andato a chiamare qualcuno.
«Credevamo fossi…!»
Non smettevano di dirlo e smentirlo. Credevamo fossi morto. Eppure non era della sua morte ad essere reduce, ma avrebbe dato tutto ciò che aveva affinché lo fosse.
«Voglio dormire, ti prego.»
«Vai a chiamare gli zii!» stava urlando una voce alle sue spalle. «Dì a Dominique e Molly di scendere!»
«Molly?» ebbe il coraggio di chiedere.
«Louis, il tuo sogno non c’entrava niente con lei.» gli disse Fred e lo disse guardandolo negli occhi. «Ha fatto l’intervento ed è riuscito. Louis, Molly è guarita.»
«Oh Dio, io voglio solo… voglio solo dormire.»
«Dove sei stato tutto questo tempo?!» James.
Alla fine, ma come dirtelo?
 
 
Segue e insegue anche se in realtà è fermo. Che cos’è?
Il tempo.
 
 
 
 
   
 
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