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Autore: kanagawa    15/10/2015    2 recensioni
Lentamente, tutto si sbriciola, pezzo dopo pezzo ....
Ci sono delle mattine in cui mi piacerebbe svegliarmi e ritrovarti accanto, mentre il sole solleva i monti dietro alla livida alba nordica.. La mattina che mi svegliai e non c’eri, compresi che cosa fosse la solitudine. Non ti cercai. Tutto ciò che feci, fu di ritrovare la strada di casa. Perché di quella libertà pura e corrosiva che tu ami tanto, io, non sapevo che farmene.
I giorni di gioia e perdizione, bruciati lungo quel tratto di strada selvaggia, dove non c’era nulla... tempo, linguaggio, umanità; nulla. Il respiro di una natura sferzante e incontaminata che sulla pelle sapeva infliggere carezze terribili, e ad avvolgere ogni cosa, la nebbia.
“Incontriamoci tra dieci anni, Maki. Io ti aspetterò al solito posto.”
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[Edit capitolo 3 e 6]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenji Fujima, Shinichi Maki
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Light from a dead star'
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Il rumore dell’acqua gli avvolgeva le orecchie, nella cortina di vapore che stanziava tutto lo spogliatoio. 
Non c’era già più nessuno, quando Maki uscì dalla doccia e andò ad accomodarsi di fronte al proprio armadietto. D’abitudine, estrasse il cellulare dalla borsa e lo riaccese. Un solo messaggio lampeggiava sul display. Brevemente, lo lesse, e scattò in piedi. Si calò addosso alla meglio maglietta e camicia, sperando di non esserseli messi all’incontrario, la cravatta in tasca, prendendo già la direzione della porta. Tornò indietro, ricordandosi del cellulare lasciato sulla panchina, e in fretta uscì nuovamente.
In corridoio, mentre correva via a gran carriera, incrociò il passo di Nobunaga Kyota, attardato a oltranza e momentaneamente perplesso, ignorando di volata il suo «A domani, senpai.»
Il ragazzo rimase a lungo lì, in piedi, gli occhi un po’ inquieti, a scrutare la direzione della porta abbattuta che ancora cigolava dopo il suo passaggio...
                                                                                                                                                                                          
 
 
 
 Vägen hem - 3872,627 miles
 

"Liberarsi di qualsiasi preoccupazione d'arte e di forma.
Ritrovare il contatto diretto, senza intermediari, cioè l'innocenza. 
Dimenticare l'arte, a questo punto, significa dimenticare se stessi
.
Rinunciare a se stessi non per virtù.
Accettare, al contrario, il proprio inferno."
[Camus, Il primo uomo, appendice]

 

 
Fujima era andato a vivere con un parente che possedeva una villa poco fuori città. Lo zio, un uomo facoltoso e cinico, con cui suo padre non aveva più parlato per anni, era spesso via per lavoro, e le rare volte in cui si ritrovavano a cena insieme, con tutta la famiglia presente, non sprecava mai l’occasione di esprimere la propria “preoccupazione” per lui. Dalla posizione con cui si sedeva, ai gomiti sul tavolo, ogni stronzata bon ton era una scusa buona per inculcargli un po’ di quell’educazione poco ricevuta... Poiché lui era un Fujima.
A ogni bacchettata di petulanza, sentiva una rabbia crescente dentro di sé, ridestarsi con ondate sempre più furenti...
 
Fu in quel periodo, che Maki cominciò a dare segni di instabilità.
Quei caparbi incontri mattutini erano terminati con il cambio di residenza di Fujima, ora costretto a venire a scuola scortato dall’autista; e certo che in circostanze normali, due ragazzi della loro età avrebbero finito sì col perdere i contatti lungo la strada, come era naturale che accadesse: questo, almeno in teoria...
In uno di quei pomeriggi, Maki ricevette il primo messaggio da Fujima.
Capitava raramente, ma appena trovavano cinque minuti liberi tra scuola e basket, finivano per cercarsi a vicenda. A volte se ne andavano in giro allegri per Kanagawa, incuranti dei molti sguardi perplessi, o avversi, che incrociavano sulla strada; e quegli avvistamenti erano diventati ormai una sorta di leggenda metropolitana... Li si trovava da qualche parte lungo l’argine frangionde, verso il tramonto, come due vagabondi a camminare, a ridersela o a spintonarsi, quando non si picchiavano. Le loro siluette si allungavano nel rossore della sera, e una strana malinconia risuonava nelle sirene delle navi al largo...
Era molto difficile, molto complicato.
Avevano entrambi una cattiva influenza sull’altro, e si vedeva...
Si attraevano e si respingevano, un’intesa increspata di litigi continui, furiosi. Incapaci di avvicinarsi del tutto, e tuttavia, impossibilitati a stare lontani l’uno dall’altro... Due poli magnetici opposti in costante e vorticante inseguimento. La medesima cosa avveniva sul campo di basket: questo, fin dalla prima volta che si erano incrociati, l’avevano capito. Inscenavano scontri di potere e personalità che attraevano il pubblico, e per loro era solo un gioco, dove non c’erano limiti di morale e mezze misure, come se ad entrambi non importasse di infrangere il corpo dell’altro, di fargli del male; di potersi sfiorare, collidere... distruggersi.

 
In quel periodo Fujima veniva spesso a trovarlo a casa, attardandosi davanti alla tv a guardare le partite registrate dell’NBA e farsi uno spuntino ozioso che la mamma di Maki preparava, tra quattro chiacchiere di nessuna importanza, prima di addormentarsi... Fuori casa. E le sfuriate del mattino dopo, perché non aveva chiesto il permesso e non aveva neanche telefonato, erano ormai diventate all’ordine del giorno, e con eguale consuetudine le ignorava.
Tutto questo, Maki non lo sapeva.
Una sera lo aveva accompagnato e in quell’unica occasione aveva visto casa sua, rimanendovi sbalordito. «Accidenti, che catapecchia... Quanti ettari sono?» Fischiò sarcastico, in piedi davanti all’enorme villa occidentale settecentesca con giardino a perdita d’occhio. «Mhh, parecchi...» Borbottò evasivamente, Fujima, le iridi brumose e indifferenti, mentre varcava la cancellata.
«Signorino, non si perda, mi raccomando.» Maki gli sorrise pungente e anche un po’ bonario, prima di congedarsi, baciandogli furtivamente la mano ed essere preso a calci di conseguenza.
Incupito e silenzioso, Fujima si avviò verso l’ingresso della casa principale; quando la sagoma di Maki non fu più nel suo raggio visivo, aveva cambiato repentinamente direzione, prendendo la stradina dietro alle siepi per il cancello posteriore.
… Anche quella notte, dormì fuori casa.
 
 
Sotto il getto del rubinetto, la mente distratta dall’infrangersi dell’acqua ghiacciata sulla testa, Fujima avvertì i passi di qualcuno alle spalle.
«Dovresti stare attento.»
Si levò bruscamente, un po’ frastornato. Il profilo uggioso di Hanagata faceva capolino, riflesso nello specchio antistante. «Di che parli?» Con dispiacere abbandonava il refrigerio fugace, per asciugarsi presto il viso. Il compagno parve tentennare, ma poi si fece coraggio e ricomponeva il fiato. «Quello là… Non fa per te.»
«Cosa??» Fu più che altro un pensiero espresso ad alta voce. Fujima lo squadrò obliquo, vedendolo sospirare spazientito, con una punta di quasi biasimo. «Dico solo che non dovresti socializzare con il nemico, tutto qua!»
… Ecco, il punto.
A quanto pare il suo amico era un attento osservatore, nonostante l’apparenza discreta e distaccata; per quale motivo, poi, avesse sentito il bisogno di sollevare tanta polemica, non lo capiva proprio in quel momento... L’unica cosa che gli pervenne fu la propria scintilla di irritazione e quella vena pulsante sulle tempie, mentre replicava un tagliente «Fatti gli affari tuoi.»
Era stato solo un piccolo episodio, mai più ripetuto. Nel giro di un mese preciso, Fujima divenne il capitano dello Shoyo, e Toru Hanagata era il suo vice... Solo a parecchi anni di distanza, ritornandoci sopra, avrebbe compreso le ragioni del suo strano comportamento, quel giorno.  
 
 


E come da programma, alla fine del secondo anno, Fujima avrebbe dovuto prendere il posto dell’attuale capitano della squadra di basket, in congedo per il diploma. Non ci sarebbe stato ostacolo a far sì che la sua personalità già acclamata imperversasse sullo Shoyo, sennonché... Poco prima della fine del secondo anno, aveva ricevuto una brutta sospensione*. Motivo? “Attività lavorativa extrascolastica retribuita non conforme al regolamento, poiché studente e minorenne.” Recitavano le quattro righe di telegrafica accusa sulla lettera bollata Shoyo. Lo Shoyo era una scuola molto seria, una scuola di quel genere.
Era stato sorpreso a trasportare un divano imballato sulle scale di un immobile appena ristrutturato. E questo è quanto. Naturalmente, alla villa si era scatenato subito un putiferio; la padrona di casa, per il dispiacere e la vergogna, non aveva cenato per quell’intera settimana in cui il reietto era rimasto ai domiciliari sotto il suo naso; e lo zio... aveva smesso definitivamente di parlargli. Non che gli dispiacesse tutto questo... Ogni notte, Fujima scavalcava la finestra della stanza per sgattaiolare via furtivamente dalla sua prigione dorata; dove andasse, nessuno sapeva... Forse, si era trovato un altro lavoro...
«Ma perché, ti serve denaro?» Maki lo riprese un po’ scettico, scrutandolo dalla testa ai piedi. In decisamente nessuna piega del suo nobile profilo, poteva suggerire una persona economicamente depressa... «No, ma voglio rendermi indipendente al più presto.» Rispose con un tono così serio che Maki fece fatica a credere, ma si trattenendo dall’approfondire altre osservazioni, al momento. «Scusa, ma mi sembra una cosa stupida, compromettere i tuoi studi in un momento così delicato...»
«A me non interessa fare il capitano, voglio solo giocare a basket!» Fece Fujima, mentre compiva un salto leggiadro in avanti, come per scavalcare abissi immaginari. E si voltò con la medesima impercettibile grazia, puntandogli un dito contro. «E un giorno ti batterò! Ricordatelo!»
Maki sbuffò, strafottente e risollevato. «Sì, continua a pensarlo!»
Sotto il cavalcavia, il passaggio di un treno faceva tremare le transenne arrugginite... Il mondo ancora stabile sotto i piedi e il sorriso che scorreva libero sui volti dei due ragazzi; nulla di tutto ciò, tra pochi attimi, sarebbe più tornato...
 
 
«Sono molto deluso dal tuo comportamento, Kenji. Le attività che scegli di svolgere non si addicono a un Fujima. Ma voglio darti una possibilità, perché sei mio nipote... Se vuoi continuare a giocare a pallacanestro, sei tenuto a farlo in un’università rispettabile e non altrimenti. In caso contrario... Vedi, io sto invecchiando e non ho figli maschi, per cui vorrei che potessi assumere al più presto l’attività di famiglia, come tuo padre avrebbe dovuto fare al suo tempo.»
Se ne stava seduto sulla veranda, con un bicchiere di whisky in mano che aveva continuato a scuotere e scrutare come ipnotizzato, mentre gli faceva quella lunga proposta...
....... E infine, era stato intrappolato.
 
 
※※
 
 
Si può dire di non avere scelte, a volte... Ma non era vero.
Una scelta ce l’aveva. Vincere.
 
L’ultima stagione, l’ultima occasione per dimostrare di essere qualcuno. Benché, nella sua testa, l’accezione di questo “qualcuno” rimaneva ancora molto confusa... Da due minuti e mezzo, l’intero stadio gridava un solo nome. Il frastuono della tempesta sonora ne spezzava le sillabe, per ricomporle stridule e vacillanti nelle sue orecchie... Fu.Ji.Ma.
“Megalomane esaltato…” Si schernì divertito, rigirandosi tra le mani il fatidico pallone rosso. Chiuse gli occhi, e da quel momento in poi, ci fu solo buio.
 
Si chiese come mai non se ne fosse reso conto in tempo, prima che ... Tutto quanto, precipitasse.
Probabilmente, a partire dal momento stesso in cui aveva accettato di sottostare ai loschi piani di quell’individuo che era suo zio, qualcosa aveva già cominciato a scricchiolare... Doveva riconoscerglielo, uomo astuto.
60/62.
Fine dei giochi.
 
E ora, cosa farai? Lascerai che ti prendano, senza far nulla?
 
Non aveva vinto il campionato, non aveva nemmeno avuto l’occasione di esservi ammesso. Scaraventato a terra, ancora prima di poter spiccare il volo, Fujima aveva perso la sua battaglia. Repentinamente, quella libertà agognata gli era stata sottratta.
Versarci sopra delle lacrime, era stato solo fortuito e molto seccante ...
 
 
※※
 
 
“Cosa porteresti con te nella valigia per andare sulla luna, Kenji?”
La testolina bruna recava ancora qualche ciuffo biondo, luce dell’infanzia in via d’estinzione, mentre scrutava in punta di naso il grande disco lattescente galleggiare nel telescopio. Staccandosi per un breve istante, andò a incontrare lo sguardo del padre in attesa, una sigaretta tra le fini dita; sembrò tentennare seriamente... Il respiro rapito dal gelo delle alture, gli occhi si facevano lontani e opalescenti, pur non avendo abbandonato ancora il candore interrogativo dinanzi ai suoi passi. “Non lo so.. Un radioscopio... Credo. Per ascoltare i suoni della terra.”
Lo ascoltò e gli sembrò tutto ad un tratto così risoluto, seppure non capisse ancora le reali funzioni di un -radiotelescopio-, che ricordava di averglielo mostrato solo una volta, quando lo aveva portato con sé al lavoro... “Però ci andiamo insieme, vero, papà?” L’uomo si destò dal fugace stupore, solo per porvi al posto un’ennesima espressione interdetta...  Ma il sorriso affiorava nuovamente, dopo quel lungo attimo di esitazione, rispose al figlio. “...Può darsi.”
L’indomani, i bagagli in mano, avrebbero preso il volo diretto in Giappone... Di sola andata, per quella che sarebbe stata l’ultima tappa del loro viaggio insieme.
 
 
I suoi occhi ora non scrutavano più le stelle, al loro posto ritrovava solo abbaglianti riflettori, mentre si faceva divorare dalla fama e dalla vanità. Da quando, l’aria aveva cominciato a mancargli in quella città? ...Nel momento stesso in cui aveva perduto la partita più importante della sua vita, stranamente, si era anche sentito più leggero... E solo allora, si ricordò del biglietto aereo mai usato che ancora custodiva tra i suoi vecchi calzini da bambino.
 
Vivi solo per te stesso.” Le ultime parole che il padre gli rivolse, prima di lasciare questo piccolo e urlante mondo, tutt’a un tratto, ripresero a bruciare vivide dentro di sé...
 
 

 
La cameriera aveva bussato tante volte alla porta, ma lui probabilmente non l’aveva sentito. «Gradirebbe del tè, signorino?» Si azzardò infine a intrufolare un’occhiata veloce, almeno per accertarsi che fosse in stanza, e lo vide in piedi davanti a un armadio vuoto, completamente assorto ad osservarne l’ignoto contenuto. Sopra la trapunta, gli indumenti rigettati fuori, nella furia di un cambio di guardaroba fuori stagione.
Lo chiamò ancora due volte, prima che lui si risvegliasse dalla trance profonda, volgendole uno sguardo indefinito e distante... «Più tardi, grazie.»
 
Una valigia non andrebbe mai fatta in fretta e furia; questo, almeno, era stato da sempre il suo pensiero...
 
 
 
 
Quel ginocchio avrebbe continuato a tremare in un moto di saccente nervosismo, sotto il tavolino del locale, mentre ascoltava il suo sforzo di mettere insieme una compassionevole seppure sconclusionata spiegazione... «La pianti di fumare?!» Il ritmo si spezzò con una nota acuta, quando una mano venne sbattuta istericamente accanto al posacenere. «E poi scusa, cos’è ‘sta storia che vuoi chiudere con il basket??»
Fujima si leccò il labbro inferiore, ma si tenne saldamente la cicca incriminante tra le dita. Chissà come mai riusciva a tenersi sempre quel cipiglio di aristocrazia, nonostante l’indecenza di una posa così poco ortodossa... «Ho degli agganci nel campo del commercio, alcuni vecchi conoscenti di mio padre... E mi hanno offerto un lavoro di intermediario in America Latina, sai, caffè o roba simile...» Ignorò elegantemente le due domande precedenti di Maki, continuando il monologo, il volto acceso dalle fiamme del tramonto che si riversava sulla vetrata appannata. Aveva nevicato da breve, e quella poca luce era bastata a incendiare il terso cielo invernale, una sera di fine febbraio; i fiori di ciliegio, quell’anno, dovevano proprio aspettare...
Roba simile...” Maki sperò di non aver frainteso nulla di fraintendibile. Le dita incrociate davanti alla bocca, aveva puntellato i gomiti sul tavolo, per meglio cogliere e analizzare le sue scapestrate rivelazioni. «Ti stai cacciando in qualche brutto guaio?» Non fu esattamente una domanda. Fujima alzò le mani, veloce a discolparsi. «Tranquillo! Mio padre era una persona molto giudiziosa, nonostante i suoi problemi... Niente traffici illegali, si intende!»
Esalò un lungo e cinico sospiro, e gli strappò inavvertitamente la mezza sigaretta dalle mani. «Dammi qua, sono troppo nervoso...» Ma già alle prime boccate, il fumo gli si era strozzato in gola facendolo tossire. L’amico sbuffò divertito, riprendendosi il mozzicone e se lo ricacciò incurante in bocca. «Sono contento che ti sia piaciuto.» «Sta’ zitto!» Maki lo guardò di sottecchi, tirando su col naso, e solo brevemente pensò all’intimità di quel gesto scambiato tra di loro.
... Lo trovò stupido.
«Quando parti?»
«Tra un mese.»
Lo stava perdendo.
 
... Questo pensiero passeggero, per un secondo di svista, gli sfrecciò davanti agli occhi, come una stella cadente che non ebbe tempo di cogliere, era scomparso all’orizzonte... Maki sorrise nuovamente, scompigliandogli con affetto i soffici capelli castani. «Spero avrai abbastanza fegato per salutarmi!»
 
Di fatto, a quel tempo, nemmeno per un attimo aveva pensato di fermarlo. Sarebbe stupido pensarlo, perché loro erano amici, in tutte le accezioni in cui si poteva concepire un’amicizia come la loro; un po’ strana, forse sbagliata. E come amico, poteva solo augurargli tutto il bene del mondo, senza tenere nulla per sé, né gelosie né egoismi... Così era stata, finché...
 
Io riparto tra una settimana...
Sembrava uno scherzo, una sorta di de-javù, ritrovarsi nuovamente nella medesima situazione. Solo che, ora... Molte cose erano cambiate.
Non erano più due adolescenti, e probabilmente, non avrebbero più reagito allo stesso modo. Ora era più restio ad accogliere i segnali del Fato -quando questi gli passavano lascivi sotto il naso, sporgendosi fino a toccare i suoi sensi assopiti-, più cinico... Seduto in cucina, all’ora in cui le ombre delle cose si allungavano, Maki osservava un punto imprecisato davanti a sé. Noriko era dai suoi genitori, non sarebbe tornata prima di due giorni.
In quel modesto appartamento, dopo tanto tempo, era solo.
... Se ti và ...
Razza di idiota ... Se lo diceva più che altro da solo, a se stesso. E provava rabbia, indignazione, per quelle parole frivole e prive di peso pronunciate da colui che una volta era stato il suo migliore amico, come se non sapesse... Come ogni sensazione di leggiadria, questa era presto a scomparire, per lasciarvi al posto solo una striscia di volgare pesantezza... Così, lui si sentiva.
Come era possibile vivere così? Lasciarsi dietro tempeste e detriti, e tornare, anni dopo, come niente fosse, per riprendere dallo stesso punto in cui si era interrotti, quella vita che non era mai stata vissuta... Eppure sapeva che sarebbe bastata una sola parola, una sola e lui...
... Anche stavolta, sarebbe passato come un uragano a spazzare via la sua vita? Nel timore, Maki se lo chiese; ma, probabilmente, quel timore non era abbastanza.
Sollevò il telefono mobile dal tavolo ancora prima di averne percezione, quando compose un numero che conosceva a memoria e fece per chiamare... La segreteria rispose al posto suo, “...dopo il segnale acustico.” Esitò, ma per l’ultima volta solo.
 
«Jin, ho bisogno di un favore.»
 
 

※※※
 
 
Alla fermata in cui passava il treno elettrico direzione Kamakura, quel primo pomeriggio di aprile, il flusso di passeggeri non sfiorava il minimo stagionale da molto tempo.
Aveva già sistemato in carrozza i pochi bagagli, a dispetto del lungo volo intercontinentale che avrebbe dovuto affrontare poche ore dinanzi; un bel viaggetto per andarsi a perdere nella foresta amazzonica... Fantastico.
«Il minimo indispensabile.» Fece lui con aria disinvolta, le braccia riunite alla nuca, a godersi il sole di mezzogiorno, tra un po’ di musica e gli sbuffi di Maki alle orecchie. «Scommetto che tornerai indietro alla prima frignata, signorino!» Lo prese in giro, come al suo solito... no, era lui che non se ne voleva separare, ma del resto, parliamo solo di... «Dimmi un po’, quanto starai via?» Si premurò di domandarglielo, sedendosi al suo fianco, mentre aspettavano la partenza del treno. «Mah, sei o sette mesi... Credo.» Liquidò velocemente lui, aprendo uno spiraglio furtivo nell’occhio per scorgere il broncio che aveva assunto il volto del suo migliore amico. Ridacchiò sotto i baffi, quasi deliziato. «Sarà una cosa veloce, dai! Poi torno...» «Dicono che i boa constrictor siano mortalmente letali.» Fujima ne rise di gusto, stavolta, nonostante il suo mero tentativo di fargli calare l’umore. «Non metterò neanche piede nella giungla! Quante volte te l’ho già detto, Shin’ichi?»
No, non gli era passata ancora... Lo guardò con affetto, affievolendo il sorriso. Aveva insistito tanto per accompagnarlo fino a Narita, ma lui non aveva voluto. Preferiva partire in solitudine, in silenzio, senza nessuno intorno, come se fosse stato uno straniero di passaggio in transito per l’aeroporto... Senza identità. Libero.
E questo, per Maki, era sempre stato difficile da concepire... «Come è andato il test...?» Lo chiese più che altro come diversivo. «...ehm, Chimica?» «Economia aziendale... Bene, comunque.» Lo corresse e si limitò a roteare gli occhi, senza più offendersi, ormai avvezzo al suo eloquente disprezzo per l’elite universitario. «Così, adesso ti butterai a capofitto nel pantano degli esami e emicranie martellanti, Shin’ichi Maki?» Un grugnito di affermazione gli sembrò di captarvi in risposta, piuttosto confuso... Nessuno dei due parlò del basket, quel giorno, sebbene fosse stata una presenza perenne fra loro, a deformare un po’ di quell’atmosfera già pregna di nostalgie e rimorsi... Quel punto, che nessuno dei due era riuscito a porre sulla reciproca passione, sospesa e spezzata improvvisamente, nel fiore degli anni … chi per una ragione e chi per un’altra. Ma così doveva essere, nonostante tutto il dolore che ne rifletteva...
«D’accordo, futuro signor avvocato, per me è arrivata l’ora di levarmi di torno.» Fujima si alzò dalla panchina, stiracchiandosi la schiena indolenzita dall’attesa. «Hai idee molto confuse su cosa sia Economia, o sbaglio?» «Non essere petulante.» Forse quel battibecco avrebbe proseguito per altri 5 minuti buoni, ma Maki ebbe il buon senso di andargli a prendere da bere, avvistando un distributore solitario in mezzo al binario. «Senti, stavo pensando...» Chino ad estrarre il resto, gli fece distrattamente. «...Se non dovesse andarti bene, potresti sempre tornare e rivedere i tuoi piani di studi...» Alle sue spalle, Fujima non aveva risposto. Passarono diversi secondi. «...Che ne pensi?» Allora Maki si voltò, per vedere che fine avesse fatto, ma fu costretto a retrocedere, colto di sorpresa da qualcosa che non ebbe tempo di deglutire... Le mani veloci, sulle sue braccia, e le monete che rotolavano in tutte le direzioni....
Da qualche parte lungo la costa, i primi surfisti solcavano le acque fredde, schiamazzando tra le onde... Il tempo era bello, soffiava un leggero vento.
Si era ritrovato sospinto contro la parete nascosta dall’ombra del distributore automatico, senza difesa a proteggerlo da un bacio prepotente quanto inaspettato. Le gambe incastrate alle sue, in un impeto di convulsa passione che faticò a recepire. Era Fujima...
Pensò a quella volta in cui gli aveva raccontato di aver baciato Kiyomi Kanazawa*, strafiga sospirata da mezzo istituto, e di come se l’era tirato per essere stato il primo tra i due a baciare una ragazza... Come se fosse rilevante, un primato del genere...
Oh… cazzo… Cazzo, cazzo. Molto saggiamente, la sua mente glielo ripeteva. Ci fu solo un secondo di lucida oggettivazione in cui si chiese perché, ma anche questo presto si spense... Maki mise le mani tra i suoi capelli, con cattiveria tirandolo a sé, e in lui, la mente e il fiato vollero sprofondare. Lo baciava e si sentiva perduto. Lo baciava... 
Qualcuno doveva aver liberato una bomboletta di ossigeno da qualche parte, perché l’aria ne era talmente satura da dargli i capogiri... Nelle orecchie, il vento gracchiava; odore di salsedine...  Il segnale della partenza giunse come un’intimazione, a scrollare la sua coscienza deragliata. Fujima si staccò da lui, strappandosi via di colpo dall’appiglio di quelle labbra arroganti e si fiondò senza remore dentro al vagone, appena prima che le porte venissero chiuse.
Le gambe malferme, Maki barcollò ancora di pochi passi, prima di ritrovare la stabilità e un po’ di quel fiato che gli era stato sottratto. Si portò una mano ai capelli, pettinandoseli all’indietro, completamente stravolto. Quando si voltò nuovamente, di Fujima, più nessuna traccia. Nel fischio acuto, il treno stava partendo...
... Ansimava anche lui, chiuso dentro allo scompartimento. Era crollato in quel piccolo metro quadrato di spazio e si teneva il viso madido, gli occhi ancora sgranati e le mani che gli tremavano. Si sentiva come se tutta la forza gli fosse stata portata via da un vortice, anche se poco alla volta, la confusione si diradava.
Fujima osservava il panorama da quella scomoda posizione. Passò il controllore e lui non si alzò. Sette mesi... Dio, passeranno, non è così?
 
Sette mesi... che poi divennero sette anni
E quel bacio in stazione, strappato all’ultimo secondo dalla sua bocca, ne divenne infine solo un confuso, abbagliato ricordo.
 
 
※※※
 
 
Da mezz’ora, si aggirava con aria circospetta intorno a quella specie di stabile disabitato, come se da un momento all’altro si aspettasse di intravedere un fantasma tra le finestre frantumate del secondo piano. Si era trovato patetico, si era augurato le più circostanziali parole di sventura nell’attesa, ma niente... Nessun segnale dal cielo.
Aveva chiamato Jin, per accertarsi sull’indirizzo di Fujima. Ma ora che era giunto davanti a... -Se quello si poteva definire tale- casa sua, aveva sentito tutta la volontà venirgli meno. Certo, si era comportato da vero bastardo, quella sera, lasciandolo in mezzo alla strada... Anche se sul momento, aveva pensato solo che avrebbe giocato comunque a suo favore, fungendo da pretesto ufficiale.
... Pretesto ufficiale?
D’accordo, era ora di darci un taglio. Doveva solo chiedergli scusa e poi andarsene, no? Così pensò, indirizzando i primi passi verso l’entrata buio e fatiscente, ma appena sulla soglia, si fermò. Dal retro del locale, sentì scandire un rumore particolare... Rimase giusto quel mezzo secondo in più ad ascoltarlo. Nulla al mondo, avrebbe potuto fargli dimenticare quel suono. Non poteva sbagliarsi... Maki accelerò il passo, superò l’angolo dell’edificio e una rete metallica consumata dalle intemperie, ritrovandosi davanti a uno spazio aperto e incolto, che a prima vista pareva un terreno abbandonato, ma che ben presto si rese conto di essere un campetto da basket.
.... Uno, due, tre slalom immotivati e il salto leggiadro, prima di incassare un canestro nella disinvoltura assoluta e perfetta. Non era mai cresciuto abbastanza da fare un dunk... Ancora adesso, non ne dubitava. Maki osservava le movenze fluenti di quello che una volta era stato uno dei migliori playmaker della prefettura, e che probabilmente, lo sarebbe stato ancora... Nel cuore, si sentiva assalire dalla malinconia.
Lo guardò religiosamente compiere un altro paio di dribbling prima che si arrestasse, pian piano, abbandonando il pallone e lasciandolo rotolare in avanti fino a toccare la recinzione cigolante... Si voltò a scorgerlo, le iridi abbagliate dalla luce, lievemente confuse... Prima di riconoscere il suo volto dall’altra parte del reticolato, e sorridere, senza dire una parola.
Era ... Bellissimo.
Era bastato levarsi quegli orrendi vestiti da nomade mancato e indossare semplicemente una maglietta bianca e dei jeans puliti... E, si era fatto la barba.
Fujima, in tutta la luce dei suoi 17 anni, se ne stava in mezzo a un campo da basket e gli sorrideva.
...In effetti, era stata una pessima idea.
«Pensavo che non ti avrei più rivisto...» Prima che potesse rinsavire dalla perdizione, gli si era avvicinato a piccoli passi, agganciandosi infine alle maglie di ruggine, la testa ciondolante da una parte. Due astri blu elettrico lo fissavano. «Mi sono comportato da idiota.»
«Tutto qua?»
Cosa ti aspetti adesso? «Nient’altro.» Fu un po’ freddo a replicare, ma gli strappò ugualmente uno sbuffo conciliante. «Dì un po’, come mai abiti in un posto così spettacolare?» Fujima scavalcò uno dei buchi aperti nel recinto, la palla incastrata sul fianco, e si instradò verso la porta di casa, seguito da Maki. «Un piccolo prestito...» Fece, ributtandosi la felpa sulla spalla e senza voltarsi nemmeno. «Notevole...» Fischiò lui, il naso per aria ad ammirare le trapassate edilizie.
L’intero edificio aveva aria di essere in stato di abbandono da decenni, a parte un singolo appartamento in fondo al corridoio preservato miracolosamente. Era piuttosto spazioso, chiusa la porta, con la luce accesa, si aveva la sensazione di trovarsi da tutt’altra parte; nessun crepaccio equivoco, nessun filo scoperto e pericolante … «Mi hanno agganciato anche l’acqua, ieri sera... Vuoi un tè?» Notò le poche cose sparse in giro sul pavimento, tra cui un fornellino elettrico trasportabile. Sì, questa era decisamente l’abitazione di un profugo.
«Non sei passato da casa, immagino... Sì, grazie, senza zucchero.» Fujima gli dava le spalle, accucciato, e le mani occupate intanto a trafficare tra pentole e fiammiferi. Sentì lo sfregare della capocchia sulla carta ruvida. «Figurati, quelli mi chiuderebbero in cantina, dovessi metter ancora piede alla villa... Hanno una cella privata, sai...» Quando se ne era andato di punto in bianco sette anni fa lasciando un bigliettino laconico sul cuscino -Grazie di tutto-, pensò alle espressioni che potevano aver fatto lì per lì, ancora adesso gli veniva da ridere... «Bé, disgraziato come sei...» Maki stava pensando alla stessa cosa.
«Ho portato una cosa...» Lui annuì distrattamente. «...Le cassette dei playoff che avevi dimenticato da me.» «Mh, ottimo.» Gli fece atono, lasciando di colpo la trafila di operazioni sconnesse ai propri piedi, e si voltò. «Senti, Maki...» Sfoggiò un bel sorriso da ebete. «Non è che hai portato anche le bustine per il tè?»
Da quella posizione a terra lo osservava, a gambe incrociate, lo sguardo intenso rifuso d’ironia e d’affetto. Dietro alle sue grandi mani congiunte, si intuiva l’ombra di un sorriso e un principio di risa che gli sfuggì tra gli indici intersecati a formare una vaga X. «...Sarà il caso di andare a fare la spesa, che ne dici?»
 
 
«Sono venuto a incontrare il vecchio avvocato di famiglia. C’erano dei terreni che mi aveva lasciato mia madre all’estero; in teoria, avrei dovuto rilevarli al compimento della maggior età, ma ovviamente non n’ero a conoscenza all’epoca.» Maki annuì alle sue spalle, mentre scandagliavano gli scafali di un minimarket di periferia. «E il casato Fujima? Non avrà nulla in contrario?» ...Lui tacque. Non fece inserzioni sul fatto di aver ereditato una cifra cospicua dal nonno paterno appena passato a miglior vita, della conseguente tempesta giudiziaria scatenata in tribunale, dove aveva incrociato lo sguardo freddo del fratello di suo padre mentre usciva sconfitto dall’aula... Tutte queste schegge seccanti  le avrebbe preservate per sé, leggerezze alle quali non era necessario dare voce. «...Non è stato necessario incontrarli.» Fu la sua risposta.
Fujima prese in mano un pomodoro e se lo studiò con distaccato interesse... «A ogni modo, se ti creano problemi, posso presentarti un ottimo avvocato. Un mio fidato compagno di studi ai tempi dell’università.» Con disinvoltura, Maki gli sfilò il pomodoro dalle mani depositandolo nel cesto... Un gesto fortuito che voleva forse trasmettere un filo di fiducia al suo animo, o almeno, così gli era sembrato nel breve intervallo che lo colse con il volto interdetto... Le guance si imporporarono di un vago e restio sorriso, prima di formulare un timido «grazie...»
... Queste attenzioni erano state sempre tipiche di Maki. Cogliere al volo ciò che a parole era mancato, prima ancora della comprensione... In quei suoi occhi intensi e profondi, c’era qualcosa del genere; qualcosa che lo calmava.
Come nel periodo che era venuto a mancare suo padre, lui era stato.... No. Non doveva fare paragoni di quel tipo. In fondo al cuore, aveva sempre provato disagio davanti ai riflessi tangibili di quella consapevolezza: il non voler ammettere, che in un certo senso, se era riuscito a superare quel periodo così difficile, era stato unicamente per la presenza di Maki; e sapere che, bene o male, molte scelte che faceva erano legate al fantasma sottile e morboso del padre, e del suo amore che tuttora lo avvolgeva, come un filo spinato...
Non aveva intenzione di rivederlo, in realtà. Pensava di sbrigare in fretta le sue faccende e di ripartire in settimana, e Maki era stato proprio l’ultimo dei suoi pensieri... Anche se, ultimo, non lo era proprio... Perché non era stata di certo una coincidenza se aveva incontrato Jin, se era andato al ritrovo del Kainan univ, se poi.... Fato e volontà si rimescolavano qui, e il filo si perdeva nel sentiero dell’inconscio.
Forse, in quel momento, non era in grado di valutare appieno le conseguenze delle proprie azioni.... No... La verità è che Fujima sapeva perfettamente ciò che faceva, e di tutto ciò che ne conseguiva se ne fregava in piena legittimità. Costantemente sospeso a una corda precaria, con l’impressione di non essere da nessuna parte, indirizzava i propri passi dove il vento soffiava... Cosicché, volgendovi lo sguardo, non potesse scorgere neanche l’ombra di un’impronta, dietro di sé.
Era felice?
... Sì, lo era. Sempre e dolorosamente.
Parlare ora di fiducia, quindi, era perlomeno superfluo.
 
Comunque, alla seconda morsa data a una succosa mela rossa, si era chiesto precisamente il senso di quel “possiamo vederci uno di questi giorni”.  Fujima era seduto in bilico sul davanzale di un’inferriata arrugginita a guardare la strada di sotto, dove, raramente, lo strisciare lento delle gomme di una macchina marchiava l’asfalto.
Avevano girato un po’ per le vie della città, senza una meta precisa, parlando di cose di poco conto con tono leggero e allegro. Era stato bello, in un certo senso ... Ma ora, lui se ne stava là, di nuovo sprofondato in un lungo e interdetto silenzio, del quale non afferrava il determinante.
Niente da fare, in quei momenti, non sapeva proprio da che parte prenderlo...
«Una volta, mentre ero a Lima, nel bel mezzo della confusione del porto avevo sentito qualcuno gridare in giapponese...» Lentamente si girò verso di lui, sorridendogli appena nella pallida luce che filtrava tra le sbarre. «Quella, è stata la prima volta che ho pensato di voler tornare a casa.»
«Per te il concetto di “casa” è stato sempre molto indifferente, no?» Gli domandò a sguardo basso, Maki. Lui non rispose. “Anche di amicizia...” Mormorò allora, sottovoce, senza farsi sentire. «Sei contento della tua vita, Maki?» Un vento leggero nel cuore, appena a incresparvi le acque; ma non lo mostrò in superficie. Una domanda così maledettamente diretta e franca, eppure snervante e immotivata: da quanto tempo era, che non se la sentiva porre? «Non ho mai avuto pretese particolari... Come le tue, ad esempio.» Con una smorfia, gli rilanciò scaltramente la palla. Fujima masticò una lieve pausa, come se bilanciasse l’impellenza di quelle parole in mezzo alle labbra. «Ho creduto di volere molte cose... Ma alla fine, forse, si ritorna sempre al punto di partenza.»
«Molte cose cambiano...»
«Già.»
«Perché sei tornato?»
«Non saprei ...»
Maki rise, ma senza entusiasmo. Non lo stupì affatto, quella risposta tanto vaga... Mai che si smentisse. Tuttavia, avrebbe voluto di certo sapere se, in questo suo preciso non sapere, avesse avuto in qualche modo un ruolo anche lui, se il suo improvviso ritorno aveva un significato particolare, se... E questo, non glielo avrebbe mai domandato di certo... Quel bacio lussurioso alla stazione aveva significato qualcosa anche per lui?  
Forse, facendo carico pieno di tutte queste risposte, avrebbe potuto tornarsene contento a casa... Ma non sarebbe mai stato pienamente soddisfatto.
«Ti ho aspettato... All’inizio. Ma poi, sono andato avanti anch’io; non è facile attendere qualcuno che ha un senso così precario della normalità... Tant’al più, incapace di voltarsi indietro.» Fu un sospiro trattenuto a lungo, quello che emise davanti a lui. «Ho paura di non avere abbastanza energie per correrti dietro, Kenji...»
«Che senso ha girare così a vuoto?» La domanda lo sorprese. Maki sollevò la testa. Fujima lo stava fissando negli occhi, attraverso lo spazio grigio di quel pomeriggio immobile e disabitato. «...Se sei deciso a non volerlo conquistare, devi solo lasciarlo andare, nient’altro.»
Aveva sentito il preludio di un’incrinatura dentro di sé, simile al rumore di una crepa che si apriva nel muro. Non capiva se era il tono freddo con cui gli si era rivolto o quelle parole impersonali e il vago accenno di sfida... Si sollevò per un’ispirazione involontaria, come se tutte le sue energie lo trascinassero su, e fece per andare verso di lui. «La fai sempre così facile, tu... Il tuo prendere e andartene, e fregartene totalmente di ciò che lasci indietro! In tutti questi anni, io... Ho sopportato, ho fatto finta che tu non sia mai esistito e me ne sono fatto una ragione, eppure... Non lo capisci mai, vero? Quello che potrei provare, quello che ho passato... Non hai idea!» Si accorse di stringergli un polso, mentre l’altro palmo, sbattuto con forza contro il muro alle sue spalle, lo fece sussultare. «...Non hai idea...» Sibilò ancora, gli occhi brillando all’ombra di una furia silente, e il suo fiato caldo e grave a riversarsi sulle labbra contratte di Fujima, ora fattesi decisamente troppo vicine... Socchiuse gli occhi, nel tremore della collera commista a un principio di desiderio; si sentiva ardere dentro e sarebbe potuto andare a fuoco, lì in piedi, e tuttavia, non osava muovere un singolo muscolo. «Maki... Mi stai facendo male.» Sul volto cinereo di Fujima, intravide il baluginare confuso delle sue iridi. Lo lasciò andare, cedendo di colpo posizione su di lui. Se ne allontanò, e con lui, la sua ombra.
Si passò una mano sui capelli e sospirò in contemporaneo, ma quel gesto non parve dargli sollievo come al solito...
«Perdonami, ho esagerato.» Si mosse di un passo verso la porta. «A ogni modo...» Il volto scostato da una parte, non lo guardava più. «...Credo proprio che sia stato uno sbaglio.» Così disse e ne se andò. E Fujima sapeva che non si riferiva al proprio gesto avventato.






 
L'amore vero non è né scelta né libertà. 
Il cuore, soprattutto il cuore, non è libero. 
E lui, in verità, aveva amato con tutto il cuore solo l'Inevitabile.
[Camus, Il primo uomo]
 
 

Fine seconda parte_




  
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