Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: WhiteWitch    13/10/2015    3 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Nda: Ciao amiconi! Come va? In questa giornata uggiosa pubblico il 28esimo capitolo della storia, sperando di rallegrarvi la giornata! Aspetto con impazienza le vostre recensioni e vi ringrazio per la vostra assidua frequentazione <3
La storia è naturalmente anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 28.

Image and video hosting by TinyPic

In ospedale mi diedero un calmante piuttosto forte e rimasi afflosciata su una poltroncina in corridoio per qualche ora. La signora Caron, la donna del condominio di Bette, si offrì gentilmente di restare con me, ma ero troppo rincoglionita dal valium per dirle di sì e dopo un po' di tempo se ne andò.
Quando mi ripresi telefonai a mia madre, ma non fu come avevo pensato. Credevo che avrei avuto bisogno di conforto, invece scoprii di avere una gran voglia di fare qualcosa, una cosa qualunque, ma che fosse impegnativa e difficile in modo da distrarmi il più a lungo possibile. Così riattaccai in pochi minuti.
È strano come mi stessi di colpo rendendo conto di aver bisogno soltanto di un po' di silenzio. Non chiedevo altro, volevo solo che gli infermieri e la dottoressa che mi imbottì di valium chiudessero quelle bocche inutili. Volevo andare a casa, staccare internet e telefono e stare zitta.
Il mio maglioncino era pulito, protetto dal mio cappotto, quindi avevo solo qualche alone scuro sui jeans. Immagino che, con un viaggio in tintoria, avrei potuto salvare il mio povero, lezioso cappottino, ma la verità è che non volevo farlo. Anzi, avrei voluto dargli fuoco. Non avrei mai più avuto la forza di indossarlo in ogni caso. Per proteggermi dal freddo il signor Fabre mi aveva portato un giubbotto dall'armadio di Bette e io ci navigavo dentro, ma mi andava bene lo stesso. Finché rimasi in ospedale non ebbi nemmeno la necessità di tenerlo addosso.
Quando l'effetto del valium si esaurì del tutto mi dissero che potevo andare a casa e mi diedero il biglietto da visita di uno psicologo indipendente che aveva il suo studio lì nell'edificio.
«Vorrei prima parlare con Bette, per favore», rantolai con voce roca mentre gettavo il biglietto da visita nella carta straccia. Non avevo bisogno di uno psicologo, semmai di un buon pasticcere: prevedevo di annegare il mio dispiacere nelle meringhe.
L'infermiera davanti a me era molto carina, cicciottella e dall'aria gentile. Si vedeva lontano un chilometro che avrebbe dato via l'utero pur di non dirmi di no. Ma il dovere è il dovere.
«Mi dispiace, ma non so se è il caso», spiegò. «L'orario di visite è finito mentre dormivi sulla sedia. Se tu fossi un congiunto potresti rimanere, ma così...».
«Senta», dissi stancamente, «mi creda quando le dico che vorrei disperatamente andare a casa. Voglio farmi una doccia e starmene in pace per un po'. Ma è importante per me vederla».
Scosse il capo. «Non posso proprio farti passare, mi dispiace tanto. Ma la tua amica è in ottime mani». Mi vide esitare, così aggiunse: «Sono ore ormai che non è in pericolo di vita, da quando siete intervenuti in casa sua. Sta' tranquilla, non si muoverà da qui tanto presto e domani potrai stare con lei dalle nove alle dodici e dalle tre e mezza alle sei».
Domani. Domani avevo il cazzo di turno al Gitem. Otto orrende ore. Dove avrei trovato il tempo di stare con Bette? Scossi il capo, sospirando.
«Ok, grazie lo stesso».
«Sai come tornare a casa?».
«Sono una donna che lavora, non ho sette anni», sbottai. Mi sentii molto in colpa dopo, lei aveva solo cercato di essere materna, ma il livello di sociopatia nel mio sangue era aumentato esponenzialmente dopo la fine dell'effetto del valium.
Presi il mio cappotto da buttare, mi avvolsi nell'enorme giacca di Bette, mi trascinai fuori dall'ospedale e chiamai un taxi. Arrivai a casa nel giro di quaranta minuti.
Feci come avevo previsto: spensi il cellulare, strappai brutalmente dal muro tutti i cavi che potessero connettermi anche solo vagamente con il mondo esterno e alla fine, quando mi sedetti su una sedia, l'unico suono che sconquassava l'etere era il ticchettio dell'orologio in salotto.
Non so per quanto tempo io sia rimasta immobile. Fuori era buio, c'erano i fari delle auto che si riflettevano dalle finestre. La luce del lampadario della cucina mi faceva male agli occhi, anche se non ero del tutto certa di avere ancora una vista funzionante: i contorni del mio campo visivo erano deformati, vibranti, come se stessi sognando o fossi nel pieno del peggiore calo di zuccheri mai visto. Avevo le mani strette sulle ginocchia e mi sembrava di fluttuare, come se la sedia si stesse muovendo in una grossa bolla nel mare.
La mia mente era insolitamente sgombra e la prima cosa che pensai fu che avrei proprio dovuto alzarmi e andare a dormire, perché il Gitem Euronics non aspetta nessuno e proprio non volevo sorbirmi i commenti di Sophie la Stronza sulla mia “vita notturna esagitata”.
Chissà se avrei dovuto dir loro di Bette. Immaginavo che sarebbe stata parecchio tempo lontana da lì, non avevo idea di quanti giorni l'avrebbero tenuta in ospedale, né di cosa avrebbe fatto dopo. Magari aveva dei parenti da cui stare per un po'. O magari avrebbe finito per riprovarci e ci sarebbe pure riuscita, ad ammazzarsi.
Mi mossi rigida come una specie di droide e andai in bagno. Mi spogliai, entrai nella vasca e tirai la tenda, aprendomi in testa un getto di acqua ghiacciata.
Rimasi accovacciata nella vasca per un po', l'acqua che continuava a rimbalzarmi sulla nuca, le ginocchia strette al petto. Fregai via tutto con una spugna orribile, abrasiva, strappandomi anche la pelle sulle gambe e su un braccio. Alla fine avevo più tagli e segni che pelle bianca, ma era giusto così. Dovevo ritornare ad essere pulita, non potevo tollerare quell'odore e quella sensazione di sporcizia.
Mi trascinai in camera, mi sedetti sullo sgabello alto, con un piede agganciai il cavalletto per avvicinarmelo e quasi ci scagliai sopra una tela. Non che volessi dipingere, dovevo proprio dormire.
Non ero io a muovermi, era qualcun altro, e sapete cosa? Mi stava bene. Mi sentivo come se nulla potesse fare la differenza. Dormire, non dormire. Mangiare, non mangiare. Dipingere o non farlo. Non aveva senso, proprio non c'era nulla che avesse senso.
Preparai i colori senza nemmeno guardare, tanto quanto mi poteva importare? Intinsi il pennello e, lo sguardo vacuo, iniziai a passare delle pennellate sulla tela. Era come se lo facessi a caso, un po' come scarabocchiare sull'elenco del telefono. Muovevo il braccio senza nemmeno guardare quello che stavo disegnando.
Solo alla fine sollevai lo sguardo, con la stessa enfasi con cui avrei fissato un quarto di bue in macelleria, ovvero con nessun interesse.
Era una stanza molto scura, di un color vinaccia tendente quasi al nero. La tempera era schizzata un po' dappertutto, quindi quell'enorme macchia non era ben definita. Era come se fosse sangue, era ovunque e aveva sporcato la mia pulitissima e perfetta tela bianca. In mezzo a tutto quel marcio c'era una macchiolina giallo limone, che se ne stava timidamente appostata come se avesse paura di disturbare.
Intinsi il pennino nella china. Mi ricordai che una volta avevo visto un film in cui una ragazza si era suicidata accendendo l'auto in garage e un tizio aveva commentato dicendo: “C'est la vie”. L'avevo trovato stupido, quella non era la vita, era un incubo orribile. Avvicinai il pennino e scrissi in bella grafia “C'est la morte!”. Poi firmai.
Credevo che sarei stata arrabbiata. Furiosa. Oppure che mi sarei nascosta dietro un muro di sarcasmo. O ancora che avrei telefonato piangendo a tutti coloro che fossero disposti ad ascoltarmi. Ma tutte e tre le opzioni prevedevano che io aprissi la bocca per parlare e che dovessi anche ascoltare le risposte. Io volevo solo un po' di silenzio.
Così rimasi a fissare il mio quadro senza realmente vederlo per quelle che mi parvero ore, finché la mia schiena non mi lanciò un ultimatum e il pennino non mi scivolò dalla mano inerte e assonnata, macchiando il pavimento di china. Allora mi sdraiai sotto le coperte con addosso solo i calzini.
Mi addormentai subito, strano a dirsi ma non ebbi problemi a prendere sonno. Né dovetti subire la visione della vasca insanguinata di Bette nei miei incubi.
La mattina dopo andai al lavoro come al solito. In assenza di Manuel e Bette ero sempre parecchio immusonita, quindi nessuno notò la differenza. Passai lì la mattinata e consumai il mio pasto portato da casa appollaiata sul nostro divano nel magazzino. Poi finsi di sentirmi terribilmente male, minacciai conati di vomito davanti a un paio di clienti e alla fine fu Sophie a chiedermi se non volessi per caso andare a casa.
Mi tolsi la divisa e andai in ospedale, ma prima passai dal mio appartamento a prendere alcune cose.
Con la luce del giorno l'Hôpital Lariboisière non era molto più piacevole rispetto alle ore notturne. Oh, certo, il giardino all'italiana e tutta la pomposa eleganza architettonica avrebbero avuto un enorme fascino su di me se non fossi stata in visita a un paziente, ma l'interno era fastidiosamente simil Grey's Anatomy. Terribile.
Mi feci spiegare come raggiungere la stanza di Bette dal tizio al banco dell'accettazione. Ero quasi tentata di tornare indietro e scappare, ma per qualche ragione decisi di non farlo. Strinsi il pacchetto al seno e marciai fino alla mia meta.
La porta della camera da letto era aperta. Feci capolino all'interno e vidi che Bette era sveglia, seduta sul letto inclinato. Era coperta dal lenzuolo fino al mento, il tubicino della flebo che spariva al di sotto delle coltri. Nel letto di fronte c'era qualcuno, ma la tenda divisoria era tirata.
Bussai delicatamente, appoggiata allo stipite.
Bette si voltò di scatto verso di me. «Oh, no».
«Ciao anche a te».
Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Léo...».
Sollevai una mano per interromperla. «No, Bette, non serve che tu mi dica niente. Immagino che non abbiano fatto altro che chiederti il perché da quando sei qui, perciò se non vuoi dirlo a me lo capisco».
Lei abbassò la testa e non rispose.
Mi sentivo letteralmente in prestito. Me ne stavo lì sulla porta, senza azzardarmi ad entrare, ma neanche ad uscire, senza sapere dove mettermi. Bette non riusciva nemmeno a guardarmi.
Era come la storia dell'elefante nella stanza: tutti sanno che c'è, ma nessuno osa parlarne e tutti fanno finta che non esista. Ciò che era accaduto a Bette era talmente grave che entrambe avremmo voluto fingere di non saperlo.
Mi chiesi se non fosse per caso colpa mia. Non avevo mai detto a Bette che sapevo dei suoi psicofarmaci. Chissà, forse se gliene avessi parlato avrei saputo il vero motivo per cui li prendeva e magari anche come aiutarla.
«Quello che è successo», disse Bette all'improvviso, «non è stata colpa di Henri. Certo, lui è stato davvero uno stronzo, ma la reazione che ho avuto è stata un mio problema».
Finalmente mi decisi ad entrare. Posai le cose che avevo portato sul tavolino e presi una sedia. «So della venlafaxina».
«Come? E da quando?».
Mi strinsi nelle spalle. «Da un po'. Bette, io capisco che tu abbia voluto tenere per te questa cosa, lo capisco davvero. Però...».
Scese il silenzio. Però cosa? Però non avresti dovuto cercare di squarciarti le vene, Bette. Però proprio non avresti dovuto voler morire, Bette. Però non avresti dovuto permettere che ti trovassi io, Bette. Però, Bette.
«Dopo pranzo, ieri, ho voluto fare una sorpresa ad Henri nella ditta dove lavora», spiegò con un filo di voce. «Col senno di poi avrei dovuto pensarci che forse lo stavo disturbando. Comunque arrivata lì ho trovato una donna con un ragazzino».
La fissai in silenzio.
«Non ho capito subito che erano la moglie e il figlio, insomma, poteva essere una signora che voleva far riparare la caldaia. Solo una cliente».
«Come lo hai scoperto?».
«Entrambe ci aspettavamo qualcosa da lui, un bacio o una carezza. Ma Henri doveva scegliere chi di noi due deludere ed è ovvio che abbia scelto me. Lo capisco, certo, lì c'era anche suo figlio e capisco che non abbia voluto fare un casino. Quando sua moglie se n'è andata lui l'ha baciata».
Credevo mi sarei mostrata più sorpresa, ma avevo raggiunto uno stadio zen dell'apatia. «Tu cosa hai fatto?», domandai. «Lo hai sputtanato, almeno?».
Scosse il capo. «Non potevo. Ero così scioccata che non sono riuscita a muovere un muscolo. Credo che la sua famiglia non abbia mai sospettato che lui avesse un'altra donna, perché prima di uscire mi hanno salutata. Non con malizia, eh, con cortesia».
Mi sfilai le scarpe e appoggiai i piedi sul materasso, vicini ai suoi, ma non riuscii a dire molto altro.
Fu lei a continuare. «Sono scappata via. Ero incazzata nera, credo, non lo so. Non so cosa stessi provando, io... Penso di averlo dimenticato».
«Ecco perché non voleva conoscere i tuoi amici».
Bette fece una smorfia e abbozzò un timido sorriso. «Già, dovevo capirlo».
Mi guardai intorno: la stanza sembrava abbastanza accogliente, considerando che si trattava pur sempre di un ospedale. Ma sembrava a posto, l'unica cosa che mi diede fastidio fu il poster con un bambino felicissimo di farsi imbottire di sedativo. Era inquietante.
«Spero solo che non ti trattino come una squilibrata», commentai. «Non è certo quello di cui hai bisogno, no?».
«Oh, no, sono molto gentili».
«Il medico che ti prescriveva la venlafaxina...».
Mi interruppe. «Non avrei dovuto prendere quella roba per così tanto tempo», affermò. «Ho parlato con una psichiatra e con un neurologo, che mi hanno spiegato che dovrò smettere di prenderla gradualmente secondo le loro istruzioni». Si agitò sotto il lenzuolo. «Quando sarò fuori voglio contattare un legale e vedere cosa si può fare».
Non sono un'esperta di mala sanità. Non so quanto avrebbe potuto servire allo scopo l'intervento di un avvocato. Non dissi niente.
«Però in parte è anche una mia idea fissa», aggiunse sospirando. «Il suicidio, voglio dire. Anche prima che iniziassi con la venlafaxina. Soprattutto da ragazzina, mentre andavo a scuola. Diciamo che l'Efexor ha solo dato una spintarella alla mia voglia di morire».
Restammo di nuovo in silenzio. Fuori sentivamo l'ospedale che si dava da fare, i medici che passavano davanti alla porta discutendo un caso, un'infermiera che chiacchierava con un paziente in sedia a rotelle. Squillò un telefono. Dalla finestra entrava una luce grigia, temporalesca. Esplose un tuono.
«Come vanno le tue braccia?».
Bette fece un risolino ben poco allegro. «Oh, di merda. Veramente di merda. Se mai vorrai spegnerti la luce, Léo, oltre a fare in modo che ti riesca cerca anche di non danneggiarti troppo».
Non capii cosa intendesse. «Eh?».
Agitando le spalle, Bette sfilò lentamente le braccia da sotto la coperta e mi mostrò gli avambracci avvolti in un bendaggio pulito. «Non temere che possa dimenticarmi di questa storia, Léo, perché non potrò mai più farlo». La sua voce, da triste e dimessa, era d'un tratto arrabbiata. «Ti farei anche vedere, ma non sarebbe certo un bello spettacolo».
«Bette, mi dispiace». Non sapevo bene di cosa dispiacermi, al di là del suo tentato suicidio, perché non capivo in che modo i danni che si era causata potessero essere permanenti. «Che cosa è...».
«Cos'è successo?», sbottò lei. Mi sorprese quel cambio di umore così immediato. «Ieri pomeriggio, quando mi hanno portata qui in ambulanza, mi hanno subito mandata da un chirurgo. Pare che io mi sia recisa i tendini dell'avambraccio, perché passano sotto i legamenti del polso. In sala operatoria hanno dovuto ripescare i due lembi dei tendini e riattaccarli».
Non mi ricordavo niente dalle lezioni di anatomia umana al liceo, in parte perché ero piuttosto negata e in parte perché in effetti non me ne importava più di tanto. Però tutti abbiamo presente come sono fatti i nostri muscoli e i tendini. Quando doveva aver sofferto, nel fisico, per quel gesto così estremo?
«Nella mano sinistra mi è andata abbastanza bene, l'unica cosa permanente sarà la cicatrice data dall'operazione. Nella destra pare che io mi sia danneggiata il nervo mediano».
Era come sentir parlare in swahili. «Il nervo mediano», ripetei annuendo. «Sicuro».
«È quello che ci serve per muovere il pollice».
Non era stata Bette a parlare. In un altro momento avrei riconosciuto quella voce molto prima di voltarmi e vederlo, ma in quella situazione di merda era già tanto se riuscivo a capire dove mi trovassi.
Mi girai verso la porta e vidi George Addison, il cappotto con gli alamari sbottonato e un mazzo di peonie in mano. Mi fissava come se non si aspettasse di trovarmi lì con Bette, quando in realtà era sorprendente che ci fosse lui.
«Ehm», risposi.
«Quello che intendo dire è che forse Bette non potrà più muovere le dita come prima», continuò lui entrando nella camera e sedendosi su un'altra sedia, al di là del letto rispetto a me. Prese una bottiglia di Perrier dalla borsa a tracolla e vi mise dentro i fiori, appoggiandoli sul comodino.
Lei confermò annuendo. «Niente più pollice opponibile del cazzo, due milioni di anni di evoluzione umana buttati nel cesso».
Era più spaventoso di quanto potessi credere, così terribile che mi dimenticai perfino di chiedermi perché George fosse lì con Bette.
Quante cose facciamo col dannato pollice opponibile? Praticamente qualsiasi cosa. Bette non avrebbe più potuto fare tutto in casa, né fare qualsiasi tipo di lavoro. Per i primi tempi avrebbe probabilmente sofferto parecchio dolore alla mano.
«Oh, mio Dio».
«Esatto», berciò lei. «Oh. Mio. Dio».
«Bette», fece George accavallando le gambe, «che intenzioni hai dopo questo?».
Lei fece spallucce. «Non lo so ancora. Penso che prenderò le cose come vengono per un po' di tempo, forse andrò in terapia da qualche parte». Assunse un'espressione scettica e indicò il suo comodino con un cenno del capo. «Stamattina è venuta la psicologa a lasciarmi degli opuscoli», spiegò. «Sono pieni di dati. Di numeri e di percentuali. Quanta possibilità c'è che io ci riprovi nel giro di un anno, quanto è importante il sostegno della famiglia... Mi sento come se fossi infetta. Come dicevi tu, Léo, almeno non pensano che io sia matta da legare. Vogliono solo curarmi».
George sollevò le sopracciglia. «Ma...?».
«Ma non mi serve nemmeno che vengano qui a farmi la lezione sul perché ho fatto una cazzata», sospirò. «Mi hanno dato una spiegazione con tanto di diagrammi a torta».
«Hai qualcuno con cui stare, quando sarai fuori?», domandai. «Un parente?». Mi aveva detto che sua madre era morta quando era una ragazzina, ma doveva avere un padre o una nonna o un cugino di quarto grado disposto ad ospitarla.
Lei annuì. «Mia zia abita a Trouville, proprio sulla spiaggia», rispose con un mezzo sorriso. «Le ho telefonato stanotte. Ha detto che posso stare con lei».
George si passò una mano fra i capelli ed il suo odore letteralmente mi investì. Secondo me Bette non lo sentì neanche vagamente, forse erano le mie narici ad essere ipersensibili all'Eau de George Addison.
«Penso che mi trasferirò lì», continuò Bette. «A Trouville, dico. Cercherò un altro lavoro. Non voglio stare a casa di mia zia per tutta la vita, quindi prenderò un appartamento, ma non voglio nemmeno rimanere qui a Parigi. Non ce la farei».
Feci per rispondere quando un infermiere entrò nella camera. Ci sorrise. «Scusate, ragazzi, ma devo portare la vostra amica di sotto per un controllo neurologico».
George ed io ci alzammo all'unisono. Mi avvicinai al tavolo e presi le cose di Bette.
«Ti ho riportato la tua giacca», spiegai prendendo una gruccia dall'armadio per appenderla. «E dato che non so quanto ti fermerai qui ti ho portato dei libri da leggere. Spero ti piacciano i gialli di Claude Izner, trattameli bene».
Bette annuì con un sorriso dolce. «Grazie. Nel pacchetto grande cosa c'è?».
«Aprilo dopo, è un regalo».
Non volevo dire cosa fosse davanti a George e all'infermiere. Non volevo spiegare come mai, invece di riposarmi, avessi trascorso la notte a dipingere. Né volevo che si sapesse quanto mi avesse davvero sconvolta quella situazione.
«Grazie per i fiori, George, amo le peonie».
«Figurati».
Mi avvicinai al materasso e le diedi un bacio sulla fronte. «Non ti forzerò a parlamene», sussurrai, «sappi solo che sono sempre a tua disposizione e che ti voglio bene. Farò tutto il possibile per aiutarti».
George ed io uscimmo. Restammo in silenzio in corridoio, in ascensore e nell'atrio, attraversammo il cortile nell'aria fredda e scura dell'autunno alle porte, i lampi del temporale in arrivo come unica compagnia.
Avevo capito perché Bette non mi aveva detto che erano rimasti amici: sapeva che per me sarebbe stata una fonte di imbarazzo e di ansia. Anche con i suoi problemi era riuscita a pensare agli altri e a fare in modo che George ed io stessimo lontani. Ci voleva davvero molto bene.
Non era la prima volta che ci incrociavamo, come vi dicevo, ma non avevamo avuto l'intenzione di scambiarci qualche parola da un sacco di tempo. Invece, mentre aspettavamo un autobus che ci riportasse in centro, c'era tra di noi quella strana sospensione, come se entrambi stessimo cercando disperatamente qualcosa da dire.
Il primo a parlare fu lui. «Beh».
«Beh», risposi io.
«Sono rimasto in contatto con Bette per via dell'Efexor», mi spiegò. «Te lo dico nel caso te lo chiedessi».
«Non me lo chiedevo, ma sei stato carino a volerlo specificare».
Era una conversazione abbastanza stupida. Due sconosciuti farciti di imbarazzo. La cosa, però, mi impensieriva relativamente. Con quello che avevo visto il giorno prima mi importava poco.
«Beh», dissi io per la seconda volta, «visto che comunque non siamo amici non ha molto senso che rimaniamo qui a parlare, penso che chiamerò un taxi».
Feci per andarmene, ma la sua mano si insinuò nella mia e porco demonio ladro giuro che fu come se non fosse passato nemmeno un giorno. Come se fossimo ancora l'Amante e la Puttanella di un anno e mezzo prima. La sua pelle era ancora morbida e calda, il suo profumo era lo stesso. Come se non fosse successo il finimondo, come se nulla fosse.
Mi fece incazzare da morire.
«Léo, aspetta un secondo».
Mi voltai verso di lui e quasi strappai via la mano dalla sua, incrociando le braccia al petto e guardandolo con quella che speravo fosse un'aria di sfida. «Dimmi», sibilai a denti stretti.
«No, io...», balbettò. «Non so. Io...».
«“Non so io” cosa?».
«È che mi manchi».
Quella frase mi fece imbestialire ancora di più. «Ah, adesso ti manco? Adesso ti manco, stronzo?».
Abbassò lo sguardo, un po' colpevole, con quella faccina da cucciolo di foca che mi aveva fatta perdere la testa. Le sue labbra erano invitanti come non mai, avrei voluto morderle fino a farlo urlare.
«Sì, lo so che sono un po' fuori tempo massimo», rispose seccamente. «Che posso dire? Mi manchi per davvero. Ti penso spesso e ora volevo solamente dirtelo, non pretendo certo una risposta da te».
«Io ti amo, piccolo inglese bastardo, ma non ho più bisogno di te! Non mi servi!».
Calò un certo silenzio, a parte le auto nella rotonda davanti all'ospedale. Non mi importava più di quello che poteva pensare di me, ero arrabbiata e lo avrei spinto sotto una delle ambulanze molto volentieri, tanto era a un tiro di schioppo dal pronto soccorso. Non mi importava nemmeno di averglielo detto. Mi rendo conto che non era una dichiarazione molto romantica e anche che era la prima volta che glielo dicevo. Mi era sgorgato dalle labbra come per natura, come fosse nella mia indole aprirmi in quel modo.
Lui mi fissò per un po'. Per abbellire questa storia potrei raccontare che il suo sguardo era sorpreso, meravigliato, e che abbia risposto con un “Ti amo anche io!”. Invece non disse niente.
«Che cos'hai da guardare?», sbottai. «Vai via!».
George non si mosse, le mani in tasca e i capelli tutti agitati dal vento leggero.
«Sei sordo? La fermata dell'autobus è laggiù!».
A quel punto scattò in avanti e mi baciò.
Mi ritrovai a ricambiare quel bacio rabbioso, un po' crudele, pieno di denti e di lingua, un bacio che ne chiedeva ancora, ancora, ancora, sempre di più. Un bacio famelico e desideroso, arrabbiato, pieno di tutto il rancore trattenuto e di tutta la voglia che ci agitava dentro. Con le mani mi stingeva a sé come se volesse schiacciare i nostri cuori, le dita che mi trattenevano per impedirmi di andarmene – come se potessi volerlo fare. Ma ero io a condurre il gioco, questa volta dovevo avere io il controllo, non avrei accettato nulla di diverso, nulla di meno.
Non ricordo come abbiamo fatto ad arrivare a casa mia, ma mi ricordo bene della sensazione di ghiaccio sulla pelle quando la mia schiena nuda si scontrò con la parete. E mi ricordo del caldo soffocante, del sudore, della saliva e dei morsi sul mio collo, della sua voce che all'apice del godimento proprio non riusciva a parlare in francese e mi ricordo di me, che gli avrei impedito di allontanarsi di nuovo.
Perché la differenza rispetto alle altre volte era che, se fosse andata male, sapevo che sarei sopravvissuta. Sapevo che la vita è bella e che vale davvero la pena di essere assaporata, con o senza George a farmi da rete di sicurezza. Stavolta avrei potuto dargli tutto il mio cuore perché non avevo più paura che potesse farlo a pezzi.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: WhiteWitch