II
The
Reapers
Prese una deviazione. Conosceva bene il
posto, sapeva che se fosse passata per quella fitta rete di vicoli
avrebbe
battuto sul tempo gran parte delle persone che invece cercavano di
raggiungere
la piazza per strada.
Il rumore dei suoi passi risuonò in quell’ambiente desolato e maleodorante, sguazzò in diverse pozzanghere mentre correva. Fece una smorfia quando i suoi jeans già malridotti si sporcarono ulteriormente a causa dell’acqua.
Non c’era nessuno in giro. A quanto pare era stata l’unica ad avere quell’idea. L’unica abbastanza stupida.
I vicoli erano praticamente la casa dei Mietitori. Entrare in un vicolo equivaleva a farsi sparare addosso, o a farsi rapinare. La gente se ne teneva alla larga, semplicemente.
In poche parole, lei non avrebbe dovuto trovarsi lì. Ma doveva correre il rischio. Morire di fame sarebbe sicuramente stato peggio che morire a causa di un proiettile. Era la prima vera occasione che aveva per procurarsi un po’ di cibo e non essere costretta a mangiare quelle poche schifezze che lei e Tara riuscivano a racimolare, e doveva lasciarsela scappare? Quel vicolo era solo una scorciatoia, né più né meno.
E comunque, nessun luogo era davvero sicuro, oramai, ad Empire. Ogni giorno quando ci si svegliava al mattino si ringraziava in silenzio il cielo per non essere stati accoltellati nel sonno.
Insomma, era la prima volta che entrava in un vicolo, non avrebbe mica davvero avuto così tanta sfortuna da incontrare proprio i Mietitori, no?
E per finire, lei non era una persona come le altre. Forse avrebbe avuto una piccola possibilità di sopravvivenza, in caso di incontri spiacevoli. Forse.
Quel pensiero le infuse un po’ più di coraggio. Sarebbe arrivata ad Archer Square in tempo zero. Inoltre, quel vicolo semi buio le infondeva una strana sensazione. Se ne avesse parlato con qualcuno probabilmente avrebbe fatto la figura della psicopatica, però sentiva che quel posto le infondeva... tranquillità. Benessere. Non come le strade luminose e in bella vista, in quelle si sentiva infastidita, in bella mostra, nonché esausta. In quel momento, invece, si sentiva piena zeppa di energie.
Affrettò il passo. Entrò in uno spiazzale in cui diverse automobili erano parcheggiate. Calcolò mentalmente la propria posizione, e dedusse di essere quasi a destinazione. Inspirò profondamente. C’era quasi, questione di attimi, di pochi metri, nessuno l’aveva vista, nessuno l’avrebbe...
Urla. Rachel sentì il cuore schizzarle in gola e si fermò di scatto, pietrificata. Alzò lo sguardo, cercò in ogni direzione, con il battito cardiaco alle stelle, un po’ per via della corsa, un po’ per via dell’ansia che quelle grida avevano trasmesso in lei. Non erano umane. Qualunque creatura avesse sbraitato in quel modo, di umano possedeva solo il ricordo.
Poi li vide. Si sentì morire dentro. Due uomini incappucciati al fondo dello spiazzale, vestiti di rosso dalla testa ai piedi, entrambi armati di fucili. Agitavano le armi, gridavano e saltavano sul posto come delle scimmie impazzite. Riconobbe quelle grida, riconobbe quelle giacche rosso sangue, riconobbe i loro mitra. Mietitori. La gang di tossici dipendenti che dopo i primi tumulti di Empire City aveva preso il controllo del Neon. Fu la prima volta che li incontrò di persona. Fu un attimo solo, ma bastò a segnare la sua esistenza. Quelle grida disumane, quei loro aspetti minacciosi, quei volti impossibili da scorgere sotto i cappucci, li avrebbe rivisti nei suoi incubi peggiori, ne era certa.
Le gambe le diventarono di burro. Si sentì impotente di fronte a loro. Avrebbe dovuto scappare, sparire da lì il prima possibile, correre fino a quando i polmoni non le sarebbero esplosi nella gabbia toracica. Ma non ci riusciva. Forse per la paura, forse per lo shock.
Finché
quelli non le puntarono
contro le armi. Quando le prime esplosioni si udirono e le prime
fiammate
illuminarono le bocche da fuoco, una voce nella testa di Rachel
impazzì. Una
sola parola disse: corri.
E Rachel corse. I proiettili fischiarono accanto a lei, la ragazza gridò di terrore. Vide un’auto parcheggiata li vicino. Non esitò un solo istante. Si gettò a terra, proprio dietro di lei. I proiettili si schiantarono brutali contro la carrozzeria arrugginita del veicolo. Il rumore che si generò ricordò parecchio quello della grandine, solo dieci volte più intenso.
La corvina si rannicchiò a terra e si tappò le orecchie, gridando a squarciagola per la paura. Quel rumore le stava facendo esplodere la testa.
Scorci di immagini della sua vita popolarono la sua mente, una dietro l’altra. Rivisse tutti i momenti più importanti della sua vita. Sua madre, il collegio, i suoi amici.
La sua vita non era mai stata un granché, a conti fatti. E ora sarebbe morta nella maniera più stupida che si potesse conoscere. Un’idiota, ecco cos’era. Altro che poteri, altro che coraggio, quei Mietitori le avrebbero fatto la pelle, era solo questione di tempo. Almeno la sua esistenza fatta di delusioni finalmente sarebbe finita. Forse era un bene. Anzi, era senz’altro un bene.
Chiuse gli occhi e attese. Attese che i proiettili la raggiungessero, o che uno dei Mietitori aggirasse la macchina e la catturasse. Inspirò profondamente e si preparò. E fu solo in quel momento che realizzò che... che gli spari erano cessati.
Ci volle tutta la sua forza di volontà per permetterle di sollevare di un centimetro la testa e guardare cosa fosse accaduto ai due Mietitori.
Sgranò gli occhi. Una figura vestita di nero era comparsa praticamente all’improvviso, e stava combattendo contro i due criminali rossi. Sferrava calci e pugni con estrema ferocia, senza mai sbagliare un colpo. Un Mietitore cercò di colpirlo con il calcio dell’arma, ma quello bloccò il colpo e lo disarmò, per poi colpirlo lui stesso con l’arma allo stomaco, piegandolo in due. L’altro Mietitore aprì il fuoco, ma l’individuo fu più veloce e lo disarcionò, per poi colpire anche lui con un calcio.
Gettò il fucile a terra ed estrasse un’ asta telescopica dalla cintura, poi colpì entrambi i criminali, il primo sotto il mento, ribaltandolo, il secondo in pieno volto, scaraventando anche lui a terra. I Mietitori cercarono ancora di rialzarsi, ma l’individuo li colpì ancora con estrema violenza, lasciandoli a terra.
Rachel lo guardò atterrita. Si era rimessa in piedi senza nemmeno rendersene conto, mentre guardava quel tizio. SI allontanò lentamente dalla macchina e lo osservò con attenzione. Era girato di spalle, ma non riconobbe comunque la sua uniforme. Di sicuro non era un Mietitore, ma non era neanche un poliziotto.
L’uomo si voltò all’improvviso verso di lei, facendola trasalire. Quando lo vide meglio, rimase in parte meravigliata e in parte intimorita dal suo aspetto.
La tenuta da combattimento nera era aderente, rendeva ben visibile il suo fisico ben definito. Aveva degli stivali alti fino a metà stinco e guanti, ginocchiere e copri avambracci grigi metallizzati. Diverse righe rosse scendevano lungo le placche grigie sulle cosce e lungo le spalle fino ai gomiti, una grande X del medesimo colore era invece ricamata sul petto.
Ma il volto era la parte più sorprendente. Era coperto da pittura facciale, i colori bianco e nero combinati sulla sua pelle gli davano le sembianze di un teschio. I capelli erano scompigliati e neri opachi come il carbone, gli occhi blu emanavano freddezza a dismisura.
I
due si guardarono per un
istante. Rachel per un attimo temette che avrebbe attaccato anche lei,
quando
l’espressione di quello mutò radicalmente
all’improvviso, facendosi
preoccupata. Indicò verso la sua direzione e
gridò: «Alle
tue spalle!»
I nervi di Rachel saltarono
all’improvviso
e la ragazza si voltò.
Altre grida provennero dal vicolo
indicato dall’uomo. Un altro individuo incappucciato
girò l’angolo e corse
verso di loro, sbraitando come un pazzo e brandendo due bottiglie
molotov
accese, una per mano.
«Quello è un
kamikaze!» esclamò ancora
l’uomo vestito di nero. «Allontanati!»
Rachel gridò. Cercò di nuovo
di
scappare, ma perse l’equilibrio e ruzzolò a terra.
Il Mietitore era sempre più
vicino, il cappuccio illuminato dalla luce degli stracci infuocati
delle
bottiglie e le sue grida gli davano un’aria quasi indemoniata.
«Alzati, presto!»
gridò l’uomo
truccato cominciando a correre verso di lei.
Le grida la fecero voltare. Il Mietitore
correva ad una velocità sorprendente, non sarebbe mai
riuscita a scappare da
lui in tempo.
Fu a pochi metri da lei. Gridò
più forte
e sollevò entrambe le molotov, pronto a farsi saltare in
aria solo per
ucciderla. Rachel urlò di nuovo e sollevò una
mano. Agì d’istinto. Chiuse gli
occhi. Sentì una forte scossa elettrica percorrerle il
corpo, per poi
raggiungere la mano e disperdersi nel palmo.
Udì un altro grido disumano, seguito da
un’esplosione. Il calore la raggiunse. Pensò di
morire.
Poi riaprì lentamente gli occhi. Rivide
lo spiazzale, le auto parcheggiate, i vicoli. Abbassò lo
sguardo, vide il suo
corpo, realizzò di essere ancora tutta intera. Aveva il
respiro pesante, il
battito cardiaco accelerato. Poi alzò di nuovo lo sguardo e
strabuzzò gli
occhi. Dove poco prima c’era il mietitore, ora
c’era solo più un corpo
carbonizzato, circondato da diverse fiamme.
Rachel rimase interdetta. Spostò ancora
lo sguardo e vide la sua mano ancora sollevata.
«N-No...» mormorò, sempre più
incredula. «Non... non può essere...»
Il suo respiro si fece ancora più
affannato. Abbassò lentamente la mano, senza staccare gli
occhi da quel
cadavere di Mietitore. Non riusciva più a pensare.
«Mio dio...» disse qualcuno
alle sue
spalle. Rachel si girò, vide l’uomo truccato
ancora in piedi dietro di lei, la
guardava ancora più atterrito. «La... la tua
mano...»
I loro sguardi si incrociarono. Rachel
non sapeva cosa dire. Dalla sua bocca non usciva altro che aria.
Altre urla provenienti in lontananza
costrinsero entrambi a spostare lo sguardo. Da altri vicoli giunsero
altri
Mietitori, altri kamikaze, anche in cima a palazzi cominciarono a
sbucarne
fuori come funghi. Probabilmente quella era una zona calda.
Nel giro di pochi attimi ne arrivarono
almeno una dozzina. La ragazza pietrificò di nuovo.
Finalmente riuscì a
sbloccare il proprio cervello e si ricordò come provare
paura.
«Merda...» rantolò
l’uomo truccato, per
poi voltarsi verso di lei e fissarla quanto più severo
possibile in volto.
«Corri.»
Rachel non se lo fece ripetere.
***
Andarono avanti fino allo stremo. Fino a
quando le gambe avrebbero retto, fino a quando i polmoni non sarebbero
più
riusciti a pompare aria.
Per tutto il tempo, Rachel non fece
altro che seguire l’uomo. Non era in grado né
fisicamente né psicologicamente
di rimanere da sola in quel momento, confidava che il suo precedente
salvatore
potesse ancora proteggerla, almeno durante la loro fuga dai Mietitori.
Attraversarono così tanti veicoli che
finì col perdere l’orientamento.
Calcolò, comunque, che oramai Archer Square
fosse lontana anni luce. Quando, alla fine, furono sicuri di averli
seminati,
si fermarono per riprendere fiato.
Rachel non aveva mai corso così tanto,
sentiva i polmoni bruciare, la milza dolerle terribilmente e le gambe
in
procinto di cederle. Ogni boccata d’aria le sembrava quasi
vitale. Si appoggiò
ad un muro con una mano e si piegò, per riprendere fiato.
Quando abbassò lo
sguardo, si rese conto di avere il palmo illuminato da un bagliore
nero.
Sussultò, poi scrollò la mano, pregando in
silenzio che se ne andasse. Quando
la luce opaca svanì, la ragazza tirò un sospiro
di sollievo.
Accanto a lei, l’uomo non sembrava messo
tanto meglio. Anche lui era piegato, anche lui cercava di riprendere
fiato. Il
sudore che gli imperlava la fronte aveva perfino cancellato alcune
tracce di
trucco. Era molto pallido, anche senza la pittura facciale bianca che
gli
copriva la pelle.
Fu in quel momento, guardandolo con più
attenzione e da più vicino, che si rese conto che
quell’uomo... non era affatto
un uomo. Era un ragazzo, come lei, come Tara. Potevano perfino avere la
stessa
età.
Quello sembrò rendersi conto dello
sguardo indiscreto di Rachel posato su di lui, e si voltò di
scatto. La ragazza
trasalì, ma non distolse comunque gli occhi. Nessuno dei due
parlò, rimasero
entrambi ad osservarsi e a studiarsi in silenzio. Il volto di lui era
davvero
inquietante. Chiunque fosse il suo truccatore, aveva fatto un ottimo
lavoro.
«Sei... sei una Conduit» disse
infine
lui, raddrizzandosi.
«Una che?» domandò
lei, con voce acuta
per la sorpresa.
«Hai i poteri...»
spiegò quello, con il
fiatone.
«Beh... e-ecco...» Rachel
esitò.
«Sei sopravvissuta
all’esplosione.»
La ragazza sgranò gli occhi.
Osservò
incredula l’interlocutore. Arretrò, come colpita
da uno schiaffo, in parte
intimorita da quelle parole. «E... e tu come lo sai che sono
sopravvissuta?»
«Da cosa pensi derivino
quelli?» ribatté
lui, accennando con il mento alla mano di Rachel, che nel frattempo si
era di
nuovo illuminata.
La ragazza sobbalzò quando se ne rese
conto e di nuovo scrollò la mano, concentrandosi, tentando
di far sparire
quella stramaledetta luce. Sospirò ancora una volta quando
ci riuscì. Era stata
una stupida patentata ad entrare in quel vicolo, incapace
com’era a controllare
i suoi poteri. Non aveva mai avuto una vera chance contro quei
Mietitori.
«Allora?» la incalzò
ancora il ragazzo,
con tono calmo, come se stessero discutendo sulla cosa più
banale di quel
mondo.
«I-Io... io...» Rachel
ammutolì. Osservò
con attenzione gli occhi glaciali del ragazzo, più il suo
volto
raccapricciante. Non sapeva cosa rispondere. Tutti quelli che avevano
visto i
suoi poteri erano scappati via terrorizzati, additandola come un
mostro, un
demone. Lui no. Lui era rimasto, la osservava con attenzione, per nulla
spaventato e anzi, faceva perfino domande a riguardo. E sapeva anche
che lei
era sopravvissuta all’esplosione. Sapeva da dove derivavano i
suoi poteri. Era
la prima volta in assoluto che incontrava qualcuno che forse sapeva
qualcosa,
che forse poteva perfino aiutarla.
«Sì, sono... sono
sopravvissuta.»
Mentre lo disse, le tornò in mente quel
giorno. Quel terribile, fatidico giorno, di a malapena un mese prima.
Lei e i suoi compagni del collegio in
gita nel Centro Storico, a vedere qualche museo di cui nemmeno
ricordava il
nome. Gar e Victor che come al solito si comportavano da buffoni,
divertendo il
gruppo. Richard e Kori, che ovviamente si
tenevano per mano, Jennifer, Jade, Wally e tutti gli altri. Poi un
enorme
boato, la terra che aveva cominciato a tremare, i lampadari che avevano
cominciato ad oscillare e gli oggetti in mostra che cadevano a terra,
in
frantumi. Poi vi era stata una luce azzurra e tutto era stato spazzato
via.
Un attimo prima era lì, a vivere la sua
vita in tutta tranquillità, in una pallosissima gita, un
attimo dopo era in
mezzo ad un enorme cratere, circondata da edifici in fiamme e macerie,
ricoperta di ustioni e con i vestiti a brandelli. Si era rimessa in
piedi e
prima che fosse riuscita a formulare il più basilare dei
pensieri, un
elicottero l’aveva illuminata con un riflettore e un uomo con
un megafono le
aveva sbraitato di allontanarsi da lì, di raggiungere il
ponte che univa il
Centro Storico con il Neon.
Non ricordava di essersi mossa o altro.
Sapeva che poco dopo il ponte era stato distrutto a seguito di altre
esplosioni. Poi si era svegliata in ospedale, una settimana dopo.
Avevano
controllato le sue condizioni ed era uscito fuori che era perfettamente
in
forma. Un po’ ammaccata, ma sana con un pesce.
In un primo momento non ci aveva capito
molto, ma non erano bastate che poche ore per permetterle di scoprire
la
agghiacciante verità. Lei era viva. Era in forma. Migliaia
di persone, inclusi
i suoi amici, incluso il ragazzo che amava, erano morti, per colpa di
un’enorme
esplosione che aveva distrutto mezzo Centro Storico. Un attacco
terroristico,
avevano detto ai notiziari. E lei era sopravvissuta. Nessun dottore si
era
chiesto il perché. Non ne avevano avuto il tempo, a causa
degli avvenimenti
successivi. Forse era appena avvenuto un miracolo, ma per lei non fu
altro che
l’inizio di una maledizione.
E dopo era successo tutto il resto.
Mentre lei era in coma, la città aveva assistito alla sua
stessa distruzione. I
tumulti, la quarantena, l’ascesa dei Mietitori. Un processo
lento ma progressivo.
Il mondo le era letteralmente crollato
addosso. Non solo era rimasta in coma, non solo i suoi amici erano
morti.
L’intera città era morta. E quando aveva scoperto
che Tara si era salvata
dall’esplosione, beh, non aveva proprio fatto salti di gioia.
Si era sentita
come se al danno fosse stata aggiunta la beffa. E lo stesso doveva aver
valso
per la sua attuale coinquilina.
E per finire si era ritrovata quei
poteri. Usciti praticamente dal nulla, senza motivo, senza spiegazioni.
Erano
apparsi fin dal primo giorno in cui si era svegliata. Ne era rimasta
terrorizzata fin dal primo momento. Non era mai riuscita a controllarli
e,
anzi, a volte erano perfino loro a comportarsi in maniera autonoma. Ma
forse,
finalmente, qualcuno avrebbe potuto aiutarla.
«Tutto bene?» chiese il
ragazzo, dopo
diverso tempo.
Rachel drizzò la testa. Sicuramente era
rimasta imbambolata di fronte a lui, in preda a quei tristi ricordi.
Sospirò,
poi annuì. «Sì, sì, sto
bene...» Prese una piccola pausa, per raccogliere le
idee, poi lo guardò. «Come mi hai chiamata, poco
fa’? Con... Cond...»
«Conduit» rispose lui.
«Si chiamano così
le persone come te. Quelle sopravvissute all’esplosione,
quelle con i poteri.»
«V-Vuoi dire che ce ne sono altre? Ci
sono altre persone come me?!» domandò lei, basita.
«Più di quante tu possa
immaginare.»
La corvina dischiuse le labbra. La
notizia la sconvolse. Era convinta che lei fosse l’unica
così, l’unica che era
stata colpita da quella maledizione che erano i suoi poteri,
l’unica
sopravvissuta dell’esplosione. Si era sempre sbagliata.
Pensò a coloro che
dovevano trovarsi nella sua medesima situazione, intrappolati in una
vita con
addosso un fardello troppo grande per loro. E pensò anche a
quelli che invece
dovevano riuscire a padroneggiare i loro poteri con estrema
facilità. Perché
era ovvio che esistevano, a quel punto. «Q-Quindi i miei
poteri... derivano
dall’esplosione?» domandò, titubante.
Il ragazzo annuì ancora.
«Com’è
possibile?!» strillò lei, sempre
più incredula. «Come può un attacco
terroristico aver...»
«Questo non lo so» la
interruppe lui. «Non
so come quell’esplosione possa averti fatto quello che ha
fatto, tantomeno come
tu abbia fatto a sopravvivere. So solo che le persone che sono
sopravvissute
all’esplosione ora hanno dei poteri come te e si chiamano
Conduit.»
«E come fai a sapere queste cose,
allora?»
Al ragazzo scappò un sorriso tirato, poi
spostò lo sguardo e lo indirizzò verso il tetto
di un palazzo. «Non hai la
minima idea di quanti messaggi via radio si scambiano gli agenti
federali
infiltrati in Empire e il governo. A me è bastato solo
tenere le orecchie
aperte. Piuttosto...» Il suo sguardo tornò su di
lei e si fece serio. «Perché
non ti sei difesa da sola, da quei Mietitori?»
Rachel abbassò gli occhi, affranta. Si
guardò le mani e sospirò. «Non... non
sono brava, con i miei poteri. Non riesco
ancora a controllarli bene. Inoltre quella era la prima volta che
incontravo
dei Mietitori, sono rimasta... sconvolta...»
«Mh, capisco. Beh, allora che ci facevi
qui? Lo sai che i vicoli sono pericolosi.»
La ragazza sospirò. «Quella
era una
scorciatoia... volevo andare ad Archer Square per prendere qualche
provvista.
Peccato che ormai saranno finite...»
«Ah, già, le provviste. Mi
spiace che tu
non ce l’abbia fatta.»
Non
sembrava molto sincero, ma Rachel apprezzò
comunque. Sorrise timidamente, poi tornò a guardarlo.
«Beh, poteva andare
peggio. Avrei potuto restare uccisa. Grazie per avermi salvata. Ti sono
debitrice.»
Il
moro ricambiò il sorriso. «È
sempre un piacere per me malmenare i Mietitori.»
«Anche...
anche tu sei un... un Conduit?»
«No, io no»
rispose lui scuotendo la testa. «Sono solo bravo a menare le
mani. E odio i
Mietitori da morire.»
Rachel
annuì, ancora profondamente grata.
Tra i due
calò il silenzio. La ragazza si massaggiò un
braccio, spostando il peso da una
gamba all’altra, imbarazzata. Il ragazzo continuava a
fissarla, non sembrava
per nulla intenzionato a lasciarsi sfuggire dal suo campo visivo la
corvina.
«Beh...»
ricominciò lei, non riuscendo più a sopportare la
situazione. «... se c’è
qualcosa che posso fare per sdebitarmi...»
«A dire il vero
sì...» disse lui, per poi accennare con la testa
alla rete di vicoli accanto a
loro. «Non molto lontano da qui i Mietitori hanno allestito
una specie di base.
Tu hai dei poteri, e non sembrano niente male da come hai steso quel
kamikaze,
poco fa. Potresti aiutarmi a distruggergliela.»
«Cosa?!» La
ragazza rimase ancora una volta senza parole. Aveva chiesto se poteva
sdebitarsi solo per scaramanzia, per dimostrargli che gli era davvero
riconoscente. Di certo non lo fece aspettandosi una risposta
affermativa. Di
certo non aspettandosi una proposta del genere. «Per poco non
ci uccidevano e
adesso tu...»
«Hanno
delle provviste» la interruppe lui, sorridendole complice.
«Non è quello che ti
interessa? Provviste? Beh, loro ce l’hanno. E hai anche detto
di essere in
debito con me. La questione è semplice, tu mi aiuti e ti
sdebiti, in cambio ti puoi
tenere le loro provviste, tanto a me non servono. A me sembra piuttosto
ragionevole.»
Rachel
rimase in silenzio. Una parte di lei era davvero interessata a quelle
provviste, l’altra invece avrebbe voluto scappare via,
tornare a casa e
rintanarsi in camera a piangere. L’idea di quel tizio
rasentava i limiti della
follia. Una come lei non sarebbe mai sopravvissuta se si fosse
imbarcata in
quell’impresa impossibile. «E come potrei aiutarti?
A malapena so usare i miei
poteri, per poco quelli di prima non mi uccidevano, non posso
farcela...»
«Hai detto
che eri sconvolta, per quello non sei riuscita. Ma a me è
sembrato che dopo tu
sia riuscita a controllarli bene.»
Rachel fece
una smorfia. Non riusciva proprio a capire perché quel tipo
fosse così
insistente. Si erano appena incontrati! Cercò di mantenere
la calma, e rispose
in maniera tranquilla: «Ho solo avuto fortuna. Secondo te se
ci riprovassi ci
riuscirei di nuovo?»
«C’è solo
un modo per scoprirlo» insistette ancora lui, per poi
prendersi il mento e
rimuginare. «Mh... vediamo... ecco, colpisci quel
cassonetto» disse, accennando
con il capo ad un cassonetto poco distante da loro.
La ragazza
si mordicchiò l’interno della guancia, osservando
il bersaglio datole. Abbassò
lo sguardo e lo indirizzò verso la propria mano.
Guardò di nuovo il ragazzo e
lui le sorrise, rivolgendole un cenno del capo. «Provaci,
forza.»
Rachel
sospirò.
Al diavolo.
Se proprio
quello non voleva mettersi in testa che lei era un’incapace,
che non sarebbe
mai riuscita ad aiutarlo in quel modo, glielo avrebbe fatto capire.
Puntò il
palmo verso il cassonetto e si concentrò. Inspirò
profondamente, così da
azzerare qualunque tipo di tremolio della mano. Non seppe cosa fare con
esattezza, perciò immaginò semplicemente un
raggio di luce nera partire da quel
palmo e dirigersi esattamente verso il bersaglio. Nulla accadde.
La corvina
sbuffò, irritata. «Ecco, visto?! Niente di
nient...»
Si
interruppe all’improvviso, quando una strana sensazione, ma
neanche troppo
estranea, la colpì. Avvertì di nuovo la scossa
elettrica dentro di lei, la
sentì percorrere tutto il corpo e disperdersi proprio nel
palmo. Un raggio di
luce nero partì da quel punto, sfrecciò come una
saetta in mezzo al vicolo e si
abbatté con precisione millimetrica sul cassonetto,
facendolo saltare di
diversi centimetri da terra.
Rachel
rimase a bocca aperta, incredula. Abbassò lentamente il
braccio.
«Visto? Sei
in gamba» disse il ragazzo, sorridendo compiaciuto.
«Sai fare altro?»
«C-Cosa?»
Rachel esitò. A malapena sapeva come aveva fatto a sparare
quel raggio e lui le
chiedeva se sapeva fare altro?!
Stava per
rispondere con una secca negazione, ma poi si bloccò. Le
tornò in mente un
vecchio aneddoto riguardante lei e le splendide quattro settimane che
aveva
trascorso con i poteri. In effetti, c’era un’altra
cosa che forse sapeva fare, ma le
sembrava una
follia talmente grossa che non era davvero sicura di potergliela dire.
Ma dato
che lui era lì ad osservarla, dato che lei detestava essere
sotto i riflettori
in quel modo e dato anche il fatto che quel tipo era tremendamente
inquietante,
decise di rispondere. Sentendosi quasi stupida, mormorò:
«So... so volare...»
«Cosa?!»
esclamò lui interdetto, sorriso e calma spariti nel nulla
all’improvviso.
Rachel
incassò la testa nelle spalle. Quella era proprio la
reazione che temeva da
lui. «N-Non è così semplice»
si affrettò ad aggiungere. «È successo
solo una
volta, una ventina di giorni fa’, quando... stavo... beh,
litigando con una
persona, e ad un certo punto il mio corpo è stato investito
da una luce nera,
le mie braccia si sono... ecco... trasformate in ali, e mi sono
ritrovata a
levitare da terra. Non è durato molto, non appena me ne sono
resa conto sono
stata assalita dal panico, la luce è scomparsa e sono caduta
a terra. Non mi è
mai più successo dopo, e di sicuro io non ci ho
più riprovato di mia spontanea
volontà...»
«Mh...»
mugugnò lui, ritornando serio. Rachel percepì gli
ingranaggi del suo cervello
mettersi in moto per elaborare qualche diavoleria. Pensò che
l’avrebbe mandata
al diavolo. Sinceramente, lei lo avrebbe fatto. Nessuno sapeva volare,
era
impossibile. Probabilmente quelle ali di cui aveva parlato se le era
sognate.
Quello
invece la sorprese ancora una volta. «Beh... cosa stiamo
aspettando allora?»
disse, dopo quell’attimo di riflessione.
Rachel
dischiuse le labbra. «Che... che intendi dire?»
Lui per
tutta risposta sorrise diabolico. Assomigliò per davvero ad
un teschio, in quel
momento. Fu ancora più inquietante.
«Oh sì,
sarà uno spasso. Forza, seguimi!»