Racconto originariamente scritto per il literary-blog SognandoLeggendo in occasione di Halloween 2013.
Lo ripropongo qui perché - beh - perché no?
Spero allieterà quei pochi minuti che vi occorreranno
per leggerlo.
Fino all’alba
I lumi, i cerini e le
lanterne risplendevano nel bagliore lucido della notte senza nebbia,
ondeggiando pigramente e danzando sui rari aliti di vento che si spingevano tra
le mura del cimitero.
Il silenzio era assordante,
fittizio, bitonale, diviso tra l’ascetica pace della dimensione terrena e la
festosa energia risvegliata dall’apertura del passaggio.
La luna alta nel cielo
non era piena ma poco ci mancava, ed era arancione. Arancione come il sole al
tramonto, arancione come le foglie d’acero in ottobre, arancione come la zucca
cui somigliava sempre di più mano a mano che l’ora di mezzo si avvicinava. Il
portale si era già socchiuso, i primi spiriti erano scivolati fuori cominciando
la baldoria tra i vivi, facendo qualche dispetto e ridendo nella lingua che
solo i fauni udivano.
Il cimitero si stava
riempiendo di anime, di bolle, di aloni colorati, soffi, mormorii, voci, gli
amanti si rincontravano, gli amici si rallegravano, i parenti si salutavano, i
genitori si riunivano ai figli, mentre al di fuori, lontano dai cancelli,
bambini correvano da una casa all’altra a chiedere dolcetti travestiti da
Carnevale, senza sapere che di loro i fantasmi avevano ancora paura.
Scheletro avanzava tra
le tombe senza meta, lambendo i crisantemi, le rose, i garofani, i fiori di
stoffa e plastica che già in molti erano venuti a depositare al capezzale dei
propri cari.
Si aggirava per i
sentieri di ghiaino bianco, passava attraverso fuochi fluttuanti, aggirava
combriccole di spiritelli che ciarlavano, passeggiava sotto le arcate in stile
romanico ammirando le lapidi di marmo, alabastro e ossidiana rifulgere al
baluginare innaturale dei defunti che rientravano nella realtà parallela di cui
avevano fatto parte come materia organica.
Una volta ogni anno il
portale si apriva e le anime scendevano, i due universi diventavano il
medesimo, permettendo agli dèi di avere un attimo di respiro, ai morti di
rivedere il passato e il futuro, agli umani di bearsi delle strane sensazioni
che il contatto inconsapevole coi diavoli e le ombre dava loro.
Era una notte di festa,
di ricordi, di bellezza, di emozioni forti, così bizzarramente forti che
sembrava dovessero riportare in vita chiunque.
Scheletro aveva un
nome. Però non ricordava quale.
Era passato così tanto
tempo dall’ultima occasione in cui l’aveva rammentato. Non era normale che i
trapassati si dimenticassero come si chiamassero, ma Scheletro sapeva che era
possibile, perché non era l’unico del camposanto. Erano in quattro, quattro su
duemiladuecento. Una percentuale bassa, ma non era pur sempre l’unico.
Per lui la notte di
Halloween non aveva lo stesso significato che aveva per gli altri. Per lui non
aveva proprio nessun significato.
Non sapeva chi fosse
stato prima di venire seppellito. Non sapeva chi avesse pagato per il modesto
ma dignitoso spazio interrato nell’ala interna. Non sapeva da quanto fosse lì.
Non sapeva quanti anni avesse quando era spirato. Non sapeva se avesse una
famiglia che lo pensasse, non sapeva da dove venisse, non sapeva nulla.
Con la morte era
ricominciato tutto. La croce che gli faceva da stele commemorativa era vecchia,
consumata, l’iscrizione si era erosa e nessuna foto vi era incastonata. Eppure
non sembrava così vetusta. I fiori che venivano posati sul suo tumulo erano di
persone buone che gli regalavano un mazzolino di tanto in tanto, e talora -
pressappoco due, tre volte l’anno - vi aveva trovato mazzi di gerbere vermiglie
con tanto di sottovaso e acqua a nutrirle, ma non aveva mai visto chi si fosse
dato tanta pena. Chi poi si occupava di quei doni erano i custodi, non un uomo
o una donna si erano mai fatti avanti per mantenere floridi quei regali, quindi
era incerto su cosa credere.
Forse si trattava di
gentilezze casuali e disinteressate, o forse c’era qualcuno che nutriva un
qualche legame con Scheletro, ma la sfortuna aveva voluto che fosse sempre o
inerte o lontano dalla sua dimora materiale per svelare l’arcano.
A ogni modo, non aveva
molta importanza.
Intravide qualche
folletto bardato di verde e oro e un Garmr
aggirarsi mansueto tra i cespugli di bossi, annusando saltuariamente l’aria per
essere certo che la situazione fosse tranquilla. Scheletro gli andò appresso,
sperando quasi che gli azzannasse un femore e lo sgranocchiasse a mo’ di
pannocchia. Distese un braccio per carezzarlo, e il cane infernale lo fiutò
senza muovere le pupille scarlatte come sangue.
Dopo pochi secondi
questi sbuffò e riprese a trotterellare lungo i filari di cipressi potati,
ignorandolo. Era successo anche il precedente Halloween. Il regno degli spiriti
non reclamava la sua alma.
Continuò a ciondolare
percorrendo i passaggi elegantemente curati dal custode anziano, chiedendosi
cosa avesse di sbagliato.
Aveva perso il conto
del tempo che era trascorso da quando era spirato, ma a giudicare dai fattori a
sua disposizione doveva essere parecchio. Le sue ossa erano bianche, in numero
di duecentosei, tre costole presentavano lievi incrinature e una rivelava una
frattura perfettamente calcificata, e una leggera crepa sul cranio che però poteva
essersi causata dopo la sepoltura. Era morto a tutti gli effetti, tuttavia la
sua anima continuava a rimanere aggrappata alle spoglie mortali con una tenacia
che non si spiegava.
Era colpa sua? Di qualcosa
che aveva fatto in vita? Era la sua essenza astratta a essere allacciata a quel
concentrato di calcio deambulante o erano gli dèi a non permettergli di
ascendere - o di discendere? Dove stava il problema?
Non gliel’aveva
spiegato nessuno, nessuno era mai giunto a pretenderlo né a porgli un
chiarimento. O forse era accaduto prima di decedere e la memoria si era
cancellata, scioltasi prima del cervello?
Chissà. Stava di fatto
che pareva che dall’altra parte nessuno lo stesse aspettando con particolare
frenesia, indi per cui tanto valeva che non si angustiasse troppo.
La luna aveva assunto
un colorito acceso e sfavillante, segno che le porte si erano spalancate. Fino
all’alba demoni, mostri, entità e creature di ogni sorta avrebbero potuto
scorrazzare sulla terra al fianco dei respiranti, i quali ormai non avevano più
idea di come fare ad accorgersene. Soltanto gli animali vi avrebbero badato: i
gatti avrebbero fatto le fusa alla categoria dei praticanti di magia, i rapaci
avrebbero volato rasoterra nel tentativo di ghermire gli sciocchi folletti, i
topi sarebbero usciti dalle loro tane a compiacersi dello spettacolo.
Scheletro era annoiato,
e triste pur non volendolo ammettere. Quella non era la sua festa.
Raggiunse l’ala più
vecchia del cimitero e tagliò per l’area delle cappelle che l’avrebbe condotto
rapidamente al proprio sepolcro dove avrebbe dormito il sonno dei raminghi nel
limbo.
Dall’interno delle
cappelle provenivano rumori, chiacchiere, risatine, feste private per chi
voleva rimembrare in intimità, per chi si voleva nascondere, per chi voleva
trovare una nicchia personale che gli permettesse di rimpiangere e commuoversi
lontano da sguardi estranei.
Scheletro avanzò senza
fretta, godendosi le percezioni leggermente acuite che la ricorrenza di Samhain regalava. Il fresco dell’aria, il profumo di
terriccio umida e foglie bagnate, legno che bruciava e castagne arrostite, il
lieve pizzicore della ghiaia appuntita sotto i calcagni induriti.
Lasciò scorrere il
palmo sulla superficie di una tomba matrimoniale in granito rosa, i cui
cristalli irregolari brillavano sotto i riverberi delle candele e delle
fiaccole elettriche. Era liscia, levigata, lo sfregarvi le ossa produceva un
suono raschiante, un poco sgradevole, fischiante, che avrebbe fatto venire la
pelle d’oca a chi aveva la pelle.
Quando Scheletro si
ritrovò sull’aiuola trapezoidale che ospitava alcuni tumuli recenti disposti
lontano, sulla sinistra, notò uno spettro.
Una presenza
lattescente sospesa a un metro e passa d’altezza, avvolta in lunghe spire di
nuvola azzurrata che vibravano, tremavano, strisciavano e si adagiavano con
morbidezza. Era raro che uno di loro si aggirasse nei cimiteri piuttosto che
preferire il vagare in luoghi dove erano avvenuti fatti importanti.
I normali fantasmi non
possedevano un’aura nebulosa ma erano anime nude, fonti splendenti e spoglie
che pulsavano come nove, e indifese, che potevano essere allontanate o
momentaneamente spente anche da un banale refolo. Quando invece erano protetti
dal cosiddetto lenzuolo significava che erano anime antiche. Ataviche,
ancestrali, spiriti apolidi formati da abbastanza energia da gettare le loro
catene sia nel mondo dei vivi che in quello dei morti, rimanendo sul confine
per motivi che alle comuni entità sovrannaturali non erano dati sapere.
Scheletro si grattò
l’osso parietale, dubbioso. Era la prima volta che ne vedeva uno all’interno
dei cancelli. Nell’arco di quell’anno avevano seppellito qualcuno di rilevante per
giustificare il cospetto di una simile celebrità? Stava seguendo qualcuno
venuto in visita ad altri? O semplicemente aveva deciso di recarsi in uno dei
tanti luoghi di riposo eterno dove l’energia era così poca che non invogliava
nemmeno i ragazzini a entrarvi di notte come prova di coraggio?
Scheletro era
incuriosito da quell’insolita distrazione, ma era sua abitudine essere discreto
e non ficcare il suo virtuale naso in faccende altrui, né tantomeno disturbare
chi cercava un briciolo di serenità. Quindi riprese a camminare sereno,
avvicinandosi e pronto ad avvertire l’aura fredda che emanava il lenzuolo
per poi passarvi oltre. Ma avvenne qualcosa di strano.
Un lembo si allungò e
gli sfiorò l’ulna, facendolo rabbrividire fino ai denti - tutti e trentadue.
Spettro gli parlò.
Disse qualcosa che
Scheletro non riuscì a capire. Era sempre stato certo che qualunque essere
ultraterreno adoperasse lo stesso linguaggio, ma a quanto pareva non era così.
Si voltò, incontrando
il bagliore velato che sembrava lo stesse osservando. Spettro ripeté il
fruscio, e Scheletro scosse la testa, allargando le braccia. Spettro non parve
sorpreso, anzi, sembrò che se lo fosse aspettato. Fluttuò di fronte a
Scheletro, solleticandogli le costole con fiochi spirali di gelo. Respirò.
Un respiro glaciale che
tuttavia sapeva di autunno, di fiori, di neve, di frutta, di mare, di biscotti,
di persone. Un respiro che per un attimo fece credere a Scheletro di avere dei
ricordi che lottavano per riemergere.
Ma l’impressione
scomparì rapida quanto era arrivata, e non seppe se si fosse trattato di una
reazione normale o se davvero ci fosse altro.
Scheletro cercò di
osservarlo meglio, sforzandosi di vedere sotto il lenzuolo iridescente
che galleggiava nell’etere offuscando anche la sua vista interiore,
impedendogli di distinguere qualunque cosa. C’era una faccia lì sotto? Erano
lineamenti disegnati nel chiarore quelli che intravedeva, o era soltanto il
gioco di tenebre notturne? C’erano occhi che potevano guardarlo?
Spettro lo toccò
ancora, pizzicandogli le clavicole, restituendogli la sensazione di vaga
rimembranza. Una sensazione attutita, distante, scolorita. Una sensazione umana.
Scheletro non
immaginava cosa l’altro volesse. Non lo conosceva - non credeva - non si erano
mai incrociati, e non aveva mai avuto nulla a che fare con esseri della sua
classe.
Cosa voleva dirgli?
Spettro cominciò a
girargli intorno.
Svolazzò con lentezza,
dietro di sé lasciava una scia di pulviscolo traslucido che disegnò una sorta
di frastagliato cerchio attorno a Scheletro, che nel frattempo valutò
seriamente la possibilità di darsela a gambe. Spettro emanava freddo, un freddo
spirituale che entrava nel midollo e nell’anima, un freddo che avrebbe potuto
ghiacciarlo e rischiare di romperlo come lunghe stalattiti. Era quello lo
scopo? Spezzarlo? Frantumarlo?
Scheletro tremò,
sentendosi inglobato in quelle due strane sfere che credeva di scorgere al di
là del lenzuolo, passaggi che forse trasportavano in un altro reame, o
forse soltanto illusioni ottiche.
Forse era così che
succedeva.
Forse quel fantasma
aveva raggiunto il cimitero per condurre finalmente la sua parte incorporea nel
sito che gli spettava. Forse ciò che era in atto non era altro che un rituale.
Scheletro volle convincersene,
anche se ciò cui riusciva a pensare era che Spettro lo stesse studiando. Con
interesse. Con un inspiegabile interesse.
Scheletro si trovò in
imbarazzo.
Spettro emise
l’ennesimo verso - parole? Un’esclamazione? - e tornò a piazzarglisi
davanti, fissandolo con quella che somigliava ad attenzione. Nonostante si
fosse fermato, intorno a Scheletro il gelo continuava a levarsi insieme alla
cortina fumosa che gli si arricciava intorno all’astragalo per poi risalire,
infilandosi dello spazio tra tibia e perone, e ancora più su in una scalata
lenta che gli ricordò orribilmente l’essere sommerso dall’acqua. Ma non solo
quello.
Ricordò. Senza
precisione.
Un tuffo nell’ignoto,
l’avvertire il tempo scorrere all’indietro e cadere, scivolare come sabbia che si
infilava nelle fessure del metacarpo e gli sfuggiva impedendogli di
focalizzare. Pian piano qualcosa prese forma, ma erano linee sfocate, rumori
remoti, sfumature sgargianti che non credeva di aver mai visto. La
consapevolezza di aver vissuto, di aver parlato, di aver fatto, ma senza
definire come, cosa, chi.
Un sussurro gli si
infilò nel meato esterno e Scheletro si rese conto che quel suono gli era
familiare. Scrutò il lenzuolo di foschia tentando di identificarvi un
volto, ma nulla, la risacca del passato andava e veniva rimescolando e portando
via.
Spinto da un’emozione
atavica cui non diede nome, allungò l’avambraccio. Le dita scarne si brandirono
nel vuoto polare, il vapore lo artigliò innocuo, e poco dopo una falda di
Spettro gli circondò il polso. Imitò una stretta affettuosa.
Scheletro non poté
distinguere consistenza, ma la corposità intrinseca che gli venne trasmessa lo
fece sentire come se gli stesse battendo il cuore che non aveva più.
Quella stretta, quella vicinanza, quell’energia, Spettro comunicava con la sua
parte assopita e lei lo riconosceva.
Quella consapevolezza
causò a Scheletro una dolce vertigine di trasporto. Parlò scadendo le sillabe
nell’idioma dell’aldilà, ma l’altro non diede segno di averlo compreso. Non
diede segno di averci neanche provato.
Spettro avanzò di un
anelito, finché Scheletro non ravvisò il solletico che gli causava la nebbia
cristallizzata all’interno delle cavità oculari. Altre gocce di coscienza
piovvero ed evaporarono, lo mandarono in confusione, sfocati flash gli
invadevano la mente ma fuggivano, pareva ridessero di lui e della sua
incapacità di catturarli.
Il lenzuolo lo
avvolse come una coperta dalla funzione contraria, e quel palloncino opalino
che era Spettro sembrava esortarlo. Esortarlo a cosa?
Altre schegge di
ricordi, altre sensazioni filamentose, e pian piano un richiamo che partiva
dall’interno del suo spirito che si unì a quello di Spettro.
Fidati, fidati e basta.
Tentennò un istante.
Poi permise a Spettro
di penetrargli l’anima. E fu fortissimo.
Avvertì. Percepì.
Captò. Presagì. Intese. Riconobbe.
Riconobbe un viso,
magro, pallido, piacevole. Riconobbe una voce, tumultuosa, musicale, virile.
Riconobbe un’affinità tangibile che andò a colmare i suoi vuoti e a ricomporre
i suoi pezzi, una complicità irridente e sfacciata, infantile e pantagruelica,
tragica e passionale, potente, potente quanto l’occhio destro di Balor o il respiro di Mog Ruith, travalicante, vorticoso, frastornante, e bello.
Talmente bello da
spazzare via la morte e costringere la vita a isbocciare
in ogni singola particella di sostanza mortale o immortale vicino a loro, e in
quell’attimo Scheletro rammentò il passato, l’esistenza, il nome, i nomi, il
sole, l’ossigeno, il sangue, il sudore, il cemento, il sesso, la rabbia,
l’amore.
Aprì gli occhi. Guardò
come se li avesse ancora. Fissò le fattezze di Spettro, quelle di allora, e il
frastuono assordante che udì proveniva da sé, da dentro, dalla cosmogonia di
emozioni che non erano mai state inventate e che ribollivano e crescevano
uroboriche, scatenando un battito impossibile e formando lacrime d’azoto.
Sei tu... Desiderò dirlo,
desiderò parlare e gridare, fare, agire, desiderò picchiarlo e fargli male e
amarlo fino a consumarsi come lingue del glorioso fuoco di Belenos.
Sei vivo. Vivo era un vocabolo inesatto, ma lo ignorarono entrambi. Sei
qui. C’era davvero.
C’era davvero.
Come aveva promesso.
Sono qui. confermò sfoderando
quel sorriso che in vita gli aveva mozzato il fiato, e che ora era in grado di
restituirglielo. Ci sono sempre stato.
Scheletro dapprima non
capì, ma poco a poco le spire che scivolavano lungo la sua coscienza gli
illustrarono. Gli trasmisero. Gli profusero conoscenze ataviche,
trascendentali, equoree, quelle che non era mai stato capace di comprendere.
Ora le comprese.
E ciò che provava per
Spettro si acuì ancora di più, si dilatò e sia approssimò pericolosamente al
confine tra le dimensioni.
Spettro sollevò un orlo
- una mano - e ripeté il gesto che per anni aveva dissolto le distanze tra
loro, carezzandogli gli zigomi con l’espressione di miele che non si curava
dello scorrere delle ere.
Scheletro distinse il
calore. L’impronta del calore impressa nel tessuto osseo, il suo profumo, la
sua intensità. Avrebbe voluto coprire quella mano con la propria, ma sapeva che
non era il caso di farlo adesso.
Finirà? domandò Scheletro,
ingenuamente e seriamente.
Deve ancora cominciare. garantì Spettro,
inalterato nella sua intraprendenza, irresistibile per la sua irrefrenabilità. Tornerò.
Scheletro non aveva bisogno
di quella rassicurazione, ma lo sfarfallio di felicità lo colse impreparato,
consolidando la completezza che lo faceva vacillare tanto era abbacinante,
tanto era meravigliosamente inalterata.
Ti amo. L’ultima frase
pronunciata prima di spegnersi. Struggente come sempre.
Spettro lo cinse in un
abbraccio incorporeo che rafforzò ognuna delle sensazioni che li congiungevano
nell’indissolubile, Scheletro si trovò in pace. La pace che non sapeva di aver
perduto, la pace che non sapeva di aver cercato, la pace che derivava da due
che divenivano un intero.
Abbi un po’ di
pazienza.
mormorò. Sto venendo a prenderti.
Scheletro inalò un
improvviso sentore, una fragranza sottile, insospettata, rigogliosa, aroma di
gerbere. Lo amò. Sentì di amarlo al di là della luce e del buio, dell’ora e
dell’allora, dell’ivi e dell’altrove, sentì di essere ricambiato, sentì che
l’equilibrio protettivo ed esclusivo entro cui si erano mossi era perdurato
solido e incorruttibile, e gli sembrò la cosa più stupida e meravigliosa che
potesse esistere.
Ti amo. sussurrò Spettro,
mentre una spera aranciata invadeva loro la vista, annunciando qualcosa che
decisero di trascurare. Ancora un po’. Ancora un po’ e non ti lascerò più
andare.
Scheletro distinse la
condanna, la malinconia, la sofferenza in quel tono ieratico che si affievoliva
pian piano. Avrebbe voluto cancellarlo, eradicarlo, convincerlo che non aveva
nessuna colpa da espiare, ma sapeva che non sarebbe stato facile, e oramai la
notte era terminata.
Scheletro fece per
allontanarsi, e Spettro lo baciò, estemporaneo.
Un’eterna fiamma
divampò tanto alta che avrebbe potuto accecare e sciogliere chiunque vi fosse
nei paraggi, le loro anime si schiusero e si fusero provocando lunghe scintille
di stelle che solcarono rapide il cielo, e un silente giuramento fu stretto per
l’ennesima volta, e l’assioma che l’avrebbe visto rispettato si rinnovò.
Un ultimo sguardo,
un’ultima stretta e si separarono nel silenzio sepolcrale che aveva rimesso i
confini tra il mondo dei morti e quello dei mortali.
Scheletro barcollò con
un brivido diffuso, alzando la testa per vedere la luna ridotta a una massa
chiara e butterata, che recava tracce di rosso soltanto ai bordi che stavano
svanendo con l’avvento di un’alba fosca e grigia.
La calma era tornata.
Non era pace.
I dimoranti del
cimitero stavano tornando ai loro loculi, stanchi e stinti dopo un Halloween di
bagordi, pochi facevano caso a lui, pochi ricordavano se e cosa avessero visto.
Anche Scheletro stava iniziando a scordare. Dense stille di memoria stavano
affondando e inaridendo, portavano via il volto, la voce, le mani, i ricordi, i
nomi. Non le emozioni. Quelle le avvertiva, avevano raggiunto il centro per
osmosi, e per quanto facesse sempre più fatica ad associarle a un contesto
rimanevano, e Scheletro era certo che fossero la verità. Una verità che
lentamente dimenticò di aver capito, ma che gli permise di fidarsi. La sua
condizione di errante aveva un senso, e pur non conoscendolo gli bastò.
Qualcosa nel suo
spirito gli diceva che avrebbe avuto una fine, che prima o poi sarebbe mutato,
che quel percorso sarebbe stato spezzato e sarebbe finito su un altro,
totalmente diverso, e sospirato. Sapeva di bramarlo, di attenderlo. Sapeva che
l’avrebbe reso felice.
Tornò al suo fazzoletto
di giardino lontano dall’entrata, pacifico, dimenticando ogni cosa tranne
l’essenziale che gli si era depositato nello spazio occupato dal cuore
invisibile.
Arrivato di fronte alla
propria tomba, sfiorò con le falangi le gerbere che qualcuno aveva portato
giusto uno o due giorni prima, sgargianti e bagnate dalla rugiada su cui si
infrangeva il difficoltoso riflesso del crepuscolo mattutino.
Odoravano di libertà ed
era come se su ogni petalo vi fosse incisa la parola aspettami.
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Grazie per essere arrivati alla fine e
per aver letto questo mio scritto. u.u
Un commentino mi rende sempre felice.
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