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Autore: claws    17/10/2015    7 recensioni
Nella cabina di Ace non c’erano specchi. La prima volta che ci aveva messo piede, ne era poi uscito con le mani insanguinate e dei pezzi di vetro tra le dita: aveva buttato i vetri nel mare, dicendo che solo Davy Jones avrebbe potuto sopportarli per l’eternità. Poi aveva sollevato la cornice dello specchio e, con una rincorsa, l’aveva letteralmente scaraventata fuori bordo con furia.
[ASL][≈1600 parole]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: ASL, Monkey D. Rufy, Portuguese D. Ace, Sabo
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'ASL & FOB'
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Pavlov’d


I’m the invisible man who can’t stop staring at the mirror











Nella cabina di Ace non c’erano specchi. La prima volta che ci aveva messo piede, ne era poi uscito con le mani insanguinate e dei pezzi di vetro tra le dita: aveva buttato i vetri nel mare, dicendo che solo Davy Jones avrebbe potuto sopportarli per l’eternità. Poi aveva sollevato la cornice dello specchio e, con una rincorsa, l’aveva letteralmente scaraventata fuori bordo con furia.

Dopo essere salito sulla Moby Dick, per molto tempo a seguire, aveva evitato gli specchi come un elefante evita i topi. Se anche qualcuno si fosse accorto della sua repulsione nei confronti del proprio riflesso (Izo, ad esempio, lo aveva fatto notare a Marco e Thatch), nessuno ne aveva mai parlato apertamente con Ace. Nessuno gli aveva mai chiesto nulla, nessuno lo aveva mai forzato a specchiarsi, neanche per tenere a bada quell’ammasso di capelli stregati, al mattino.

Ace aveva molte riserve su molte cose: quando avesse voluto spiegarsi, l’avrebbero ascoltato.

Poi Ace aveva svelato di essere figlio biologico di Roger – ma il suo vero padre era solo Barbabianca. Il suo sangue lo aveva turbato per molto tempo, pensarono tutti. Eppure Ace continuava a odiare gli specchi. Aveva fatto i conti con i propri genitori e nonostante questo non tollerava la vista di uno specchio né di una pentola lucida.

Ecco. Non riusciva a sopportare il proprio riflesso. Cosa poteva turbare Ace più della propria ascendenza? Dopo la morte di Thatch, Ace non riusciva più neanche a mangiare le zuppe, perché odiava i cucchiai in cui, per sbaglio, poteva vedere i propri occhi. (Non che le zuppe gli fossero mai piaciute, in ogni caso.)


Improvvisamente, dopo aver rivisto Rufy ad Alabasta, Ace aveva ricominciato, piano piano, a guardare il proprio riflesso: prima nell’acqua, poi nel cucchiaio, poi in uno specchio vero e proprio. Alcuni giorni rimaneva nella propria stanza davanti a uno specchio nuovo, a fissarsi dall’alto in basso, dai piedi ai capelli, senza un motivo apparente. Passava dei minuti infiniti a guardarsi, poi stringeva le mani sulle braccia, sbuffava forte e sbatteva la porta della cabina, acchiappando il cappello. Quando Marco gli chiese che diavolo stesse combinando, Ace gli rispose che «Non riesco ancora a vedere il mio riflesso.»

Sulla nave scoppiò, allora, la diceria per cui Ace sarebbe stato un vampiro. Teorie di complotti idioti si sparsero per tutta la flotta: un vampiro che diventa fuoco era una storiella molto divertente, per alcuni. In verità pensavano solo di prendere un po’ in giro quel marmocchio, ma Ace reagì piuttosto violentemente quando qualcuno cercò di sdrammatizzare. Tornandosene nella propria stanzetta, Ace pensò che si sarebbe dovuto disfare di quello stupido specchio.

Quando aveva anche solo pensato di essere riuscito a superare la morte di Sabo...?!

Non riusciva a guardarsi in faccia. O meglio, per qualche tempo ci era riuscito di nuovo, ma solo perché aveva rivisto Rufy: il suo fratellino adorato doveva avergli spalmato così tanta gioia sulla faccia che Ace potè specchiarsi per qualche settimana senza odiarsi a morte. Quando il benefico effetto di Rufy era scomparso, Ace si era trovato di nuovo disarmato davanti a se stesso.

C’era una cura definitiva per il male che sentiva? Perché continuava a sentire la voglia di guardarsi allo specchio, eppure provava uno smarrimento e un disgusto terribili nel proprio riflesso? A volte riusciva a vedersi, a volte il vetro non gli restituiva nessuna immagine – o meglio, a volte il cervello di Ace non registrava il colore dei suoi capelli, le sue lentiggini, il suo tatuaggio: Ace pensava che non ci fosse nulla sulla superficie di quel dannato aggeggio di tortura.


Stava regredendo allo stato in cui si era trovato subito dopo la morte di Sabo. C’era solo un continuo sciabordio delle onde, nella sua testa, uno sciabordio irritante, che si ripeteva nelle sue orecchie da quando si svegliava a quando andava a dormire – di nuovo come un tempo odiò dormire da solo, come quando dormiva con Rufy (Sabo non c’era più) e poteva permettersi il lusso di calciarlo lontano da sè, perché tanto Rufy gli sarebbe stato vicino comunque.


Izo fu molto sorpreso quando Ace, un giorno, gli chiese di prestargli a tempo indeterminato uno specchio da borsetta. Ace disse soltanto che «Nel mio viaggio alla ricerca di Barbanera voglio imparare a guardarmi bene», con una specie di sorriso triste sotto alle lentiggini.

Era la tristezza di chi avrebbe voluto prendere tutto il dolore dei propri amici e fratelli su di sè, per espiare le proprie colpe, reali o no. Per sentirsi meglio, in una strana soddisfazione di chi pensa di essere quello da condannare. Era la tristezza (che porta alla contorta soddisfazione) tipica di chi è troppo triste per sentire altro nel proprio cuore.

Rat-tat-tat-ta, sssh, sssh, sssh, lo sciabordio delle onde della tristezza che lo soverchiava e di cui non poteva fare a meno.

Non Roger, ma Sabo. Per Sabo non riusciva a guardarsi allo specchio. Per l’esser figlio di Roger non avrebbe potuto far nulla – era così e basta. Per Sabo—per lui avrebbe potuto fare tutto, avrebbe potuto salvarlo, avrebbe potuto essere più forte, avrebbe potuto dirgli un milione di cose per—

E ancora si guardava nello specchietto, tentando di vedersi, e non riusciva a sopportare la vista di quello che il metallo restituiva – quando glielo restituiva. In un misto di odio, tristezza, rimorso, pensò che avrebbe continuato ad aprire quello specchietto per cercare di capire se quella fosse la volta buona: forse sarebbe riuscito a guardarsi e a vederci Portuguese D. Ace, forse, forse, quella era la volta buona, no, non lo era, non ci sarebbero state volte buone, le aveva perse tutte quando Sabo era annegato ed era finito insieme ai pezzi dello specchio che aveva lanciato a Davy Jones.


I’m not ready for a handshake with death, no


Al sesto livello di Impel Down Ace avrebbe tanto desiderato lo specchietto di Izo. Nel suo cuore c’erano sempre stati sia la voglia di vivere (liberi, come veri pirati) sia l’odio nei confronti di se stesso: questi due sentimenti avevano sempre condiviso uno spazio minuscolo nel suo cuore schivo. La supremazia di uno seguiva alla supremazia dell’altra, scandivano il tempo della sua vita come delle ere geologiche. La vita con Rufy e Sabo, l’odio per la morte di Sabo, la vita di nuovo da quando aveva capito che la propria esistenza non era stata solo un susseguirsi di sbagli a partire dal suo stesso concepimento.

Incatenato là sotto, dopo aver sentito da Hancock che Rufy stava arrivando a salvarlo, Ace pensò che quella seconda fase di voglia di vivere stava raggiungendo il picco massimo: presto, pensò, la parabola sarebbe discesa verso lo zero, e sarebbe arrivato l’odio, più prepotente che mai.


I want to make you as lonely as me, so you can get addicted to this


«Sabo. Ehi, Sabo.» Disse Rufy, con un sorriso accennato. Quando non erano grandi sorrisoni c’era da stare attenti, con quel marmocchio.

Sabo si rivolse al suo fratellino. «Che cosa c’è, Rufy?»

«Tu sei l’unico che può capire quanto sono felice di rivederti!»

Quanto c’era di sottinteso, in quelle parole. Sabo era l’unico perché era l’unico ad aver perso Ace come era successo a Rufy – ma no, neanche Sabo poteva capirlo, perché Rufy aveva visto il loro fratellone morire davanti ai propri occhi, e Sabo non poteva immaginare il dolore e il rat-tat-tat-ta sssh sssh sssh che gli pompava nelle orecchie.

«Non lo so.» Rispose il suo fratellone biondo appena ritrovato. «Non so che cosa ho provato quando mi sono ricordato di tutto. Non so che cosa sto provando adesso.»

«Vedi che allora lo sai?» Esclamò Rufy. Poi saltò addosso al suo fratellone e lo strinse forte, fortissimo. «Neanch’io lo so. Non è la solita tristezza, vero? È come se... come se non potessi fare a meno di pensarci.»

«Sì.»

«E pensarci non mi fa stare meglio, però ho la sensazione che mi faccia stare meglio lo stesso. Non lo senti anche tu?»

Non c’era definizione migliore di quella.

«Sì, Rufy. È davvero così. Continua a parlarmene.»

«Ho paura di non riuscire a superare la morte di Ace, però ho anche paura che il tempo me lo faccia dimenticare. E se non ricorderò più la sua faccia, o la sua voce? Voglio andare avanti, ma non voglio lasciare nessuno indietro.»

Oh, Rufy, Rufy, il suo fratellino. Era diventato così forte.

Erano soli insieme. Capite? Da soli, ma insieme. Non riuscivano a stare soli da soli, quella sera. Dovevano raccontarsi dieci anni di storia e c’era il tempo di mezza giornata.

«Però, anche se vado avanti, non gli voglio meno bene. Riesci a capire?»

«In qualche modo, sì.»

«Tu riuscirai ad andare avanti, Sabo?»

«Non lo so,» rispose, cominciando a piangere senza singhiozzi, «non lo so. Dovrò imparare.»


Il giorno successivo, sulla nave dei rivoluzionari, Koala sgridò Sabo per tutto il viaggio, perché il giovane aveva trovato un lungo specchio e, preso da chissà cosa, lo aveva buttato in acqua.

In quello specchio Sabo aveva visto il viso di Ace sulla propria faccia, i suoi occhi sui propri occhi, le sue braccia sulle proprie e c’era quel tatuaggio che lo perseguitava come un fantasma. Doveva imparare ad andare avanti, e quell’allucinazione—quell’immagine—quella proiezione del suo inconscio—qualunque cosa fosse stata quella, non importava definirla, l’aveva stravolto. Doveva cominciare piano piano, passo passo. Ora che non c’era più Rufy con lui, doveva muoversi con calma. Uno specchio così grande lo aveva sconvolto. Magari avrebbe potuto provare con un vetro più piccolo, di quelli che riflette soltanto il viso.





















Note Autrice:

Bene, mi dicono. È una piccola cosa che gli inglesi chiamerebbero Hurt & Comfort. Datemi solo il sigillo di marchio DOP e l’affare è concluso.

La canzone dei FOB, stavolta, è Pavlove, che è uno scemissimo gioco di parole su Pavlov e su love. Cioè, in realtà è un gioco di parole geniale, solo che mi va di sminuire l’intelligenza di quei quattro perché mi va.

Pavlov è lo scienziato che studiò  e ipotizzò il riflesso condizionato: in breve, spiegazione di Jo in maniera random: Pavlov dà da mangiare al proprio cane solo dopo aver suonato una campanella. Dopo diverse volte, al suono della campanella il cane comincerà a salivare di brutto perché sa che dopo la campanella c’è il pranzo. Jo ha fatto la stessa cosa coi propri gatti e quindi, quando lei fischia, i suoi gatti accorrono, che siano sotto il tavolo o in Nuova Zelanda.

Nella canzone si parla di tutto e anche di più – i FOB alle volte sono piuttosto random, perlomeno per me, forse sono io che sono stupida –, quindi vi posso solo consigliare di ascoltarla. Quel “I’m the invisible man who can’t stop staring at the mirror” secondo me è praticamente la definizione per Ace. Qui, Ace si comporta in maniera contraddittoria: si avvicina e si allontana dagli specchi nel tentativo di superare il trauma della morte di Sabo. Quando si specchia o vede se stesso e si sente inadeguato, o vede Sabo e non riesce a sopportarlo. Sabo proverà gli stessi sentimenti, diventerà anche lui schiavo di quella tristezza malsana che ogni tanto le persone provano: anche lui si guarderà allo specchio e proverà quelle sensazioni.

Rufy che parla in questo modo mi piace un mondo. Parla come un bambino, con le parole di un bambino, ma esprime dei concetti che lasciano spiazzati. Mi è piaciuto scoprire che Oda, fin dall’inizio, ha voluto un protagonista per cui non c’è bisogno dei balloon dei pensieri, ma solo di quelli del parlato, ecco. È una scelta bellissima e affascinante. Credo che ci proverò anch’io, perlomeno per lui.

Poi questi tre marmocchi saranno la mia fine, ma va bene comunque, eh.

Ancora mi chiedo se per storie di questo genere vada aggiunto l'avvertimento spoiler. Credo che ce lo metterò, ma è talmente vago... Non saprei. Melius abundare quam deficere o comunque si dica.

Ora che ho finito con le mie spiegazioni incomprensibili e/o contorte, vi ringrazio per aver letto. Grazie!

Giuro che non lo faccio apposta a pubblicare cose tristissime al sabato sera (o forse sì?).

Alla prossima!

claws_Jo




Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Eiichiro Oda; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

  
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