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Autore: My Pride    19/02/2009    10 recensioni
«C'è qualcosa. Qualcosa d'oscuro, in me, che non comprendo. Ma quando ci riuscirò, forse capirò anche perché mi hanno risparmiato, perché non ho fatto la stessa fine di molti che li hanno incontrati tempo addietro»
«Roy... ti supplico» riprovò Hughes, sentendo le lacrime minacciare di rigargli il volto.
«Non supplicarmi, Maes», disse sorridendo. «Non sono Dio»
[ Seguito de «Il bacio del vampiro» ]
[ INCOMPIUTA - Un giorno verrà aggiornata (forse) ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Edward Elric, Maes Hughes, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Vampire's Story ~ Il Bacio del Vampiro'
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Il figlio delle Tenebre_Act 1
ATTO TERZO. RIUNIONI


    Lo stormire tra le fronde diveniva man mano più ovattato, più la notte si infittiva e più loro si avvicinavano al maniero, insinuandosi fra i boschi silenziosi e cupi.
    Serpeggiarono scansando i rami bassi che ostruivano il loro passaggio, dilaniati dalla sgradevole sensazione di mille occhi puntati su di loro. In poco arrivarono dinnanzi alla magione, le cui grandi porte, stranamente, erano spalancate, come ad invitarli ad entrare, ed i due uomini trovarono l'ingresso in condizioni più catastrofiche di quando l'avevano visto dieci anni prima. Il dipinto era stato bruciato, così come la maggior parte degli oggetti lì presenti, vetri e mobili erano ridotti a pezzi, e gran parte dei frammenti erano stati scaraventati da una parte all'altra del salone.
    Senza capire chi fosse stato a compiere quel putiferio, il Sindaco e l'unico uomo della sua scorta cominciarono a perlustrare il primo piano della casa, sorpresi di non trovarvi i presunti abitanti a quell'ora di notte. Che fossero usciti a caccia? Il solo pensiero fece accelerare i battiti dei loro cuori mentre avanzavano spediti in ogni stanza, sorpassando ogni ostacolo, salendo o scendendo ogni scala.
    Sbucarono in un piccolo studio ormai in disuso, i cui scaffali erano stracolmi di vecchi libri impolverati, l'unica scrivania presente era anch'essa ricoperta da uno spesso strato di polvere, e un paio di tomi antichi erano ordinatamente riposti sulla destra, insieme a vari fogli e stilografiche; oltrepassarono la soglia guardandosi attentamente intorno e coprendosi le spalle a vicenda, controllando ogni anfratto, gettando occhiate furtive alle finestre che si affacciavano nella lugubre foresta immersa nelle tenebre.
    Maes fece ad Havoc un piccolo cenno con il capo e con due dita, intimandogli di seguirlo nuovamente nel corridoio scuro, ed entrambi ripresero a camminare inondando di luce le pareti con la lanterna che avevano con sé, puntando in ogni angolo le pistole che impugnavano, con l'ansia che si faceva sempre più strada nei loro cuori; al secondo piano, uno di loro poggiò una mano su una porta alla loro sinistra, rivelando una piccola stanza quasi completamente spoglia, dall'arredamento spartano dove c'era la sola presenza di un letto e una cassettiera accanto ad esso. E quando lo sguardo di entrambi si posò sul lenzuolo che copriva il materasso, Hughes sgranò gli occhi, facendo un passo indietro senza un motivo apparente.
    Havoc gli lanciò un'occhiata e, con la lanterna ben alta ad illuminare la stanza, si avvicinò al letto per toccarne la coperta, sporcandosi i polpastrelli delle dita di sangue. Fresco. Voltandosi verso il Sindaco, vide che era sbiancato. Si ripulì le dita sul cappotto nero, gettando un altro sguardo alla stanza.
«Hughes, tu credi che questo sangue sia...?» chiese appena, senza terminare la frase. Avrebbe voluto chiedere se fosse di chi credevano, ma non ne aveva il coraggio. Sembrava non voler avere realmente una risposta.
    Il Sindaco scosse la testa, tenendo lo sguardo basso mentre, senza proferir parola, usciva silenzioso come un'ombra dalla stanza, tornandosene nel corridoio. Havoc l'osservò sparire insieme alla scia della luce della lanterna che sorreggeva e, con un piccolo sospiro, si affrettò a seguirlo, guardando un'ultima volta le lenzuola. Sorpassate un altro paio di stanze, le cui finestre erano state coperte e chiuse da pesanti tendaggi di seta nera, tanto che persino i muri davano l'impressione di essere del medesimo colore, come se in quelle camere non entrasse la luce del sole da secoli, si ritrovarono in un grande atrio coperto da una cupola in vetro che si sorreggeva su intelaiature in fine metallo e pilastri completamente avvolti da edera.
    Hughes si guardò intorno, con la lanterna ad illuminargli la zona. Quando si erano ritrovati in quel maniero, dieci anni prima, lui e gli altri si erano limitati solo a controllare i paraggi o il primo piano di tutta la casa, era stato suo padre ad esplorare accuratamente la villa. Si stupì non poco, quindi, nel vedere come aveva vissuto un tempo quella famiglia. Voltò la testa verso Havoc, che si guardava nervosamente intorno mentre, posata la pistola, frugava nelle tasche, forse alla ricerca del suo solito pacco di sigarette; lo trovò e se ne accese una, tirandone una bella boccata, agitato. Si stava sfregando le dita dell'altra mano, mentre con l'altra avvicinava e allontanava la sigaretta dalle labbra, ispirandone il fumo fino in fondo ai polmoni. Ricevette da lui una fuggevole occhiata prima che, deglutendo quasi simultaneamente, riprendessero a camminare in quel grande atrio dal pavimento di marmo, con i loro passi che risuonavano sinistramente nel silenzio e nel vuoto.
    Scesero ben presto nuovamente ai piani inferiori, e anche qui, ad attenderli, c'era solo il nulla, avvolto nelle ombre sempre più fitte della notte. Dopo un lungo tragitto attraverso grandi corridoi bui, giunsero in un'altra stanza, così grande che avrebbe potuto benissimo ospitare una cinquantina di persone o poco più, arredata da una buona parte di scaffali impolverati dalle cui mensole sporgevano volumi e libri di ogni dove, qualche poltrona dal tessuto rosso consunto e un caminetto spento incassato alla parete.  La biblioteca del padrone, probabilmente.
    Un brivido corse lungo la schiena del Sindaco man mano che il suo sguardo si posava su quei frammenti di una vita passata in un'epoca a lui sconosciuta. I quadri lì presenti rappresentavano scene di caccia o i probabili antenati della famiglia - i tratti del viso allungati e spigolosi, i capelli biondi castigati in alte code, le espressioni austere e degne di chi era conscio del potere che possedeva -, mentre un grande arazzo prendeva gran parte della parete a nord, vicino alle grandi porte-finestre spalancate e dalle quali, di tanto in tanto, entrava un flebile e gelido alito di vento che smuoveva le tende scure.

    Uscirono da quella stanza e ripresero ad esplorare i dintorni del maniero, con una sempre più crescente agitazione che gravava nei loro cuori e nei loro animi; si spostarono verso il lato ovest del maniero, percorrendo l'unico lungo corridoio lì presente, dove il gelo sembrava quasi concentrarsi in una bolla d'aria. Piccole nuvolette di vapore uscivano dalle loro labbra quando respiravano, l'estenuante sensazione che avevano provato appena giunti ai cancelli del maniero era quasi sul punto d'intensificarsi, mentre continuavano la loro lenta, e vigile, traversata. D'improvviso, in un lampo azzurro e violaceo, le torce ai lati del corridoio guizzarono e si accesero, irradiando di luce il luogo in cui si trovavano. Si schermarono gli occhi per l'intensità, quasi storditi.
    «Che diavolo...?!» esclamò uno di loro, abbassando le palpebre per massaggiarle, accecato. L'altro intanto stava facendo lo stesso, intontito quasi quanto lui se non di più. Chinò il capo e anche la lanterna, sbattendo più volte le palpebre per abituare gli occhi a quella luce violenta e carica d'energia che aveva investito entrambi così fulminea, istantanea, poggiando la schiena contro il muro di destra per riprendersi almeno parzialmente. «Tutto okay, Hughes?» sentì chiedere, e scosse energicamente la testa alzando lo sguardo verso di lui.
    «Potrei stare meglio», rispose, aprendo lo sportellino della lanterna per spegnerla, dato che la sua luce era ormai inutile. «Ma non perdiamo altro tempo, muoviamoci».
    Havoc si limitò ad annuire, seguendolo per quel corridoio dove le fiamme delle torce creavano danze azzurrognole e infuocate sulle pareti dal colore giallognolo stinto e invecchiato.
Dopo minuti interminabili di cammino, sbucarono in un'ampia stanza, anch'essa completamente immersa nella penombra, se si escludeva la luce che proveniva dal corridoio. Fecero qualche passo avanti sporgendosi oltre il parapetto della ringhiera, gettando un'occhiata nella sala adiacente, inghiottita dall'oscurità. Solo verso sinistra, dove una fievole luce arancione sembrava riscaldare l'ambiente, un piccolo fuoco scoppiettante riusciva a dare un fuggevole assaggio di come la sala si presentasse. Qui, a differenza delle altre sale che avevano esplorato poco prima, regnava il più completo caos, persino sulle scale a chiocciola che davano nella stanza sottostante erano presenti frammenti di vetro e pezzi di legno appartenenti probabilmente a tavoli e sedie.
    Cautamente, stando vigili per non inciampare in nulla, scesero nella sala, osservando con minuziosa attenzione ogni particolare e facendo scorrere lo sguardo su tutto l'arredo disastrato lì presente, sul cadavere ancora riverso a terra che fece loro deglutire nuovamente, spostando poi lo sguardo e soffermandosi soprattutto sul piano ribaltato. E proprio lì, avvolto in un mantello nero rischiarato appena dalle fiamme, lo videro. Si stringeva convulsamente le braccia al petto, dondolandosi avanti e indietro senza tregua, la sua voce bassa e sommessa dava vita a parole dette in una lingua incomprensibile. D'un tratto si zittì e si fermò, voltando lentamente la testa verso di loro con uno strano sorriso amaro ad increspargli le labbra appena rosate.
    «Maes...» sussurrò languido, con voce cadaverica. «Maes... sei venuto a prendermi, finalmente».
    I due uomini osservarono impalliditi quel volto dai lineamenti delicati ma decisi, di una bellezza e di una giovinezza quasi impossibile, appena incorniciato da ciuffi di setosi capelli neri raccolti ora in una bassa coda. I canini, acuminati e bianchissimi, luccicavano sinistramente al di sotto delle sue labbra livide appena schiuse, alla luce del fuoco, e gli occhi, completamente neri come due pezzi di carbone, fissavano entrambi, immoti e vuoti.
    «Roy», disse Hughes in un bisbiglio sommesso, deglutendo ed avvicinando di qualche passo. «Mi... mi riconosci, adesso?» soggiunse, sebbene fosse una domanda retorica. Ma quando le labbra si stirarono in un piccolo sorriso privo d'emozione, scoprendo ancor di più le zanne, fu tempestivamente tirato indietro da Havoc. Gli lanciò un'occhiata come per capire che gli fosse preso, e lo vide trarre fuori dalla tasca una grande croce d'argento, quella che si erano premurati precedentemente di benedire in Chiesa.
    «Non muoverti, Hughes», gli intimò solo, avvicinandosi al vampiro. Si piegò sulle ginocchia, con la croce ben in vista, e alla vista di quella reliquia il moro si ritrasse con un guaito, come fosse un cane spaventato. Gli occhi d'onice si dilatarono e le narici presero ad annusare spasmodicamente l'aria, come se sentisse qualcosa di sgradevole aleggiare intorno a lui. Forse per effetto della croce, o di quella che doveva essere acquasanta che adesso gli bagnava la pelle del braccio, sfrigolando, il prete lanciò un sibilo stridulo, simile al lamento di un animale morente.
    Perché su di lui la croce faceva effetto? Eppure ricordava distintamente che con il vampiro di nome Edward non aveva funzionato. Forse perché lui non aveva ancora completato la transizione? Era mai possibile? Ritrovò un po' di sollievo solo quando l'uomo allontanò la croce e lo vide gettare uno sguardo alle sue spalle, dove incontrò le iridi smeraldo di Hughes, che osservava la scena esterrefatto, turbato. Si avvicinò subito, posando una mano sulla spalla di Havoc.
    «Non fargli del male, Havoc...» sussurrò, guardando il prete. «...sembra sia confuso».
    Lui gli allontanò piano la mano, scuotendo la testa.
«Confuso o meno, non possiamo rischiare», mormorò, tirando un lungo sospiro. «L'hai detto tu mentre venivamo qui che non è più umano, o sbaglio?» Si portò una mano alla cintola, pronto ad afferrare la pistola caricata con proiettili d'argento, ma si irrigidì quando, ancora una volta, la mano del Sindaco si posò sulla sua spalla.
    «Non puoi sparargli a bruciapelo», disse in tono basso, mentre sentiva gli occhi scuri del prete puntati su di lui.
    «Hughes, ragiona
», cominciò, riponendo la croce in tasca. «I vampiri sono non-morti, giusto?» lo sentì deglutire sonoramente. «Quante speranze hai, allora, di riportare tuo fratello com'era prima?»
    Cadde un sottile velo di silenzio. Si udivano solo i loro flebili respiri e quello quasi agitato del prete, che si stringeva ancora nel mantello nero, con il petto che gli si alzava e gli si abbassava come se il suo cuore battesse impazzito. Il pensiero comune era uno solo. Ucciderlo adesso o aspettare. Non capivano, inoltre, come mai la casa fosse vuota, come mai non ci fossero i vampiri che l'avevano occupata per chissà quanto tempo. Perché, se erano tornati dopo anni, non ne approfittavano per farlo fuori lì, nella loro tana? Cosa diavolo stavano aspettando quei mostri? La situazione era ancor più complicata di quanto fosse stata all'inizio.
    Il Sindaco sospirò tristemente, abbandonando le sue supposizioni.
«Non lo so, Havoc», sussurrò concitato. «Davvero, non lo so», lo guardò, gli occhi color smeraldo esprimevano supplica. «Ma cerca di capirmi. Tu avresti mai il coraggio di abbandonare qualcuno della tua famiglia?»
    Il biondo abbassò lo sguardo, non riuscendo a sostenere il suo. Nay, lui non ce l'avrebbe mai fatta. Ancora adesso sognava di quel terribile giorno in cui aveva perso la sua fidanzata. Avrebbero dovuto sposarsi non più di un mese dopo, se non fosse morta a causa di quelle creature. Ben capiva, quindi, quale sofferenza potesse essere per Maes Hughes abbandonare quel prete, quel prete che era stato per lui come un fratello sebbene non ci fossero mai stati legami di sangue tra loro. Ma potevano rischiare così tanto, mettendo in pericolo la popolazione?
«Comprendo cosa provi Hughes, però...» disse piano, sentendosi a disagio. «Non dovremo...»
    «Maes...» si fece sentire la voce del prete, interrompendo Havoc e osservando con i suoi occhi d'onice, scuri e dilatati, il suo amico.
«Ti supplico, portami via da qui».
    I due uomini lo guardarono increduli. Era diverso da come il Sindaco l'aveva visto nel vicolo, così privo d'ogni emozione e silenzioso, come fosse una marionetta nelle mani di un burattinaio. Ora, invece, quasi gli ricordava l'amico e il fratello che aveva imparato a conoscere. Cosa poteva significare? Che ci fosse ancora qualcosa di umano, in lui? Ma era mai possibile?
    Il prete si mise in ginocchio, guardandolo con in volto una smorfia di puro terrore. «Portatemi via prima che non sia più me stesso», prese a sussurrare, stringendo spasmodicamente le fredde mani attorno al cappotto dell'uomo.
«Ti prego».
    Deglutendo al contatto per una qualche strana ragione che lui stesso non capiva, il Sindaco sollevò con mani tremanti il viso del prete, lo smeraldo dei suoi occhi incontrò quell'onice vacuo. «Che vuoi dire con questo?» gli chiese sgomento, deglutendo ancora.
«Che intendi con... te stesso?»
    Il giovane vampiro moro abbassò lo sguardo, atterrito. Sembrava stesse cercando le parole giuste per spiegarglielo. Ma, precisamente, per spiegargli cosa? «Ci sto provando
», disse in tono flebile, respirando quasi affannoso. «Ci sto provando da dieci anni a combattere, ma...» le mani abbandonarono il cappotto, per raggiungere la testa, che iniziò a dolergli e la scosse con forza. «Non ci riesco, Maes! Non ci riesco! E' troppo... troppo potente!»
    Il Sindaco gli lanciò uno sguardo obliquo prima di trarre un lungo sospiro, gettando un'occhiata di sottecchi anche ad Havoc, che era rimasto in disparte. Riportò la sua attenzione sul moro, chinandosi verso di lui.
«Ce la fai a camminare?» gli domandò a bassa voce.
    Senza parlare, Roy annuì piano, poggiando entrambe le mani sul pavimento per acquistare equilibrio. Una volta in piedi fece esitante qualche passo, come nel tentativo di far rispondere le gambe ai suoi comandi, e una volta esserci riuscito seguì gli altri due su per le scale senza badare al putiferio che lui stesso aveva creato
, avvolto da uno strano gelo che sembrava scaturire dal suo stesso corpo.
    Il silenzio regnò fra loro anche nel corridoio ancora illuminato dalle torce, mentre il moro si stringeva sempre di più in quel mantello che gli nascondeva il corpo coperto da un leggero pantalone nero e una camicia bianca, gettandosi ansiosi sguardi intorno come se temesse di essere tenuto d'occhio. Sussultò quando sentì il suo amico cingergli delicatamente i fianchi e, senza volerlo, snudò le zanne candide, emettendo un basso ringhio.
    Hughes si ritrasse svelto e Havoc si portò subito una mano alla cintola prendendo la pistola per puntarla al capo del prete che, nel frattempo, realizzato ciò che stava per fare, aveva sgranato gli occhi e chinato il capo, facendosi scorrere le mani su e giù sulle braccia in una bizzarra imitazione di chi cerca di scaldarsi.
    «Mi dispiace tanto, Maes... mi dispiace», sussurrò il prete, azzardandosi ad alzare lo sguardo verso i due uomini che camminavano al suo fianco ma che si tenevano a debita distanza.
    Tentennando e facendo cenno al biondo di abbassare la canna dell'arma, il Sindaco fece qualche passo verso il prete e, con attenzione, allungò piano una mano per posarla sulla sua spalla, sentendolo sussultare ancora una volta.
«Non ti preoccupare, Roy», sussurrò a sua volta, con voce incrinata. «Vedrai, sistemeremo tutto».
    A quelle parole, ricevette uno sguardo quasi assente dal prete che, annuendo piano e respirando appena dalle labbra schiuse, chinò il capo, stringendosi ancora un po' nel mantello.
«Taing cuidich, Maes [1]», gli mormorò, nella stessa lingua che aveva usato quella sera di dieci anni prima, quella sera in cui era morto e... rinato come vampiro.
    A Maes si serrò il cuore e chiuse gli occhi, con in volto un'espressione rassegnata. Li riaprì guardando il volto diafano del suo amico, mentre
dall'altro uomo, che sembrava non credere a ciò che si erano detti data la sua espressione più che scettica, si guadagnò un'occhiata stranita, ma proprio lui non aprì bocca, si limitò a seguire Hughes e il prete per le zone che avevano già visitato in precedenza, sentendosi di tanto in tanto gli occhi dell'ormai vampiro puntati su di lui, sentendosi quasi avvolto in una nuvola gelida che gli percorreva il corpo. Perché aveva un brutto presentimento? Cosa si nascondeva, in realtà, in quelle polle d'onice senza emozione che lo fissavano? Più ci pensava, più temeva di venir a conoscenza della risposta. E, nervoso, tirò nuovamente fuori dal taschino il suo pacchetto di sigarette, accendendosene un'altra per scaricare la tensione accumulata in quella notte.
    Sentì ancora una volta lo sguardo del prete addosso, e dopo aver tirato una profonda boccata, gli lanciò a sua volta un'occhiata, vedendo che i suoi occhi scuri erano puntati sulla sigaretta che teneva fra le dita, e le narici dilatate annusavano l'aria intorno a lui. Deglutì, distogliendo lo sguardo. Quegli occhi neri gli mettevano soggezione.
    Ben presto uscirono tutti e tre dal maniero
, portando fuori il prete nell'oscurità che imperversava, osservati intanto mentre si allontanavano, come al solito, da due figure che sorridevano compiaciute. Erano fuori, su uno dei balconi, con il vento freddo che scompigliava appena i capelli di entrambi. Uno dei due era intento a guardarsi distratto una mano, a differenza dell'altro che, a sguardo basso ma assolutamente concentrato, non perdeva di vista il suo piccolo tesoro che era adesso nelle mani di colui che cacciavano.
    «Splendido», fece la prima giovane voce, divertita.
«Queste sue doppie personalità ci torneranno davvero utili, a quanto sembra».
    L'altra figura rise. Una piccola risata, quasi lugubre, che sembrò risuonare nella foresta. «In un certo senso è un bene che il mio veleno agisca in questo modo», mormorò piano, con gli occhi d'ambra che fissavano persi il sottobosco.
    «Un modo come un altro per avvicinarci al nostro obiettivo, giusto?» chiese ancora la prima voce, facendo qualche passo avanti per poggiarsi di schiena alla ringhiera.
    «Aye», sussurrò, poi lo guardò con un cipiglio sarcastico, prima di gettare uno sguardo agli alberi dietro di lui.
    Il fratello minore stette ad osservarlo per un po', ritrovandosi poi a sollevare un sopracciglio.
«Ma non sarebbe stato più semplice farlo fuori adesso? Era nelle nostre mani», gli fece notare subito con disappunto, provocando lui solo un'altra debole e sinistra risata.
    «La vendetta, come ci ha insegnato nostro padre, è un piatto che va servito freddo», lo scrutò lentamente da capo a piedi, percorrendo con gli occhi la sua postura.
    Alphonse sollevò maggiormente le sopracciglia e alzò il mento, quasi infastidito da quell'attenzione.
«E da quando segui i suoi insegnamenti?» sbottò, lanciando appena uno sguardo al sorriso che era andato ad increspare le labbra di Edward, e quel sorriso non prometteva nulla di buono.
    «Quando mi fa comodo, ad esempio», disse, nel tono calmo e piacevole di chi intrattiene una splendida conversazione.
    La constatazione non fece altro che farlo accigliare maggiormente.
«Che intenzioni hai?» chiese, incuriosito e sbalordito.
    Il frusciare degli alberi e un lampo nel cielo attirò la sua attenzione, e annusando l'aria cominciò ad avvertire le prime tracce d'umidità, simbolo che il fratello stava progettando qualcosa che non gli sarebbe piaciuto affatto.
«Non lo immagini, Alphonse?» sussurrò mefistofelico.
    A quella sua affermazione, stranamente, al più giovane corse un brivido lungo la schiena. E il suo timore divenne più fondato quando lo vide sorridere.
«Stai ancora pensando a quella follia, vero?» domandò ancora, e il suo tono assunse un timbro preoccupato. Fin troppo, preoccupato.
    «Vuoi ancora sottostare a lui?» chiese di rimando Edward, guardandolo di sottecchi con i suoi occhi ambrati.
    L'altro boccheggiò un po', come se non sapesse cosa rispondere. Il rancore del fratello era così profondo che l'aria intorno a loro sembrava essersi raggelata, inghiottita persino dal buio che li circondava.
«Ti rendi conto che ha radunato gli altri, vero?» cercò di farlo desistere. In vita, trecento anni prima, erano stati due fratelli inseparabili. Le cose erano quasi capitolate da quando erano diventati vampiri. Solo di tanto in tanto ritornavano ad essere quelli di un tempo, ma non più di tanto.
    «So cos'ha fatto, e conto anche su quello», gli confessò, poggiando entrambe le mani sulla ringhiera che si ghiacciò al suo tocco. «Non si rivolteranno mai contro di me».
    «Ma neanche contro di lui», gli tenne presente Alphonse, allontanando la schiena dalla ringhiera.
    Edward lo guardò appena, senza il minimo entusiasmo, portandosi due dita alle labbra. Sembrava pensoso, mentre rifletteva sulle sue parole.
«Vero anche questo, ma il gioco vale la candela». Un ampio e impudente sorriso gli increspò le labbra, sotto lo sguardo stupito del più giovane. Si sporse verso di lui, avvicinandosi al suo orecchio.
    «Cosa credi di poter fare così, mo bhràthair?» bisbigliò concitato.
    Edward strinse brevemente le labbra, soffermando il suo sguardo sulla ringhiera ghiacciata che sembrava quasi brillare alla debole luce che filtrava attraverso le nubi sopra di loro.
«Se non fossimo diventati ciò che siamo, io sarei stato Laird al posto di nostro padre, e avrei vissuto come un normale essere umano...» sospirò triste. «...accanto a chi amavo».  I suoi occhi riflessero i frammenti di ghiaccio che fece esplodere con la forza della mente e che vorticarono docili intorno a lui come un mulinello. «E invece guarda cosa ci ho guadagnato... un'effimera immortalità a capo di una schiera di vampiri. Proprio il sogno di una vita, eh?» concluse con amarezza. La forza che l'aveva animato scemò a poco a poco, e i frammenti di ghiaccio caddero ai suoi piedi in una pioggia di brina che impolverò tutto di bianco. «Ma possiamo solo continuare ad andare avanti», riprese, osservando di sottecchi il giovane fratello che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «Anche se spesso mi viene voglia di espormi alle prime luci del sole solo per sentire l'odore del mio corpo che brucia».
    «Spero tu stia scherzando», disse serio Alphonse, ma ricevette uno sguardo che gli sembrò quasi sfociare nella pazzia.
    «Per adesso sì», ridacchiò Edward, con le labbra spiegate in un sorriso obliquo. «Un vero peccato che non possiamo ancora andare in giro di giorno come nostro padre». Si lasciò sfuggire un sospiro quasi cadaverico. «Abbiamo a nostra disposizione solo l'ultima ora del tramonto, prima di una notte che sembra infinita».
    «Non dire cose del genere, mo bhràthair», sussurrò. «Ormai non possiamo più tirarci indietro».
    Regnarono attimi di silenzio prima che Edward sbuffasse ilare.
«Alea iacta est [2], giusto?» recitò in latino, guardandolo di sbieco. «Ma se potessi scegliere, Alphonse, non ti piacerebbe poter tornare indietro?»
    Per un po' lo guardò a sua volta, quasi confuso come non lo era mai stato. Tornare indietro... a quando erano umani? Gli sarebbe piaciuto, certo, ma sapeva che non era possibile.
«Aye, mi piacerebbe», confessò tristemente. «Adesso però basta rivangare il passato».
    Sfuggì un sospiro dalle labbra livide del fratello maggiore. «Già, basta», mormorò. Ancora una volta, nel freddo della notte, il silenzio la fece da padrone aleggiando sinistramente fra i due fratelli, che si lanciavano di tanto in tanto qualche sguardo obliquo e anche dei mesti sospiri o sorrisi nel pensare ancora al passato, mentre la pioggia cadeva lentamente sulle loro teste. Poi alle spalle dei due, simile ad un fantasma, comparve la figura del padre, accompagnata come suo solito da uno dei suoi vampiri. Gli si avvicinò leggiadro e silenzioso, osservandolo appena.
    «Spero tu sappia cosa fai, Edward», gli disse, con la solita voce pacata. Sembrava, fortunatamente, che non avesse sentito nemmeno una parola del loro discorso, e le labbra del giovane si stirarono in un mesto sorriso.

    «Non si preoccupi, padre, ho un buon piano», sussurrò. E il suo piano, in quel momento, gli sembrava assolutamente perfetto. L'avrebbe fatta finita, finalmente. Dopo ciò di cui aveva parlato con il fratello Alphonse, era più intenzionato di prima a mettere la parola fine a quella sua inutile situazione.
    «Ma sembra che il nuovo Sindaco e quel suo amico conoscano alcuni trucchetti che potrebbero essergli utili», riprese il padre, e la voce gli si affievolì appena. «E ormai manca molto poco, lo sai».
    Edward si azzardò a voltarsi, facendo scorrere il suo sguardo ambrato dal volto diafano del padre a quello del suo accompagnatore. Ricevette da lui un'occhiata, e stirò maggiormente le labbra in un sorriso. Lui sarebbe stato sicuramente il primo, ad appoggiarlo.
«Me ne rendo conto, padre, ma non sono così sprovveduto», disse, prima di interrompersi per qualche secondo, come ad assaporare un qualcosa di oscuro. «Si ricordi solo della promessa che mi ha consesso, al resto ci penserò io».
    Un piccola risata si levò dal petto di Hohenheim.
«E come dimenticarla, tale promessa». mormorò, falsamente smielato. «Ma non riceverai nulla, se non andrà come previsto».
    «Ve l'ho ben detto, il mio piano è infallibile... difatti conto sulla sua sete di sangue», il sorriso così spietato che gli si disegnò sulle labbra era in contrasto con il suo volto. «L'odore sarà molto forte... cederà senza dubbio alcuno».
    «Tu credi davvero che lo porteranno al villaggio?» si intromise il fratello, e lui lo degnò appena di uno sguardo, tornando a far vagare la sua attenzione sul bosco sottostante.
    «Non esattamente», rispose pronto.
«E' probabile che lo portino prima in terra consacrata».
    «Nella sua Chiesa?»
    «Aye», scoppiò in una sonora risata, alquanto inusuale per lui.
«Per adesso lo terrò d'occhio, vedrò dove lo porteranno in seguito».
    Gli altri tre vampiri, incapaci di capire le sue intenzioni, si gettarono delle occhiate, come per interpretare qualcosa che era loro sfuggito. Gli occhi ametista di uno si posarono sul volto del suo padrone, prima di guardare la schiena del figlio, i cui capelli d'oro venivano lievemente scompigliati dal vento.
«E poi, signorino?» si azzardò a chiedere, dato che nessuno fiatava. I loro sguardi si fusero quando lui si voltò, e vedendolo sorridere l'aria intorno a loro quasi sembrò svuotarsi di tutto l'ossigeno presente, divenendo pesante e densa, quasi oleosa.
    «Se andrà come dico io, avremo uno dei nostri nella loro tana», mormorò, godendo dell'aria stranita che si era dipinta sul suo volto quasi nascosto dai lunghi capelli scuri.
    Il più anziano dei vampiri si concesse il lusso di un sorriso soddisfatto a quelle parole, ignaro delle vere intenzioni del figlio, senza prestar attenzione al suo servitore, che aveva invece solo una vaga idea, di ciò che il giovane avesse in mente. Si diresse lento e ancora una volta nella biblioteca del maniero, dove nei suoi meandri stava ancora avendo luogo la riunione con i suoi simili. «Perfetto».


ATTO TERZO. FINE





[1] Grazie (dell') aiuto, Maes [ Gaelico scozzese ]
[2] Il dado è tratto [ Latino ]




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