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Autore: SagaFrirry    22/10/2015    0 recensioni
Asteria è un pianeta diviso in 10 territori identici, ciascuno dei quali è governato da un diverso elemento. Questa storia narra le avventure attorno ad un mondo fantastico popolato da creature legate a Luce, Fuoco, Metallo, Terra, Roccia, Oscurità, Acqua, Ghiaccio, Aria ed Elettricità. Per compiere una missione di fondamentale importanza per la sopravvivenza del pianeta, creature estremamente diverse e solitamente rivali dovranno allearsi. Fra difficoltà, risse, assurdità e personaggi strambi, i dieci regni li attendono. Scritto nell'ormai lontano 2011, vede comparire alcune creature della trilogia "città degli Dei" (capitemi..è la mia prima storia, ci sono affezionata!) e tutti (e dico TUTTI) i personaggi presenti in questa storia sono persone reali. Amici, parenti, ex fidanzati..ovviamente modificati a dovere. Li vorrei ringraziare tutti ma non ho molto spazio. Spero vi divertiate, come io mi sono divertita a scrivere.
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 II

Il primo a giungere a casa, a Bahram, la propria capitale, fu Zameknenit. Gli era mancato il suo bel regno, il suo palazzo, la sua popolazione. Volando, grazie alle sue braccia alate, atterrò agilmente, lasciando dietro di sé qualche piuma verde. Gli edifici delle creature dell’Aria non presentavano mai enormi coperture ma prevalevano gli archi, le grandi finestre ed i tetti quasi del tutto inesistenti. Personalmente, il re dell’Aria preferiva le grandi volte in vetro spesso, per proteggersi dalla pioggia e dagli eventuali attacchi ma, con un complesso sistema ad incastri, riusciva ad avere solo il cielo sopra la testa perché il tetto in vetro si apriva. In quella bella giornata luminosa, i tetti di tutto il palazzo reale erano aperti ed il re atterrò nella grande sala del trono, fra i suoi archi, le sue volte e le vetrate colorate, circondato dalle sue guardie del corpo. Lo avevano scortato lungo tutto il viaggio, di andata e ritorno, ma se ne andarono subito, appena atterrati, in seguito ad un gesto del re.

Si stiracchiò, sedendosi sul trono, seguendo con gli occhi blu i disegni arancio che portava tatuati lungo tutto il corpo. Vestiva con una canotta nera, aderente, con evidenti cuciture di colore diverso, che lasciava libere le braccia piumate, e pantaloni rosso acceso, come i capelli del re. Chiuse gli occhi, riposandosi dal lungo viaggio. Tolse la corona e la appoggiò su un piccolo sgabello apposito con un bel cuscino imbottito. Dopo qualche minuto si udì un lieve tocco alla porta. Zameknenit rizzò le piccole orecchie a punta e, tenendo gli occhi chiusi, concesse il permesso di entrare a chi bussava, con un “Sì” convinto ed un borbottio di protesta sottovoce.

“Siete tornato, mio signore” si sentì dire.

“Nèxus! Mio consigliere…sono lieto di vederti. Stavo per mandarti a chiamare”.

“Va tutto bene?” si preoccupò il consigliere.

Era una persona anziana, con i capelli grigi, le folte sopracciglia e due baffi con pizzetto. Era vestito elegante, di scuro, con un alto colletto chiaro. Le ali le aveva rosse, sgargianti, intonate con gli occhi verdi. Serviva la famiglia reale fin da giovane, era alle dipendenze del padre e ora stava accanto al figlio. Lo aveva visto nascere e lo accudiva con affetto, soprattutto ora che non aveva più i genitori. Lo guardò con apprensione, quasi paterna.

“Tutto bene, non serve che ti preoccupi tanto per me. Non sono più un bambino! Ho passato i trent’anni!” ridacchiò Zameknenit, osservando il suo consigliere con un sorriso.

“Allora perché stavate per chiamarmi?”.

“Piantala di darmi del Voi! Te l’ho detto un milione di volte!” la voce del re ora era seccata.

Nèxus non rispose subito. Rimase in piedi accanto al suo sovrano seduto sul trono.

“Cosa posso fare per Voi, Signore?”.

Zameknenit sospirò. Un po’ per la cocciutaggine del suo consigliere ed un po’ per il ricordo delle parole del Signore dell’Est. Attese un attimo, cercando le frasi migliori per spiegare l’accaduto e nel frattempo guardava le colonne attorcigliate del suo palazzo. Raccontò i tratti principali di quella riunione, sorvolando su alcuni dettagli ma rimarcando sugli aspetti fondamentali del discorso.

“Quindi dovete scegliere la persona adatta per una missione delicata…”.

“Sì, infatti. Mi è stato suggerito di mandarci mio fratello ma…non credo sia il caso”.

“Forse dovreste chiederglielo. Il Vostro gemello ritengo possa scegliere da solo cosa fare. Di certo ha la prestanza fisica e le capacità necessarie per una cosa del genere”.

“È pericoloso, Nèxus. E lui si è risvegliato da troppo poco”.

“Ciò che è successo è gravissimo ma è un adulto, non potete tenerlo al guinzaglio. Dovreste proporgli la cosa. Se poi non se la sente, sceglierete con un diverso criterio. Non avete altri parenti in vita…”.

“Lo so bene! È per questo che non voglio se ne vada! Lui è tutto quello che ho…ho già rischiato di perderlo una volta e non gli permetterò di infilarsi in altri guai”.

“E come credi di impedirmelo? Rinchiudendomi in gabbia come un canarino?” si sentì da un punto imprecisato dell’immenso salone.

“Aherektess, fratello mio, sei tu?”.

“In persona, gemellino…”.

Il gemello del re era appollaiato su una delle aperture a bifora, evidentemente dopo essere sceso dall’arco in pietra che copriva un tratto della sala, dove era contenuto il vetro per chiuderla. Era rimasto nascosto, ascoltando tutta la conversazione, ed ora si era sentito pronto ad intervenire.

“Lasciaci soli, Nèxus” ordinò Zameknenit e il consigliere uscì con un inchino.

“Lo sai, Areky, che non è educazione origliare” parlò il re, quando fu solo con il gemello.

“E tu lo sai che non è educazione prendere le decisioni per gli altri?”.

“Sono un re…è il mio compito!”.

“Non per tutti. Non ti permettere di scegliere ancora per me”.

La determinazione del fratello stupì Zameknenit, che non rispose ed attese che il gemello si avvicinasse alla sua postazione, rimanendo seduto sul suo trono dorato. Aherektess scese, con gli stivali neri che ticchettarono sul pavimento azzurro a decori geometrici bianchi lucidi. Avanzò fra le colonne e raggiunse il fratello, dopo essere salito lungo i pochi scalini che rialzavano il trono dal suolo, fino a fermarvisi di fronte, con le mani sui fianchi e le gambe leggermente divaricate.

I due gemelli avevano colori speculari, come speculare era l’orecchino d’oro che portavano. Aherektess, con l’anello sull’orecchio sinistro, aveva gli occhi rossi, come i capelli del fratello, e la capigliatura blu scuro come le iridi del gemello. Le sue piume erano arancio e i tatuaggi, identici a quelli di Zameknenit, spiccavano sulla pelle chiara con il loro colore verde scuro.

Camminando, i lunghi capelli blu non si mossero. A differenza di quelli del re, presentavano un ciuffo che gli copriva parte del viso e non erano sparati in aria, bensì ricadevano fino a circa la fine della schiena, terminando con punte regolari.

I capelli degli abitanti del regno dell’Aria non si scompigliavano mai.

Era vestito di scuro, con la canottiera identica a quella del fratello, per lasciare libere le braccia, ma con dei decori argento. I pantaloni grigi coprivano la parte alta degli stivali neri ed erano sorretti da una grossa cintura da cui si poteva intravedere il fodero di un pugnale, da cui Aherektess non si separava mai. I due gemelli portavano lo stesso segno sulla fronte, una specie di V, dello stesso colore dei tatuaggi. Erano entrambi piuttosto magri, con degli zigomi alti ed un naso aquilino piuttosto particolare. Impossibile non capire che erano gemelli.

Aherektess incrociò le braccia ed attese spiegazioni dal fratello, che si limitò a guardarlo dal basso restando seduto.

“Tutto ciò che ho fatto fin ora è stato proteggerti, Areky” parlò, calmo, il re.

“Non mi serve la tua protezione” sibilò, di risposta, il principe.

“Ti sei svegliato solo di recente da un lungo coma, non hai idea di come sia fatto il Mondo. Non potrei mai permettere che ti accadesse altro…”.

“Per quanto tempo intendi stressarmi con questa storia del coma?! Mi sono svegliato, ok? E questo è successo più di un anno fa. Questa faccenda del viaggio mi piace. Avrei l’occasione di misurare me stesso, allontanarmi un po’ da qui, riprendere per davvero il contatto con la realtà. E poi non troverai nessuno più adatto di me ad una missione del genere”.

“Come puoi credere di esserne in grado? Fino a qualche mese fa facevi fatica perfino a correre!”.

“Ora sto bene. E voglio essere io il prescelto per il nostro regno. Ho bisogno di andarmene da qui, passare del tempo altrove…”.

“È per via di Miya?”.

“Per lei e per altro. Lasciami andare”.

“No. Non ne sei in grado e questa è la mia decisione definitiva”.

Aherektess indietreggiò di qualche passo, scendendo dai gradini, senza parlare.

“Cerca di capirmi, fratello…lo faccio per il tuo bene! Vedrai che…” iniziò a dire Zameknenit ma fu costretto a fermarsi, perché il gemello gli stava puntando il pugnale alla gola, dopo un agile salto.

“Che intendi fare?” mormorò il re, tentando di ostentare calma e sicurezza “Lo sai che mi basta urlare e subito sarai circondato dalle guardie”.

“E cosa credi di ottenere con un gesto del genere? Io ti avrò accoltellato prima del loro arrivo e non potranno più farmi niente perché sarò io il nuovo re. Ti ricordo che siamo rimasti solo noi di sangue reale…non farmelo versare inutilmente”.

“Vuoi uccidermi? Arriveresti a tanto?”.

“No. Voglio sfidarti. Ti voglio dimostrare che sono più forte e preparato di quanto tu possa credere. Accetti la mia sfida?”.

Il re annuì ed il gemello ripose il pugnale nel fodero, prima di sganciarlo e gettarlo a terra, ad indicare al fratello che voleva uno scontro ad armi pari. Zameknenit si alzò e raggiunse il gemello giù dagli scalini, scendendoli lentamente. Non apprezzava l’idea di combattere contro il fratello ma quello era testardo, lo era sempre stato, e doveva accontentarlo per fargli capire come stavano le cose. Si preparò a combattere, concentrandosi per richiamare l’energia magica di cui voleva far uso. Aherektess fece lo stesso, avvolgendosi in una corrente di luce magica di colore blu elettrico, esattamente come i suoi capelli. Cominciarono ad affrontarsi, dopo un grido che allarmò parecchio le guardie, che entrarono nel salone. Controvoglia non intervennero, dovettero lasciare la stanza per ordine del re. Aherektess scattò in avanti, cogliendo di sorpresa il fratello che si aspettava un combattimento a distanza con il solo uso della magia. Si ritrovò a terra dopo un poderoso calcio del gemello. Gemette, per la sorpresa e per la brutta sensazione che gli dava scivolare sul marmo con la pelle nuda, e si rialzò subito, accigliandosi. Se Aherektess voleva il gioco duro, sarebbe stato accontentato! Avrebbe avuto pane per i suoi denti. Si avventò sul fratello e lo colpì alla spalla con un pugno. Tentò di afferrargli il braccio ma non ci riuscì perché questi lo schivò facilmente e lo fece sbilanciare. Il re non cadde, girò su se stesso e parò un altro colpo che altrimenti lo avrebbe ributtato a terra. Stese il braccio e una scintilla di magia andò quasi a segno, Aherektess però fu più veloce e non si fece neppure sfiorare. Con un balzo all’indietro, Zameknenit si allontanò dalla traiettoria delle sfere magiche del gemello. Questi prese il volo, con un poderoso battito delle braccia, e si fiondò su di lui urlando. Il sovrano saltò e riuscì ad afferrare il suo avversario, buttandolo a terra. La reazione fu immediata: Aherektess si rialzò e ricominciarono a lottare velocissimi, in una lunga sequela di calci, pugni e colpi magici. Nessuno dei due sembrava prevalere sull’altro, e questo stupì parecchio Zameknenit ma, dopo quasi un’ora di lotta, il re commise un errore. Il fratello lo colpì più forte, forse richiamando a sé le ultime scintille di energia, e lo mandò a tappeto.

“Mi arrendo…” ansimò Zameknenit, notando che il gemello aveva impugnato un’altra volta il pugnale e lo teneva nuovamente vicinissimo alla giugulare del parente.

“Bravo…” rispose Aherektess, ansimando dalla fatica pure lui e sogghignando dalla soddisfazione “…anche perché se no ero costretto a dire a tutti che, anche se siamo gemelli, sono nato qualche minuto prima di te e quindi il trono è mio”.

Zameknenit rimase sconcertato da quelle parole e rimase a bocca aperta.

“Tranquillo…” aggiunse il fratello dai capelli blu “…non ci tengo a diventare re. Ora ricomponiti…e dai ordine di preparare la mia partenza!”.

Il vincitore aiutò lo sconfitto a rialzarsi, porgendogli la mano. Rimasero seri qualche istante ma poi si sorrisero. Era da quando erano bambini che non si affrontavano!

“Anche quando eravamo piccoli vincevo sempre io…” disse Aherektess, cercando di minimizzare l’ansimare delle sue parole “…comunque sei diventato bravo!”.

“Anche tu. Non me l’aspettavo…complimenti” rispose il re, piegato con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.

Dopo essersi ripreso, il sovrano lasciò la sala, mentre il fratello volava via, diretto verso le sue stanze. Subito dietro la porta trovò Nèxus ad attenderlo, preoccupatissimo.

“State bene? Cosa è successo?” domandò il consigliere, allarmato.

Zameknenit non fermò il suo passo, col dorso della mano pulì distrattamente un rivolo di sangue che usciva dal lato delle sue labbra, e nemmeno voltò lo sguardo.

“Prepara le cose necessarie per far partire Aherektess…” si limitò a dire “…sarà lui il rappresentante del regno dell’Aria al cospetto del Signore dell’Ovest”.

“Sì…sì, signore!” rispose Nèxus, dopo un attimo di smarrimento.

“E rimuovi il sigillo che gli impedisce di lasciare il palazzo…ora lasciatemi in pace. Ho bisogno di riposare” sbottò ancora il re e si rinchiuse nelle sue stanze, senza aggiungere altro.

 

†††

 

Ozymandias sbadigliò. Le riunioni del Signore dell’Est lo annoiavano, solitamente, ma quella aveva lasciato un’impronta non indifferente sul suo animo. Iniziò a vagliare ogni diversa possibilità…chi mandare dal Signore dell’Ovest? Doveva essere una persona di cui fidarsi ciecamente, altrimenti non avrebbe mai potuto affidargli l’unica chiave d’accesso al palazzo dell’Ovest, e doveva avere determinati requisiti. Per una creatura d’ombra non era di certo difficile attaccare e difendersi, era praticamente impossibile colpirle o ferirle, ma la maggior parte di loro stava benissimo dove stava. Amava restare nel buio del regno, senza uscirne per nessuna regione. Di certo, però, lui era il re e quindi avrebbe costretto il candidato ideale, se fosse stato necessario!

Camminava fluttuando per il suo palazzo nero, senza finestre né luci, orientandosi e vedendo benissimo con i suoi grandi occhi d’argento. Brillavano come piccole stelle nel buio totale, girando a destra e a sinistra in cerca di un qualche tipo di ispirazione. Scartò subito un paio di possibili campioni perché con moglie e figli, non avrebbero mai lasciato il regno a lungo. Di altri non poteva effettivamente credere alla loro reale fedeltà e li saltò. Si concentrò sui suoi consanguinei. Sua sorella, con i nipotini, non si sarebbe mai mossa. I figli di lei, con i bambini piccoli, tanto meno.

Ad un tratto, lungo il corridoio, avvertì chiaramente una presenza e la riconobbe subito. Sorrise, per quanto un’ombra possa sorridere, ed aprì le braccia. Sua figlia, l’unica che aveva, era venuta a dargli il “bentornato”. Si abbracciarono, divenendo per qualche istante un corpo solo, nero e quasi incorporeo. Sembrava di buon umore ma il padre notò subito una punta di malessere negli occhi argentati della sua bambina, simile a quello che aveva quando era partito. Si accigliò.

“Cosa ti turba, piccola mia?” domandò, preoccupato.

“Niente, papà. E non sono una bambina già da un po’…piuttosto, com’è andato il viaggio? E la riunione? Perché siete stati convocati?”.

Ozymandias la guardò. In effetti non era più una bambina, non più. Anche se era piuttosto minuta e bassa di statura, ormai era praticamente una donna ed era tempo che iniziasse ad accettarlo.

Si assomigliavano molto. Oltre agli occhi, identici, si potevano distinguere lunghi capelli mossi e fluttuanti fino quasi ai piedi di entrambi. Solo che il sovrano dell’Oscurità era piuttosto grosso mentre la principessa sembrava poter essere portata via dal vento da un momento all’altro.

“Sei andata via, sei uscita da palazzo, mentre io non ero presente?” parlò il re, con voce profonda e vibrante, rimbombante.

“No. Sono rimasta qui, ad occuparmi delle faccende di cui potevo occuparmi, come mi avevi detto”.

“Però…ti sarebbe piaciuto andartene?”.

La figlia attese prima di rispondere ma poi annuì.

“Perché, Lehelin, non ti piace stare qui?”.

“Non è che non mi piaccia stare qui…è che ho il desiderio di cambiare ogni tanto…di allontanarmi. So che il mio compito sarà divenire regina dell’Oscurità, ma sento che qualcosa mi manca e non è qui. Forse mi sto sbagliando…forse sono tutta matta!”.

“Non sei matta. Se senti che ti manca qualcosa…ma cosa credi che sia?”.

“Non lo so! È per questo che mi sento una povera pazza. Perché giro in cerca di qualcosa che forse nemmeno esiste…”.

“Farei qualsiasi cosa per renderti felice. Dimmi cosa posso fare…”.

“Non so nemmeno questo…”.

Il sovrano non parlò. Ad un tratto un’idea, fulminea ed inattesa, gli balenò in mente e la sua lingua parlò, senza nemmeno dare tempo al cervello di elaborare il tutto.

“Ti piacerebbe fare un viaggio?” disse.

Nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole già se ne pentiva e si chiedeva cosa diavolo gli era passato per la testa.

“Un viaggio? Sì! Dove, papà?” rispose, piena d’entusiasmo, Lehelin.

“Attorno ad Asteria. Per ordine dei Signori dell’Est e dell’Ovest” spiegò il padre, sempre pentendosi di averne parlato.

“Da sola?”.

“Con altri nove. Rappresentanti ognuno di un regno diverso dal nostro”.

“Quindi niente gente dell’Ombra, niente guardie del corpo scelte da te, solo persone nuove e sconosciute verso terre che non ho mai visto né immaginato?”.

“Più o meno…se non te la senti posso capirlo. È rischioso e nessuno sa dirti cosa esattamente incontrerai lungo il cammino. Dicono che sarete una squadra, un’alleanza…ma per me, alla fine, vi ritroverete a dover pensare ognuno per sé”.

“Meglio, no?”.

“Sì, meglio ma…l’idea di saperti là fuori da sola…senza nemmeno la consapevolezza di cosa ci vai a fare perché la missione non mi è stata spiegata del tutto…mi mette ansia!”.

“Papà! Non ti devi preoccupare. Sono la migliore incantatrice del regno, dopo di te ovviamente, sangue del tuo sangue, vedrai che andrà tutto bene!”.

“Vuoi partire, dunque?” mormorò Ozymandias, avendo un tuffo al cuore al solo pensiero di separarsi dalla sua unica creatura per un periodo lungo come un viaggio attorno ad Asteria. Solamente con lei mostrava quel lato quasi tenero, e raramente, ma in quel caso non poteva fare a meno di lanciare uno sguardo di supplica alla figlia affinché cambiasse idea. Ovviamente la principessa ignorò del tutto quello sguardo e confermò le sue intenzioni: partire e rischiare!

“Lascia almeno che ti spieghi tutto ciò che mi è stato detto…”.

“Parla pure, papà. Ma tanto ormai ho già deciso!” sogghignò, entusiasta, Lehelin.

Ozymandias sospirò ed iniziò a raccontare, suscitando sempre più convinzione nella figlia, nonostante il suo intento fosse opposto. Si parlarono camminando per il corridoio, lungo il quale erano esposti i quadri dei ritratti di famiglia, fra gli inchini di guardie e servitori che incrociarono.

Il sovrano, con la corona nera piena di spuntoni che veniva sorretta dalla massa d’ombra fluttuante dei suoi capelli, capì che nulla avrebbe potuto far cambiare idea a quella cocciuta signorina dell’Oscurità ed iniziò a riempirla di raccomandazioni, ignorando gli sbuffi della figlia.

“Non sono più una ragazzina…ho passato i venti! E anche da anni!”.

“Voglio solo che tu sia al sicuro. Ed il mio compito è quello di darti consigli, da bravo padre…”.

“E va bene…spara pure tutti i tuoi consigli, ma rilassati!”.

“Innanzitutto preparati all’idea che viaggerai con nove individui molto strani. Hanno le ali, le squame, strane luci sulla pelle…sono tutti particolari!” iniziò Ozymandias.

“Immagino che per loro noi siamo altrettanto strani…”.

“Sì, sicuramente! Basta vedere gli sguardi terrorizzati che mi lanciava quel pivellino del re dell’Aria! Sembrava un marmocchio abbandonato, un pulcino implume!”.

“Zameknenit?”.

“Sì. Proprio lui! Chissà chi manderà come rappresentante del suo regno…vedrai! Alcuni di loro sono davvero pittoreschi. E pericolosi. Ricordati che è difficile ferirci ma la vicinanza della luce può essere dannosa, molto dannosa! Perciò, anche se non so chi verrà scelto come rappresentante del regno della Luce e del Fuoco, ti consiglio di stare molto attenta perché potresti subire delle conseguenze poco piacevoli”.

“Starò attenta, papà. E vedrai che, quando tornerò, sarò pronta a restare qui come futura regina”.

Ozymandias annuì, poco convinto. Accompagnò la figlia fino alle sue stanze.

“Fra un mese sarai al cospetto del Signore dell’Ovest. Preparati come meglio credi…”.

Lehelin fece un cenno con la testa ed entrò nella sua stanza, tutta nera e lucida. Allungò la mano ed il suo adorato corvo dagli occhi blu vi si appollaiò sopra. Per quell’uccello era stata aperta una finestra ad arco da dove si poteva vedere il cielo sempre buio, tranne che per i satelliti e le stelle che brillavano su Varuna, la capitale del regno dell’Oscurità, e la principessa dei corvi guardò quel cielo e sorrise.

 

†††

 

La regina del mondo del Ghiaccio, Rocana, aveva già deciso chi scegliere per la missione dei due Signori, Est e Ovest, ed arrivò a casa di buon umore. Si sentiva rassicurata da quest’idea ed entrò nella sua dimora di cristallo piuttosto tranquilla. Salutò le sue dame di corte ed andò di corsa a rinfrescarsi, dopo il lungo viaggio lontana dalle temperature a cui era abituata. Dopo aver fatto un bel bagno, si rivestì con una lunga tunica bianca ed un mantello azzurro pallido con il bordo di pelo. Infilò i guanti ed uscì in giardino, dove aveva sentito delle voci a lei familiari.

Camminò sulla neve, con gli stivaletti imbottiti e sorrise. I suoi tre figli erano lì e si stavano esercitando. Aveva due maschi ed una femmina. Subito mise gli occhi sul primogenito che aveva da poco compiuto i trent’anni. Era muscoloso, biondo, con i capelli raccolti in un piccolo codino ed il pizzetto. La regina aveva stabilito che era lui il prescelto per il viaggio. Era forte, coraggioso ed avvezzo a situazioni particolari avendo passato quasi una decina d’anni nell’esercito.

La madre gli sorrise e fece un cenno ai tre di riporre le armi e venirla a salutare. Il secondogenito fu il primo a raggiungere Rocana. Aveva i capelli più scuri del primo nato ma molto più corti ed era senza barba. La ragazza, la figlia più giovane, fece una corsa ed abbracciò forte la madre, con la lunga treccia bionda che saltò dietro di lei. Aveva quattro anni in meno del primogenito e due anni di differenza dal secondo, ovviamente era per tutti la piccola di casa.

Anche il padre lasciò i suoi affari e venne a salutare la moglie. Era Rocana la discendente della famiglia reale e quindi spettava a lei presentarsi alle riunioni dei Signori di Est e Ovest, mentre il marito svolgeva i soliti compiti burocratici tipici dei reali. Re e regina si baciarono dolcemente e poi la sovrana iniziò a spiegare ciò che era stato stabilito alla riunione.

Nevicava molto ma per gli abitanti del regno del Ghiaccio non era un problema. Con il freddo si rafforzavano e vivevano meglio. La loro pelle, bianco latte con qualche innesto simile al vetro, incorniciata sempre da capelli biondi, di tonalità diverse, assieme agli occhi azzurri o verde chiaro, li rendevano inconfondibili fra le creature di Asteria. Eran tutti alti, la corporatura degli uomini era robusta, con larghe spalle ed ampio torace, mentre le donne presentavano sempre forme generose ed agilità nei movimenti. La famiglia reale rispettava pienamente quei canoni: c’erano solo iridi azzurre, bellissime e luminose, ed i loro fisici presentavano tutti i tratti tipici di quel reame.

I fiocchi non si scioglievano se non dopo tanto tempo sui capelli dritti e biondi della regina mentre raccontava. Su quelli del re si notavano di più perché aveva la capigliatura leggermente più scura, come il secondogenito. Sui tre figli questo fenomeno non avveniva perché continuavano ad agitarsi, impazienti di sentirsi spiegare ogni cosa.

Terminato il racconto, Rocana guardò il suo primo figlio ed affermò che sarebbe stato lui ad affrontare quel viaggio, con un tono che non ammetteva repliche. Sul viso del maggiore si formò una smorfia di fastidio, era evidente che non gradiva molto quella prospettiva. Tentò di aprir bocca per protestare ma la madre non accennava a fare silenzio.

“Partirai fra breve…” stava dicendo la regina “…perché fra meno di un mese dovrai presentarti al cospetto del Signore dell’Ovest. Ti consegnerò la chiave ed ogni tipo di informazione utile al riguardo. Come futuro re, mi aspetto che tu renda onore alla nostra meravigliosa razza e sono certa che non mi deluderai. Puoi iniziare a prepararti già da ora, come meglio credi”.

Il principe approfittò della pausa per esprimere il suo parere: lui non voleva partire.

“Come mai? Qualcosa ti spaventa?” si allarmò Rocana.

Subito lui scosse la testa.

“Non ho paura del viaggio, madre…è solo che non voglio allontanarmi troppo a lungo da qui”.

“Spiegami come mai, allora!”.

Non ci fu risposta ma il padre sorrise.

“Quello sguardo…” spiegò alla moglie “…può voler dire solo una cosa: una donna. Nostro figlio non vuole allontanarsi da una bella fanciulla per troppo tempo”.

“È vero?” si stupì Rocana ed il figlio non disse nulla, nemmeno annuì, ma arrossì leggermente e questo alla regina bastò.

“Se è così…partirà tuo fratello!” affermò, sorridendo, ed indicando il secondo nato.

“Sempre che anche tu non abbia niente in contrario…” aggiunse il re.

Il secondogenito alzò le spalle come a voler dire “per me è uguale, non ho niente da obiettare”.

“Allora è deciso! Sarai tu a partire, Igorhay” ordinò il re, soddisfatto quanto la regina.

I sovrani fecero per andarsene, prendendosi a braccetto fra la tormenta, quando una voce che fin ora non si era fatta sentire pronunciò un seccato “E io?!” stupendo gli altri membri della famiglia.

A parlare era stata Hanjuly, la terzogenita, che se ne stava imbronciata e con le braccia incrociate, lanciando sguardi d’accusa ai parenti.

“Tu cosa, mia cara?” si informò la madre.

“Perché non avete preso in considerazione anche me? Io so combattere, probabilmente meglio di questi due…” indicò i fratelli “…e potrei farcela”.

“Ma tu sei una principessa e ad una principessa non si addicono certe cose” si giustificò il padre.

“Stronzate!” sbottò lei, offesa.

“Come non si addicono ad una principessa parole del genere!” la rimproverò la regina, sconvolta dal comportamento della figlia.

“Non sono una delicata e mite fanciulla, e lo sapete tutti quanti molto bene! Avanti, Igorhay, diglielo anche tu che ti sconfiggo sempre quando ci alleniamo fra di noi!”.

“Molto sconveniente che una principessa combatta…”.

“Ma dai, mamma! Anche tu combattevi quand’avevi la mia età! Non lo ricordi più?”.

“Io ero la futura regina. Ho dovuto farlo. Ma avrei tanto voluto farne a meno”.

“Beh, io voglio l’opposto! E sono brava, perciò non vedo dove sia il problema!”.

“Non importa se non vedi il problema, signorina…” alzò la voce il re “…tu non andrai da nessuna parte. A partire sarà tuo fratello Igorhay, e con questo considero conclusa la faccenda!”.

Detto questo, ignorando le proteste della figlia, i genitori se ne andarono, rientrando nel castello di cristallo. Hanjuly, frustrata, cominciò ad inveire al vento, usando parole che decisamente poco si addicono ad una fanciulla, sicura che tutti potessero sentirla. Pestò i piedi nella neve, mentre anche i fratelli si allontanavano, ridacchiando.

Protestò per giorni interi, fuori e dentro il palazzo ad Enrivai, la capitale, con tutti coloro che gli capitavano a tiro, sempre usando toni e termini poco principeschi. Per quasi due settimane tentò con questa “politica del terrore” ad ottenere ciò che voleva ma non ottenne nulla, se non aspri rimproveri che nemmeno da ragazzina si era sentita rivolgere. Afflitta, abbandonò quella tecnica e cambiò tattica: provò con le suppliche e con i lamenti. Inseguì i genitori ed i fratelli tentando di convincerli. Voleva ad ogni costo ricevere una possibilità per poter dimostrare il proprio valore e non essere considerata una semplice principessina stile bambola di porcellana. Rabbrividì. Con un vestito adatto, che non avrebbe mai indossato, ed il tipico tipo di pelle del regno del Ghiaccio, bianco e liscio come il vetro, poteva divenire davvero una specie di bambola di porcellana ambulante! Non desiderava di certo un’immagine simile su di sé ed ora le si presentava l’occasione adatta per sfatare ogni dubbio dai sudditi e dai familiari. Nonostante la sua convinzione e determinazione, però, i genitori non cedettero di un passo sulle loro posizioni. Non le accordarono il permesso di partire. E neppure Igorhay sembrò volerla accontentare, nemmeno quando lei mostrò tristi occhi da cerbiatta o lo minacciò con uno stivale. Nemmeno sotto tortura, solletico o pizzicotti, o promesse di vendetta. Ormai il giorno della partenza era prossima, ed Hanjuly dovette arrendersi all’evidenza che non si sarebbe allontanata da quelle pareti di cristallo, non sta volta. Sospirò, avrebbe dovuto aspettare la prossima occasione.

 

†††

 

“Kassihell!” tuonò Vehuya, piombando senza preavviso nell’edificio dove il figlio si allenava sempre, spalancando le porte scorrevoli quasi con rabbia.

Non aveva fatto notare a nessuno il suo ritorno il re del Fuoco, ma si era subito presentato in presenza del principe ereditario, in un modo tale che allarmò tutte le guardie ed i presenti nell’edificio. Tutti tranne Kassihell, che rimase immobile, scalzo sul pavimento nero, probabilmente di lava levigata. Accanto a lui i suoi avversari restavano seduti, sconfitti e stanchi, ma sobbalzarono all’arrivo del re, sorpresi e spaventati. L’edificio, molto simile ad un tempio, situato nel cortile interno del palazzo reale, tremò all’ingresso di Vehuya, così impetuoso ed energico. Le fiamme delle lanterne circolari, appese al soffitto, si protesero verso di lui, riconoscendolo come il maggiore rappresentante del proprio elemento. Kassihell non si scompose e continuò i suoi esercizi con la spada, molto simile ad una Katana, senza sbagliare nemmeno un movimento.

“Kassihell!” tuonò di nuovo il sovrano del regno del Fuoco.

“Non serve mica gridare…sono qui! Cosa vuoi?” sbottò il principe, senza interrompere l’allenamento e senza rivolgere gli occhi verso il genitore, dandogli le spalle.

I due si assomigliavano molto. Stesso sguardo, con quegli occhi leggermente a mandorla, stessi tatuaggi di fiamme e simboli su braccia, busto e resto del corpo, stessi capelli mossi e fisionomia. Kassihell, però, non aveva la barba lunga a treccia come quella del padre. La teneva sempre di qualche giorno, assumendo un aspetto piuttosto trasandato, unito ai capelli lunghi fino alle spalle che non vedevano un pettine da tempo imprecisato. E non aveva gli occhi rossi, come Vehuya, ma nocciola. Entrambi non erano né alti né massicci, con spalle strette e piedi piccoli. Non li si poteva definire minuti, la loro muscolatura era evidente, ma non eccessiva. Sapevano, tuttavia, di essere fra gli abitanti più temibili del pianeta. Il padre restò a guardare il figlio mentre, indossando solamente degli ampissimi pantaloni scuri sorretti da una cintura, riusciva a combinare i movimenti della sua spada con il controllo del fuoco, manovrandolo a suo piacimento. Di certo l’uso di quell’elemento non lasciava impuniti: ogni creatura del Fuoco presentava almeno una cicatrice o bruciatura. Ovviamente Kassihell ed il padre non erano da meno, ed ognuno di quei segni era motivo d’orgoglio perché indicava il coraggio di aver domato le fiamme. Vehuya impartì l’ordine che tutti, tranne il principe, abbandonassero l’edificio, lasciandoli soli. Solo in quel momento il figlio si fermò. Si girò verso il padre, sempre con la Katana in pugno. Lo fissò con aria interrogativa ed accigliata. Sperava davvero che il suo vecchio non gli chiedesse di sfidarlo di nuovo, perché sapeva benissimo di aver ormai superato il genitore e lo aveva dimostrato più volte. Non amava essere interrotto nei suoi esercizi e quindi puntò la spada verso il padre, ripetendo con più convinzione il “Cosa vuoi?” che gli aveva rivolto prima, con un tono piuttosto minaccioso.

“Preparati. Fra meno di un mese dovrai essere al cospetto del Signore dell’Ovest” ordinò Vehuya.

“Come scusa?” si stupì Kassihell, abbassando il braccio armato.

“Non mi hai sentito? Ti ho dato un ordine”.

“Ma io non ho alcuna intenzione di muovermi da qui!”.

“Ed io ti dico che lo devi fare per forza perché sono l’imperatore e mi devi obbedire. È tuo dovere darmi ascolto e fare ciò che ti dico!” ghignò con rabbia Vehuya.

“È da quasi trentasei anni che non ti do ascolto e non faccio ciò che dici…cioè, praticamente, da quanto sono nato!”.

“Non sarebbe ora che iniziassi?”.

“Assolutamente no. E poi, scusa, mia moglie ed i bambini dove li mettiamo? Come faccio a lasciarli da soli per fare non so bene che cosa?”.

“A loro penserò io per tutto il tempo che sarà necessario”.

“Non ti affiderei nemmeno le mie pantofole, figuriamoci la mia famiglia!”.

Vehuya stava per rispondere, con un guizzo di fiamma negli occhi rossi, quando una voce squillante e femminile risuonò dietro di lui. Una giovane, sulla ventina, gli saltò sulla schiena chiamandolo papà. Era Assahaleya, la principessa dai capelli neri. Kassihell le sorrise. Guardandola si capiva che non era figlia del re del Fuoco, bensì di una “scappatella” della regina, ma nessuno nel regno aveva il coraggio di dirlo, nemmeno il sovrano stesso. Dietro di lei arrivò Corihin, la regina, parecchio più giovane del marito e con gli stessi capelli neri e dritti della figlia, lunghi fino alle spalle. Gli occhi nocciola erano l’eredità che aveva trasmesso al primogenito che aveva, nel frattempo, riposto la spada con cura.

“Bentornato, caro” salutò il consorte.

Era vestita con un elegante abito da sera, aderente, come la figlia, stretto in vita da un’ampia cintura. Camminava a piccoli passi sui sandali alti, infradito, e si copriva dagli sbuffi di cenere del vicino vulcano con un ombrellino a fiori di colore delicato.

“Lieto di vederti, mia Geisha” le rispose il marito.

“Non chiamarmi così” lo rimproverò lei e lui sorrise, chinando la testa leggermente, sempre con la principessa ben ancorata alla schiena, con le braccia attorno al collo.

“Sei tornato senza nemmeno avvertire. Tutto il viaggio da solo…ma vedo con piacere che stavi parlando con Kassihell…” riprese Corihin.

“Sì, cara…stavamo per…prendere il the!” mentì Vehuya.

“Già, il the!” confermò il principe, non volendo rendere noti gli screzi che aveva spesso con il padre, accingendosi a preparare un tavolino per rendere la cosa credibile.

“Ah, bene…per una volta non litigate” sorrise la madre, falsamente, comunicando che non potevano prenderla in giro.

“Stavo dicendo al nostro adorato figlio che spetta a lui fare ciò che gli ho ordinato, se non vuole che a rischiare la vita sia la sua amata sorellina, ma a quanto pare non ha voglia di obbedirmi…” spiegò Vehuya, con il tono più falso e distorto che potesse avere.

“Che dici? Kassihell! Di che si tratta? Metteresti davvero in pericolo tua sorella?” si allarmò Corihin, mentre Assahaleya si staccava dalla schiena del sovrano.

“In pericolo in che modo?” squittì poi, sorridendo.

“Non ti metterei mai in pericolo, sorellina!” si affrettò a dire il principe.

“Allora devi obbedirmi!”.

“Riguarda qualcosa che ha detto il Signore dell’Est?” si informò la regina.

“Precisamente” riprese Vehuya “Sareste così gentili da lasciarci da soli? Sono argomenti non adatti alle orecchie femminili. E ad ogni modo sappiamo risolvere fra noi, non vi dovete preoccupare”.

L’imperatrice rimase un po’ titubante ma poi, notando lo sguardo minaccioso del marito, prese la figlia sottobraccio e la invitò a venire con lei.

L’imperatore del Fuoco chiuse la porta scorrevole dietro di sé, una volta fatte uscire moglie e figlia, e ghignò trionfante al figlio.

“Che bastardo, meschino e figlio di puttana che sei!” sibilò Kassihell.

“Sono affari, mio caro” rispose il padre.

Si inginocchiarono accanto al basso tavolino che era stato estratto per il the, che ovviamente non arrivò, e si fissarono negli occhi.

“Di che si tratta? Spiegati meglio” parlò il principe, sforzandosi di restare calmo.

“Il Signore dell’Est vuole affidare una speciale missione ad un rappresentante di ogni regno e…”.

“E non puoi scegliere qualcun altro?!” interruppe Kassihell “Il capo delle guardie, ad esempio…”.

“No, non posso. Lui, il Signore dell’Est, vuole espressamente che sia un membro della famiglia reale, imperiale nel nostro caso, e questo vale per tutti” mentì Vehuya.

“E perché non ci vai tu, allora?”.

“Non vuole capi di stato. Creerebbe troppo scompiglio fra la gente. Suvvia, Kassy…non vorrai mica che ci mandi tua sorella, vero? O uno dei tuoi figli? Quale dei tre…quello di sei mesi?”.

“Sei proprio un bastardo…”.

“Sono cose che capitano, ragazzo mio e, comunque, obbedirai al mio ordine?”.

“Sì, certo. Credo di non avere altra scelta. Quanto tempo durerà questa missione di cui parli?”.

“Non tantissimo. Sarà il Signore dell’Ovest a spiegarti tutto, ma in un paio di mesi al massimo sarai già di ritorno, te lo assicuro”.

“Non mi fido di te”.

“Mi spiace ma non hai scelta!”.

“Potrei ucciderti. Così facendo diverrei re e i Signori non mi vorrebbero”.

“E chi manderesti per la loro missione? Li ignoreresti?”.

“Esatto! Me ne sbatto dei Signori di Est e Ovest. E me ne sbatterei anche dei Signori di Sud e Nord, se esistessero!”.

Il padre si alzò di botto a quelle affermazioni, ribaltando il tavolino e quasi ringhiando contro il figlio.

“Come osi?!” tuonò “Mancare di rispetto in questo modo non solo alla tua famiglia, insultando me, ma perfino alla magia stessa del pianeta, parlando così dei Signori di Est e Ovest?!”.

“E allora? Cosa ti importa?”.

“Parli in questo modo anche del grande Dio delle Fiamme, dei Vulcani, Signore della stella Sirona che ci illumina? Sei così sfacciato?!”.

Kassihell girò gli occhi verso l’immagine della divinità che decorava una delle pareti. Era imponente, ricoperto di fuoco, con lo sguardo malvagio.

“Dubito che al Dio Daram importi se lo venero o meno” sbottò il principe “Ci sono tanti altri in giro che stan a pregarlo e supplicarlo per ogni cosa. Credo, piuttosto, sia felice che almeno uno in questo impero non gli piagnucoli dietro. E mi pare che, anche se non sono un credente devoto, il fuoco, i vulcani, Sirona eccetera lavorino lo stesso. Ed io riesco pure a gestire la magia delle fiamme…”.

“Basta! Questi discorsi mi fanno davvero imbestialire!”.

“E cosa credi di fare?! Che Daram mi mostri la sua ira se è sbagliato ciò che faccio!”.

“Sei una bestia!”.

“Ho preso tutto da te!”.

Vehuya saltò e tentò di afferrare il figlio, mosso da un attacco incontrollato d’ira, ma Kassihell reagì subito e riuscì facilmente ad atterrare il padre, ribaltandolo a pancia all’aria. Lo tenne fermo con un piede e lo guardò duramente.

“Vecchio, tu ancora non hai capito con chi hai a che fare. Non potresti mai battermi, non ora, perlomeno, con l’età che hai!”.

L’imperatore del Fuoco socchiuse gli occhi, immaginando che il figlio volesse portare a termine il proposito che aveva espresso prima: quello di ucciderlo. Il principe effettivamente fu tentato, guardò la gola del genitore con sadismo, ma si controllò e lo lasciò rialzare.

“Partirò per la tua stupida missione” mormorò Kassihell con un fil di voce irata “Ma devi ricordarti che se vengo a sapere che hai anche solo pensato di fare qualche stupidata con mia moglie, i miei figli, con mamma o la mia sorellina…giuro che ti massacro. Ti taglio a fette, un arto alla volta, e ti appendo pezzo per pezzo lungo le vie di Gibil, la capitale!”.

Vehuya non parlò, limitandosi ad annuire come prova della sua buona volontà. Kassihell non sapeva quanto credergli, era compito suo mediare fra gli attacchi irragionevoli del padre, pur essendo irragionevole lui stesso, e non si sentiva molto al sicuro. Purtroppo non aveva alternative, se non voleva che il padre mandasse via la sorella. Sapeva che l’imperatore era a conoscenza di non essere il vero padre di quella ragazza e non voleva rischiare che cadesse in qualche trappola meschina, piuttosto l’avrebbe affrontata lui stesso per lei. Di certo era molto più preparato alla cosa dell’ingenua ragazzina che era ancora la sua sorella minore. Sospirò, mentre il padre iniziò a spiegargli nei dettagli tutto ciò che sapeva sulla missione.

 

†††

 

Aveva moltissimi figli Taranis, re dell’Elettricità, ed in quel momento li stava osservando con orgoglio. Era famoso per non essere un uomo a cui piacesse legarsi in modo definitivo ad una donna, ma preferiva cambiare. Questo era un comportamento tipico degli abitanti di quel regno. Non potevano mai stare fermi per troppo tempo, cambiavano dimora, occupazione, compagno ed ogni altra cosa alla velocità della luce. Non si sposavano, salvo rarissime eccezioni, e vivevano la loro vita con impulsività ed incoscienza. Molti di loro non raggiungevano la vecchiaia.

I figli del re erano quasi tutti di madri diverse, incontri occasionali o brevi storie, che Taranis accoglieva volentieri nel suo palazzo globulare, in un edificio apposito. Era tornato da poco dalla convocazione ed aveva già esposto la questione agli eredi. Tutti parlavano allo stesso momento, questionando su chi fosse il più adatto a partire. Il padre non dava nessun parere al riguardo e si limitava ad osservarli, mentre ognuno di loro tentava di mettersi in mostra per essere scelto. Perfino i piccoli, di età prescolare, mettevano il broncio quando qualcuno dei più grandi gli faceva notare che non avrebbero mai potuto affrontare un viaggio attorno ad Asteria. Il re non poteva fare a meno di sorridere, fiero dei suoi figli. Non li fermò neppure quando iniziarono a combattere fra loro per decidere chi era il più forte. Rimase in piedi, con la lunga coda terminante con un piccolo globo di luce che si agitava leggermente. Sulle pareti della dimora a Fornjotr, la capitale, una delle tante che possedeva, passavano piccole scosse che illuminavano le stanze a lampi. Come in un temporale, la luce appariva e spariva all’improvviso. Sulla pelle e sul corpo degli abitanti accadeva lo stesso, portando come unica conseguenza la capigliatura irrazionale ed ondulatissima sulla testa degli elettrificati. Le loro vesti riprendevano quel disegno, a fulmine, e non erano mai troppo lunghe per non interferire con il flusso d’energia che producevano. Taranis, scalzo per assorbire le cariche del terreno, camminava scintillando, intento ad osservare i figli che gli si esibivano davanti. Al cospetto del padre, si sentivano un po’ tutti in soggezione e tentavano di dare il massimo. Non li fermò fino a quando un lampo fortissimo attirò la sua attenzione. Si aspettava provenisse dalla figlia maggiore o da uno dei ragazzi più grandi e si stupì tantissimo quando notò che tutta quell’energia era stata sprigionata da Reishefy, una ragazzina non ancora maggiorenne. Il genitore, con gli occhi quasi del tutto bianchi, la fissò immobile. Era così minuta, minuscola, con le forme ancora acerbe, da non sapere dove potesse contenere tutta quella forza. La figlia lo guardò, imbarazzata, quasi a volersi scusare di aver prodotto un lampo così potente. I loro capelli bianchi, con ciuffi quasi dorati, ondeggiarono in quell’attimo di silenzio.

“Reishefy…” mormorò Taranis, mentre anche gli altri fratelli si fermarono.

Non erano stupiti da quel lampo, conoscevano molto meglio del padre le potenzialità della sorella, ma notarono che il sovrano non aveva occhi che per lei.

“Scusa…” balbettò la ragazza “…non so ancora controllarmi molto bene…”.

“Che la controlli o meno, la tua energia è fortissima. Figlia mia, le tue capacità vanno coltivate nel modo corretto! Potresti divenire la più potente del regno e della famiglia!”.

Reishefy si stupì di quelle parole ed arrossì, scurendo leggermente le guance quasi nere, come un cielo nuvoloso. Perfino il colore della pelle mutava continuamente in quelle creature, come se fossero attraversati da nuvole nere, ma perennemente illuminati dall’elettricità che creava e lasciava scintille dorate su tutto il loro corpo.

“L’ho sempre pensato…” confermò la figlia maggiore, avvicinandosi alla sorellina “…ma lei si è sempre vergognata. Era ora che la notassi…”.

Taranis non rispose. Agitò la coda, sempre più luminosa perché in grado di catturare l’elettricità dell’aria, e fece segno a tutti i suoi figli di avvicinarsi. Non riuscivano a stare fermi ma si sforzavano di non agitarsi troppo mentre circondavano il genitore sorridendo.

“Usiamo un po’ di logica…” iniziò a parlare il sovrano “…cosa che odio fare, ma credo che in questo caso sia d’obbligo. Sono fiero di avere dei figli così, degni portatori del mio sangue, tuttavia per questa missione posso scegliere solo uno di voi. Ho ricevuto ordini precisi al riguardo. Potendo escludere i più piccini, non per cattiveria ma perché gli altri che viaggeranno con voi saranno grandi e cafoni, mi basta pensare al Fuoco, e vi lascerebbero di certo indietro. Escluderei anche quelli che son prossimi alla conclusione degli studi e che non possono permettersi di saltare ore di lezione per un capriccio del Signore dell’Est. Sono pronto a ricevere ogni suggerimento possibile su chi mandare fra i non esclusi…”.

“Perché non Reishefy?” sbottò la maggiore.

“È un po’ giovane, non trovi?” rispose uno dei ragazzi, sulla ventina.

“Ma è la più capace fra di noi. Quella con più energia. Ed inoltre presenta tutte le caratteristiche della nostra razza, cosa che i Signori han chiesto espressamente. Io voto per Reishefy. Chi è con me?” parlò la sorella, di rimando, alzando la mano per esprimere il proprio parere.

Molti altri imitarono il suo gesto, dando il proprio voto per Reishefy. Taranis non si aspettava una cosa del genere. Poteva contare almeno una trentina di mani alzate a favore della ragazzina.

“Ma…” azzardò “…è perché non ci volete andare voi, e quindi ci spedite lei, oppure credete davvero che sia la più adatta a rappresentarci?”.

“Lei è la migliore” parlò un piccolino di pochi anni, senza abbassare la manina “Batte sempre tutti quando giochiamo, perfino Delling!” affermò, indicando il più grande dei figli maschi, che abbassò la testa guardando altrove.

“Poi non sta mai ferma, come le migliori rappresentanti del regno dell’Elettricità!” aggiunse una bambina, saltellando.

“Inoltre ha già cambiato tre ragazzi con cui…” iniziò una ragazzina ma si fermò, tappandosi la bocca, notando lo sguardo elettrico del padre.

“Sorvolando su questo…” borbottò Taranis, non aspettandosi una rivelazione del genere “…a quanto pare sei una degna rappresentante del nostro elemento, Reishefy…”.

Lei non sapeva cosa dire. E fu il re a continuare il discorso.

“Personalmente…” ammise “…credo tu sia troppo piccola per fare una cosa del genere. Ma, del resto, agli occhi dei genitori non siete mai abbastanza grandi e poi…chi sono io per rifiutare un voto popolare quasi unanime?” ridacchiò, mentre nessuno dei figli aveva ancora abbassato le braccia.

Ci fu un’ovazione e più di qualcuno iniziò a ripetere il nome della sorella ad alta voce.

“Tu, figlia mia, vuoi partire?” domandò poi il sovrano, non volendo obbligare nessuno.

“Io…” rispose lei, titubante “…io sarei onorata di poter rappresentare il nostro elemento. Se voi ritenete che io ne abbia le capacità…”.

“Allora è deciso. Non me lo sarei mai aspettato ma sarai tu a partire. Hai più o meno un mese per prepararti come meglio credi”.

Reishefy sorrise, davvero felice di ricevere un compito del genere, ed arricciò la coda. Padre e figlia si abbracciarono, elettrificandosi a vicenda, e poi lei corse via assieme ai suoi fratelli. Non riusciva davvero a stare ferma e ancora meno a contenere il suo entusiasmo. Agitava le mani, con le unghie bianche, energicamente. Taranis la vide allontanarsi, quasi saltellando lungo il corridoio. Sperava di aver fatto la scelta giusta. Sempre con un ghigno soddisfatto, notò un’elegante signora fra le vie della capitale, dall’alto della finestra dal quale guardava e pensò che, forse, aveva individuato la prossima madre dei suoi figli.

 

†††

 

“Thuwey!”.

Una voce nel buio.

“Signor Thuwey!”.

Thuwey sospirò. Si limitò a girare la testa nel letto, avvolgendola e poi nascondendola sotto il cuscino di seta nera. Grugnì. Era andato a dormire molto tardi e, da quanto riusciva ad intravedere dalla finestra, era ancora notte fonda. Qualunque fosse il motivo per cui lo stessero chiamando, non gli interessava! Evidentemente colui che stava fuori dalla sua porta non voleva capire che il suo “Vattene!” non ammetteva replica. Era, al contrario, sempre più insistente. Thuwey allungò un braccio, sempre tenendo la testa sotto il cuscino, in cerca di qualunque cosa, spada o pistola, che potesse porre fine a tutto quel casino. La pesante pendola d’acciaio lanciò un grido, un ruggito, e lo ripeté per cinque volte. Erano le cinque di mattina! Si era coricato meno di un’ora prima! Sentì uno schianto. Aveva urtato con la mano uno dei boccali vuoti che aveva lasciato accanto al letto, sul comodino lucido. Ovviamente li aveva svuotati lui ed ora la sua testa non accennava di certo a smettere di ricordarglielo. Grugnì di nuovo, capendo che la sua oretta di sonno doveva bastargli. Strisciò fuori dal matrimoniale in cui dormiva, non perché fosse sposato ma perché “voleva spazio”, ed andò ad aprire alla porta, vagamente coperto dal lenzuolo nero in cui si era avvolto.

“Che vuoi?” sbottò, consapevole di avere due occhiaie da far spavento e l’alito di birra.

“Perdoni l’ora, ma la regina Jovihann ha chiesto di vedervi” parlò l’intruso.

“Adesso??!! Alle cinque del mattino??!! Ma non può andare a farsi fottere da qualcuno a quest’ora, invece che rompermi i coglioni?!”.

L’altro non rispose. Si limitò a fissarlo, con le mani dietro la schiena e lo sguardo di rimprovero.

“Beh?!” riprese Thuwey “Puoi anche andartene, sai? Ci vengo dalla tua regina ma dubito voglia vedermi nudo. Perciò sparisci. Mi rendo presentabile e la raggiungo…”.

Sbatté la porta, sbuffando, e scosse la testa per svegliarsi. Crollava dal sonno. Sbadigliò, passandosi una mano nei lunghissimi capelli neri, gli arrivavano fino alle ginocchia, tentando di donargli un aspetto vagamente decente. Li pettinò distrattamente, domando la loro massa informe e facendoli ridivenire perfettamente lisci anche se voluminosi. Si guardò allo specchio. Effettivamente, sotto i suoi bellissimi occhi ramati, c’erano due occhiaie decisamente fastidiose che quasi lambivano le placche di metallo che gli segnavano gli zigomi e le guance. Una placca di metallo gli attraversava la fronte, assumendo una forma a rombo, con l’estremità più corta rivolta verso lo spazio fra le sopracciglia e quella più lunga che divideva perfettamente i due ciuffi che gli ricadevano sul viso. Lui era Thuwey, abitante del regno del Metallo. Come ogni creatura di quel regno, il suo corpo era ricoperto da spuntoni di quell’elemento, che era libero di ritrarre a suo piacimento ma non era una cosa che amava fare. Preferiva essere inavvicinabile. Ne aveva su braccia, spalle e petto, mentre sul resto del corpo si potevano trovare aree e placche di metallo lucido più o meno grandi, grigie lucide. La sua pelle era di un grigio più chiaro, sempre lucido. Le labbra, sottili e ghignanti, eran quasi nere e racchiudevano una fila di denti bianchi ed acuminati, in un sorriso vampiresco.

Iniziò a vestirsi, svogliato. Non era mai un buon segno quando la regina lo convocava così all’improvviso. Lui era il capo delle guardie del regno, il miglior combattente del Metallo, dicevano. Era piuttosto soddisfatto del fatto che non aveva dovuto scortare Jovihann fino al palazzo del Signore dell’Est, per poi annoiarsi a morte nell’attesa che ne uscisse. Ora che era tornata, però, esigeva già di vederlo…storse il naso. Sentiva puzza di incarico che non voleva. Sapeva che non aveva tempo di fare colazione, anche perché aveva lo stomaco addormentato del tutto e non avrebbe di certo apprezzato del lavoro straordinario. Indossò la divisa che la regina gli imponeva e ci agganciò il solito quantitativo eccessivo di catene. Amava sentire il loro tintinnio armonico. Si avvolse in un pesante mantello nero dato il freddo che avvertì sull’uscio. Modificò le placche sulle sue gambe in modo che formassero una sorta di armatura, così da non avere la seccatura di dover mettere le scarpe, ed uscì alla luce fioca dei lampioni di Gwydyon, la capitale. Attraversò le strette vie lastricate da vari metalli, consapevole di essere l’unico pirla in giro a quell’ora escludendo il sacerdote che si apprestava al sacrificio di sangue dell’alba. Giunse al cospetto delle due guardie che sorvegliavano il grande cancello d’ingresso al castello, insultandole senza motivo. Si misero sull’attenti, riconoscendolo, e fecero aprire i cancelli tramite un complicato insieme di carrucole ed ingranaggi. Il massiccio portale in ferro battuto si spalancò e Thuwey ci entrò bestemmiando. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter tornare a dormire. Il lungo abito scuro che portava quasi si confondeva nel buio. Continuò la sua marcia, borbottando, sbattendo pesantemente i piedi sulle scale mostrando tutto il suo fastidio. Conosceva bene i corridoi di quel palazzo goticheggiante, dove trascorreva le sue giornate lavorative da quanto era stato scelto per entrare nell’esercito reale. Quattro anni prima, a ventisei anni, si era dimostrato il più valido a sostituire l’ormai anziano capo delle guardie. All’inizio era orgoglioso della sua posizione ma ora si stava stancando. La regina non aveva un compagno ed era piuttosto capricciosa, lo chiamava continuamente per qualsiasi sua voglia. Di certo a Thuwey non sarebbe dispiaciuto soddisfare certe voglie ma fin ora il suo compito era stato principalmente quello di coprirla mentre scorrazzava con il suo amante Vehuya. Era entrato nell’esercito pronto a grandi battaglie ed onori ma fin ora aveva solo fatto da guardia del corpo e si stava davvero annoiando. Sperava di non essere convocato per soddisfare qualche capriccio infantile della regina ma per una motivazione seria. Sbadigliò di nuovo, prima di entrare nella stanza della sovrana. Aprì la porta, dimenticandosi di bussare. Jovihann si era cambiata, indossava una sottoveste nera con pizzo. Era bella la regina anche se non più tanto giovane, dimostrava al massimo quarant’anni anche se ne aveva venti in più. Thuwey la guardò senza capire. Lei gli sorrise e si coprì con la vestaglia.

“Pensavo che ormai venissi al mio cospetto domani mattina. Ero già pronta per dormire”.

“Se volete dormire, regina, torno dopo pranzo” rispose lui, già pregustando un lungo sonno fino a mezzogiorno ed oltre.

“No. Ormai che sei qui è meglio che ti parli. Ritengo sia piuttosto urgente ciò che ho da dirti”.

Thuwey annuì, pur mostrando il suo disappunto. Jovihann spiegò, rapidamente, i propositi del Signore dell’Est. Il capo delle guardie ascoltò, scuotendo la testa ogni tanto per non addormentarsi.

“Perciò…Voi volete, mia regina, che io parta alla volta del Signore dell’Ovest per rappresentare il nostro elemento?”.

“Precisamente” confermò lei, con un cenno del capo.

“E perché?”.

“Perché cosa?”.

“Perché dovrei farlo…non ne ho tanta voglia…”.

“Voglia?! Io sono la tua sovrana, non dipende di certo dalla tua voglia se devi obbedirmi o meno. Lo devi fare e basta! Mi fido di te e so quanto sei potente, non c’è nessun’altro più adatto di te in tutto il mio regno per un compito del genere!”.

“Ed io cosa ci guadagno?”.

“Cosa vorresti? Sei libero di chiedermi ciò che desideri”.

“Mmm…ci dovrei pensare. Sicura che posso chiedere quello che voglio?”.

“Quello che vuoi. Qualunque cosa…”.

“Bene, Vostra Altezza. Allora accetto la vostra offerta. Partirò e, al mio ritorno, verrò a richiedere ciò che mi spetta. Non deluderò le aspettative”.

“Anche se non avessi voluto andare ti avrei costretto, con le buone o con le cattive. Era già tutto stabilito, mio caro”.

“Grazie mille” ironizzò Thuwey e tornò verso la propria dimora, illuminato dalle prime luci dell’alba, sicuro di aver perso del tutto la capacità di potersi riaddormentare.

 

†††

 

Il profumo dei fiori l’accolse, più forte di qualsiasi altra fragranza, e lei sorrise. Le mancavano tutte quelle essenze e quei colori. Con il suo abito fatto di piume sgargianti, placche in oro e pietre preziose, la regina Midir rientrò nella sua bella casa, costruita e sviluppata fra le fronde di un immenso albero. La sovrana del regno della Terra sapeva che non c’era niente in quel mondo per il quale non valesse la pena di combattere, ma il Signore dell’Est era stato categorico: non poteva presentarsi lei stessa per quel viaggio. Vanadis, così era chiamato l’enorme complesso di alberi e piante su cui sorgeva la capitale, la accolse fiorendo. Cominciò a chiedersi a chi potesse affidare un compito così delicato ed importante, uno screzio con altri abitanti di regni diversi avrebbe potuto scatenare una guerra! Il popolo della Terra era sostanzialmente pacifico anche se aveva, con il tempo, affinato notevoli capacità in battaglia, principalmente a scopo difensivo. I loro archi erano di splendida fattura, come pure le frecce ed i bastoni magistralmente intagliati con simboli sacri al loro Dio. Ognuno di loro possedeva un’arma ma una legge vietava categoricamente l’uso di queste contro un altro esemplare della stessa specie.

Midir notò con gioia che si avvicinavano le celebrazioni di primavera. Gli alberi erano bardati a festa con nastri colorati e campanelle, le donne si stavano preparando per la realizzazione del dolce tipico ed alcuni si erano già dipinti il viso con i simboli antichi da cerimonia. Attraversò un arco, sfiorando con le mani i tronchi in cui si erano tramutati i suoi antenati. Quelle creature nascevano con la pelle verde, morbida, ma col tempo essa, a partire dai piedi, iniziava a mutare. Diveniva come la corteccia degli alberi, stessa consistenza e colore. Quando era giunta la fine della loro esistenza su Asteria, divenivano uno dei rami portanti dei grandi alberi che costituivano le città del regno. La regina era giovane, per ora aveva mutato solo le gambe, ed alcuni fiori spuntavano, a volte, fra i suoi capelli verde scuro. Con grandi occhi viola, decise che avrebbe chiesto suggerimento al marito su chi scegliere per la missione. Entrò nella sua stanza, il sovrano ancora dormiva data l’ora del mattino, e lo svegliò dolcemente, con un bacio sulla guancia. Il re aprì gli occhi e le sorrise.

“È bello riaverti a casa” disse.

Lui aveva mutate anche le spalle, che si erano allargate ed indurite facendolo sembrare sempre in armatura, ed il legno aveva iniziato ad espandersi lungo le braccia. Abbracciò la moglie con trasporto e si fece raccontare ogni cosa.

“Posso partire io” si offrì, alla fine “Sono un membro dalla famiglia reale, sono tuo marito, e direi che più fidato di me non hai nessuno!”.

“Io…veramente non vorrei che te ne andassi per tanto tempo. Ho altri progetti per te…” rispose la regina, appoggiando la testa sull’ampio petto del consorte.

“Come per esempio?” si incuriosì il re.

“Ad esempio…che ne dici di un erede per questo regno ancora senza principi?”.

“Ah beh…se la metti così…chi sono io per rifiutare un progetto del genere?”.

Risero, sempre stando abbracciati, e si unirono in un lungo bacio.

“Vuoi che inizi subito a lavorarci?” azzardò lui e lei annuì, lasciandosi avvolgere dal profumo e dall’amore del suo compagno.

 

“Dovresti parlare con Idisi, la maga della capitale…di lei ti fidi” le sussurrò il re, ancora svestito accanto alla moglie.

“Hai ragione. Lei sicuramente saprà darmi il giusto suggerimento. Cosa farei senza di te?”.

“Saresti una bravissima regina…”.

“Ma sola. A cosa mi servirebbe?”.

“Non sei sola. Perciò non te ne preoccupare…”.

“Vieni con me da Idisi?”.

Entrambi si vestirono, con l’ampio collare in oro e pietre adornato da piume dai colori accesi, rosso per lui e blu elettrico per lei, la fascia ed il cinturone dorati che sorreggevano la gonna, fino al ginocchio, anch’essa in parte coperta dalle piume, ed i sandali con lunghe stringhe incrociate. Allacciarono il mantello, con ricami in oro come la gonna, ed indossarono la corona, piuttosto vistosa essendo fatta pure lei in oro e piume sgargianti che restavano in piedi fra i capelli verdi dei due. Si presero per mano e si avviarono verso il punto, nascosto dietro un velo leggero di liane intrecciate, che Idisi aveva adottato come sua dimora. Era una rientranza piuttosto piccola ma sufficiente per lei e per buona parte dei suoi strumenti di lavoro. Gli altri erano appesi ai rami sovrastanti. Accolse i reali con un largo sorriso.

“Bentornata, Vostra Maestà, e saluti a Voi, mio re”.

Accompagnò la frase con un piccolo inchino ed invitò entrambi, con un gesto della mano, a sedersi. Si misero tutti e tre a gambe incrociate in terra. Idisi aveva circa l’età della regina, le sue gambe erano come tronchi d’albero e la mutazione aveva seguito la spina dorsale, creando un piccolo corridoio bruno, terminante alla base del collo di lei. Da quella venatura, nei punti non coperti dalle vesti piumate, si intrecciavano viticci e foglie d’edera. Un piccolo fiore rosso era fiorito subito sopra il suo piccolo orecchio a punta adornato da un grosso orecchino quadrato e spiccava sui capelli verde scuro, leggermente più sfumati verso il blu rispetto a quelli della regina.

La maga guardò entrambi, con profondi occhi color grano, quasi gialli, e volle sapere del viaggio intrapreso da Midir. Lei spiegò, senza lasciare nemmeno per un attimo la mano del marito, e la padrona di casa annuì.

“Volete il mio consiglio, mia sovrana, giusto?”.

“Sì. Non so chi possa essere in grado di rappresentare il nostro regno…”.

Idisi prese fra le mani le carte e guardò i due ancora negli occhi prima di distribuirne tre in terra.

“Tranquilla, mia signora, l’erede che tanto desiderate arriverà presto” parlò.

Midir, non aspettandosi una frase del genere, rimase senza fiato.

“Ma…perché…” balbettò.

“Perché ho chiesto prima questo alle carte? Semplice…mi sembrava questo ciò che i vostri occhi desideravano. Vedete…” spiegò, indicando la prima figura “…questo siete Voi, Vostra Altezza, e quella accanto siete Voi, regina”.

La sovrana sorrise, vedendo che nell’ultima carta c’era un piccolo abitante del regno della Terra, avvolto dalle foglie come in un baccello.

“Quando arriverà?” incalzò il re, non riuscendo a nascondere il suo entusiasmo.

“Questo non mi è dato saperlo. Ma presto. E sarà maschio”.

Marito e moglie si baciarono teneramente, sorridendosi.

“Ora…” riprese Idisi “…veniamo a noi”.

Rimase ferma per qualche istante, forse meditando su quale fosse il metodo di divinazione adatto per scoprire chi sarebbe diventato il rappresentante della Terra per Asteria. Lanciò dei piccoli sassolini in un quadrato di corda e rimase perplessa dal loro posizionamento. Li rimosse e passò ad altro, mentre re e regina ne osservavano ogni movimento sempre più esitanti. La maga sbuffò, quasi spazientita, e riprese in mano le carte.

“Almeno voi non fate i capricci…” mormorò, rivolta al mazzo, ed iniziò a mescolare.

“Alzate Voi, mia signora…” parlò, porgendo la pila a Midir che ne sollevò una parte.

Idisi prese le carte alzate dalla regina e le rimise in fondo al mazzo. Dopo un respiro profondo iniziò a distribuirle sul pavimento, iniziando a spiegarle.

“Da questa carta deduco che è una persona di cui il re si fida…” iniziò.

Scoprì un’altra carta e sorrise.

“Anche la regina si fida” esclamò e Midir ne fu soddisfatta.

Passò alla terza carta.

“È una creatura potente…” disse, indicando la carta della Forza “…e pronta a vedere le cose da diversi punti di vista…” additando l’Appeso “…cosa importante per un viaggio con molte altre persone così diverse da noi”.

Ne estrasse altre, descrivendone le caratteristiche, e disponendole a formare una sorta di piramide la cui punta arrivava ai suoi piedi scalzi. Respirò a fondo, accingendosi a svelare l’ultima carta, quella che avrebbe risposto al loro quesito.

“Oh Dio della Foresta…” mormorò, vedendola.

Era la carta del Mago, dello Stregone.

“Che significa?” volle sapere la regina.

“Che…sono io…” balbettò Idisi “La persona che deve partire per rappresentarci…sono io! Non è possibile…ci dev essere uno sbaglio…”.

“Perché? Noi di te ci fidiamo. Sei potente, intelligente e credo adatta…” iniziò il re.

“…sempre che ti vada di farlo!” concluse Midir.

“Voi mi affidereste davvero un incarico del genere?”.

“Siamo amiche. Certo che sì. Soprattutto se sono le divinità a volerlo” confermò la regnante.

La maga non sapeva cosa dire. Rimise le carte nella scatola, con cura, in silenzio.

“Anche gli altri metodi di divinazione avevano dato lo stesso risultato?” azzardò l’unico uomo nella stanza, guardandosi attorno curioso.

“Sì” confermò Idisi “Le pietre si erano concentrate ai miei piedi, il cristallo era attirato da me…”.

“Allora sei tu! Preparati a partire!” esclamò Midir, balzando in piedi.

Era davvero contenta di quella soluzione, forse la stessa che aveva pensato il marito, ed era davvero sollevata all’idea che a rappresentare il suo regno fosse una sua amica d’infanzia e preziosa consigliera ormai da anni. Le disse che aveva meno di un mese per prepararsi ed, inaspettatamente, la abbracciò con forza. Idisi non sapeva cosa dire. Vide i suoi signori uscire ed andarsene, felici, per mano, e guardò la sua. Verde, morbida e vellutata, la fissò chiedendosi se fosse davvero questo il suo destino. Ma oramai era già stato tutto stabilito. Toccava a lei partire, destino oppure no.

 

†††

 

L’immenso oceano sotto cui sorgeva Satis, la capitale di corallo e conchiglie in cui viveva Nerektan, regina dell’Acqua, diede subito sollievo alla sua pelle non abituata a starci per troppo tempo lontano. Si tuffò, congiunse i piedi che mutarono, quasi unendosi e ricoprendosi di una membrana verde acqua alle estremità, assumendo un aspetto molto simile ad una coda di pesce. Nuotò velocissima, ansiosa di tornare a casa. La sua pelle a squame blu, con sfumature verdi, brillò ristorata dall’acqua e sentì con sollievo i polmoni riempirsi di nuovo tramite le branchie che aveva sul collo. Attraversò l’arcata d’ingresso alla metropoli principale, accolta dalle guardie che se ne stavano sulla loro cima, e continuò a nuotare. Il palazzo reale era leggermente rialzato rispetto agli altri edifici e brillava, in modo quasi magico, con i mille colori del mare. Ci entrò, lasciando la corona di corallo rosso nelle sue stanze, ed andò a cercare le figlie. Sapeva che il marito non era presente perché perennemente occupato a controllare i movimenti privi di logica ed improvvisi di Ozymandias. Da lui aveva avuto due femmine, Egèria, la maggiore, ed Enki. Era consapevole che, in tutto il regno, non vi erano migliori rappresentanti delle creature dell’Acqua. Perciò sarebbe stata una di loro due a partire. Le chiamò al suo cospetto, nella sala del trono, e le attese, impaziente. Dietro di lei si apriva a ventaglio il possente seggio di conchiglia e madreperla, intagliata sapientemente, e al suo fianco lo scettro faceva bella mostra di sé. Le figlie arrivarono e si fermarono, appoggiando i piedi palmati, di fronte alla madre. La salutarono educatamente ed attesero le sue parole.

Egèria assomigliava più al padre, con lunghi capelli azzurro chiaro, gli occhi tondi quasi neri e la pelle sfumata verso il blu. Enki, invece, era come la madre. La pelle blu che sfumava verso il verde, gli occhi di un azzurro profondo, puro, ed i capelli che formavano una cresta verde acqua che si allungava fino a metà della schiena. L’avevano alzata entrambe le figlie quella cresta, per la curiosità e per la tensione. Nerektan spiegò loro brevemente qual’era la situazione e la soluzione che aveva in mente.

“Una di noi due?” si stupì Enki, da poco diventata maggiorenne ma dimostrando parecchi anni in meno nel viso e nel corpo.

“Sì, esatto. Una di voi due, bambine mie. Credo non possa esserci soluzione migliore” confermò la madre, non capendo la perplessità della sua creatura.

“Ma non c’è nessuno di più adatto? Intendo dire…noi siamo molto giovani…” iniziò Egèria.

“Giovani? Suvvia…tu hai passato i vent’anni. Sei una donna ormai, alla tua età già stavo seduta su questo trono e mi prendevo con gioia le mie responsabilità”.

“Sì…ma…” riprese Enki “…noi non siamo mai uscite da palazzo. Come possiamo affrontare un viaggio attorno ad Asteria? Nemmeno sappiamo da che parte sta il Signore dell’Est!”.

“A est…non mi sembra difficile!” sbottò Nerektan.

Enki fece per rispondere ma non trovò le parole.

“Sarebbe un’ottima occasione per una di voi due. Magari così imparate dov’è l’est!”.

“Ma mamma…sei stata tu ad impedirci di uscire da queste mura! Mica puoi pretendere grandi conoscenze da noi!” protestò la maggiore.

“Eppure mi pare che tu esca benissimo da qui, anche senza il mio permesso!”.

Egèria arrossì. Era vero. Lei usciva spesso ma di nascosto e credeva che la madre non lo sapesse.

“Sarebbe un’ottima occasione per te, futura regina, un viaggio assieme ad altri rappresentanti di Asteria. Saranno altri principi e principesse, futuri regnanti e possibili alleati. O nemici” consigliò la regina, guardando la maggiore quasi con rimprovero.

“Non sono mai stata particolarmente diplomatica. Non credo sia il caso” rispose lei.

“Sciocchezze! Chi meglio di te può esserci?” protestò Nerektan.

“Lei!” rispose Egèria, indicando la sorellina.

“Chi? Io? Ma scherzi? Io da qui non mi muovo!”.

“Una di voi due partirà” ordinò la regina “Oppure mi fornirà un motivo valido per non farlo!”.

Le due sorelle si guardarono negli occhi.

“Suvvia, Enki…” iniziò Egèria “…di certo sei tu la più adatta! Fin da bambina ti sei sempre chiesta cosa ci fosse al di fuori del palazzo…”.

“Sì, ma non ho mai avuto l’ardire di oltrepassare le sue finestre” controbatté la sorellina.

“E non saresti lieta di poterlo fare con la benedizione di mamma?” continuò la maggiore.

“No. Sto bene dove sto. Grazie per l’offerta ma credo che il viaggio e l’onore spettino a te, principessa ereditaria”.

“Non puoi trovare altri possibili pretendenti per una cosa del genere?” suggerì Egèria alla madre, che non prese nemmeno in considerazione quella frase, convinta com’era di mandarci una delle figlie, sangue del suo sangue, le uniche di cui si fidava.

“Ma insomma! Qual è il problema?!” volle sapere la sovrana “Tu, ad esempio, Enki, che problema hai? Perché non vuoi partire?”.

“Io…” balbettò la ragazza, chinando la testa “…io ho paura!” ammise.

“Paura di cosa?” si stupì Nerektan.

“Di tutto. Non so cosa mi aspetta al di fuori di qui e non voglio saperlo. Ho paura e non voglio lasciare casa mia!”.

“Beh…a quanto pare…” affermò allora la regina “…spetterà a te, Egèria, partire”.

“Non posso” tagliò corto lei.

“Perché?”.

“Perché no. Problemi miei”.

“Sono anche problemi miei! Parla!”.

Lei sospirò e guardò la sorellina, puntandogli contro uno sguardo ed un sibilo accusatore da “grazie tante, principessina, mi hai messo nei guai!”.

“Io…credo…ed è solo un’ipotesi…” iniziò Egèria, respirando a fondo e dosando le pause per trovare le parole “…credo di essere incinta”.

Nerektan affondò nel trono, colpita da quelle parole più di qualsiasi altra cosa, mentre Enki rimase immobile, ammutolita.

“Credi?” mormorò la regina, impallidendo.

“Sono…quasi sicura” confermò la figlia, tenendo la testa bassa e le mani dietro la schiena.

Scese il silenzio, imbarazzante, che durò non poco.

“E…chi sarebbe il padre?” domandò, dopo un po’, Nerektan.

“Lir” si limitò a dire Egèria.

“Mmm…è un ottimo partito!”.

“Cosa?! Davvero?!” si stupì la maggiore.

“Sì. Certo. È forte, elegante, educato e…tutto il resto. Sarà un ottimo re”.

“Dici sul serio?”.

La regina sorrise ed annuì.

“Quindi…non sei arrabbiata?” continuò Egèria.

“No. Stupita, ma non arrabbiata. Lir mi piace e spero voglia prendersi tutte le sue responsabilità. Preparati, figlia mia, perché da oggi sei ufficialmente promessa ed inizieranno i preparativi per il tuo matrimonio!”.

La maggiore lanciò un grido di gioia, la madre si alzò e le andò in contro. Si abbracciarono e la regina mormorò un “congratulazioni” felice, contraccambiato da un “grazie”.

“Enki…” parlò di nuovo la sovrana, rivolta alla minore, allontanandosi con la maggiore sottobraccio “…tu invece preparati a partire. È ovvio che tua sorella non può. Vedrai che andrà tutto bene, rilassati e non avere paura”.

“Ma io…” provò ad obbiettare lei, senza risultato perché Nerektan se n’era già andata.

La cresta della figlia minore si abbassò. Era afflitta. Ora tutti erano concentrati sul grande evento, il grande giorno di Egèria, e pareva che a nessuno importasse di lei, della partenza e del terrore che provava dentro di sé.

 

†††

 

Non poteva crederci. Il giorno era arrivato. Era nato in una famiglia povera, in un piccolo paese, ed aveva sempre dovuto combattere per ottenere qualsiasi cosa. Ora cambiava tutto! Era felice e soddisfatto della sua esistenza ma era rimasto stravolto quando aveva ricevuto quella lettera dal re. Una convocazione al suo cospetto, davanti al grande sovrano del reame della Roccia, in quel giorno preciso. Si era incamminato verso la capitale, Dusares, attraverso tutti i cunicoli sotterranei dopo i quali era costruita. Lui era uno degli abitanti delle alte montagne del reame ma il re risiedeva nella città principale che era interamente sotto la superficie rocciosa.

Con la lettera stretta fra le mani, procedette con la sacca sulle spalle lungo la via principale.

Non riusciva a capire le motivazioni che avevano spinto il suo re, Eranoranhan, a scegliere proprio lui. Non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con i suoi genitori, dato che la convocazione parlava chiaro: era strettamente personale. Era spiegata nei dettagli, la faccenda del Signore dell’Est e tutto quello di cui il sovrano di Roccia era a conoscenza, ed era giunto il giorno della partenza. Gli era stato detto di mostrarsi davanti al capo di stato per ricevere la chiave del palazzo del Signore dell’Ovest e, immaginava, sperava, qualche consiglio su come affrontare la convivenza con le strane creature degli altri regni.

L’intera architettura della capitale, in pietra, lo avvolse. I soffitti, altissimi e sorretti da massicce colonne squadrate, lasciavano ampio spazio a negozi, botteghe, case e spazi liberi in cui intravide alcuni bambini rincorrersi ridendo. Non dava nell’occhio, se non per l’abbigliamento tipico delle montagne che tendeva più verso il marrone rispetto al grigio dei sotterranei. Avrebbe voluto indossare il gonnellino in tartan tipico del suo clan, ma pensò non fosse il più adatto al viaggio e così si era rassegnato a portare semplici pantaloni con una larga cintura nera. Non aveva altro addosso per lasciare libero il suo elemento, che lo faceva mutare con estrema facilità con spuntoni e protuberanze grigio scuro o marrone lungo la pelle color pietra. Le uniche che rimanevano sempre ben visibili in ogni caso erano quelle che aveva sulla testa, simili a due corna rivolte all’indietro che partivano da dietro le orecchie di quella creatura dai capelli rasati ma con un piccolo codino, di un colore intermedio fra il rossiccio ed il marrone, lasciato crescere dietro alla nuca. Ormai era vicino alla meta, vedeva l’ingresso del castello. Preso dall’entusiasmo, corse fino all’ingresso. Le due statue all’ingresso del palazzo si mossero, lasciandolo passare solo perché in possesso della lettera del sovrano. Si ricompose, volendo dare un’ottima impressione ad Eranoranhan, ed entrò lentamente nell’ampia sala del trono.

Fu fatto entrare e lasciato solo al cospetto del re. Respirò a fondo. Non poteva negare di essere in totale soggezione. Il sovrano sedeva su un immenso seggio in pietra, che quasi lo racchiudeva ripiegandosi alle spalle del suo padrone. Era un uomo possente, ricoperto interamente di grossi spuntoni di roccia su tutto il corpo, che ne aumentava le dimensioni notevolmente.

Sorrise, vedendo entrare il suo ospite.

“Vieni avanti” parlò.

Il convocato avanzò, sicuro di aver sentito la voce del suo signore espandersi direttamente dal terreno, senza dire una sola parola.

“E così…tu sei il mio campione…” continuò Eranoranhan, quando lo ebbe abbastanza vicino “…sei molto giovane…quanti anni hai?”.

“Venti…tre…” rispose.

“Venti o tre?” ridacchiò il sovrano.

“Ventitré” esclamò l’altro, senza rispondere alla risatina.

“Suvvia…scherzo! Sei giovanissimo, specie per noi abitanti della Roccia che viviamo molto a lungo, e ai miei occhi anziani sei un bambino. Eppure…mi son giunte voci strabilianti su di te”.

“Su di me?” si stupì il giovane.

“Sì. Non sei tu che, all’inizio dell’anno, ti sei dimostrato il più valoroso al gran torneo che organizzo per scegliere i migliori guerrieri del regno?”.

“Sì, sono io…”.

“Benissimo. Allora sei tutto ciò che mi serve”.

Il giovane ricordò mentalmente quel torneo, come aveva affrontato tutti i suoi avversari con coraggio e determinazione, dimostrando che per sopravvivere aveva sempre dovuto combattere. Non aveva certo paura di inutili titoli nobiliari o importanti bardature!

“Come ti chiami?” domandò di nuovo il padrone di casa, l’unica creatura di cui sentiva dover aver paura perché potente della magia totale dell’elemento su cui regnava.

“Mattehedike”.

“Il dono degli Dèi vincitori, bellissimo significato”.

“Grazie, Vostra Maestà”.

“E sarai un dono per il tuo regno ed il tuo popolo. La missione che ti affido è di massima importanza. Dovrai rappresentarci degnamente!”.

“Farò il possibile…”.

“Lo so”.

Eranoranhan sbatté le mani, producendo un suono simile ad un tuono, e subito sull’uscio apparvero due donne, adornate con decisi disegni sulla pelle, portando uno scrigno molto pesante.

Il re lo aprì con il suo anello e sorrise. Dentro di esso era contenuta la chiave del palazzo del Signore dell’Ovest. Era marrone scuro, con una catena in pietra intagliata che pareva di certo non molto leggera. Il sovrano fece segno al suo campione di avvicinarsi. Un po’ titubante, il giovane si avvicinò. Alzandosi, il capo di stato lo superava di diverse spanne in altezza e gli mise la catena attorno al collo. La chiave era fredda ma Mattehedike non lo avvertì. La guardò, ammirato. Era bellissima, splendidamente lavorata e non molto pesante come pensava.

“Ricordati che è una copia unica, caro ragazzo. Se la perdi ne subirai tutte le conseguenze, pessime. Perciò vedi di fare attenzione!”.

“Non me ne staccherò mai, questo è certo. Morirò piuttosto che non riportargliela!”.

“Che esagerazione…ad ogni modo vedi di riportarmela. E di fare onore alla nostra specie!”.

“Qualche suggerimento per il viaggio?” ebbe il coraggio di dire il giovane, pur ancora in soggezione davanti all’anziano sovrano.

“Attento al ghiaccio, ti rovina da dentro se ne sei esposto troppo a lungo. E la pioggia è una gran scocciatura ma dubito tu possa prenderne così tanta da danneggiarti…”.

“Fuoco? Elettricità? Oscurità?”.

“Di quelli non preoccuparti più di tanto. Pensa al tuo e vai per la tua strada. Attento a non fidarti troppo, specie dell’Oscurità, che ha delle creature subdole ed incantatrici”.

Mattehedike fece un cenno con il capo, stringendo la chiave con una mano.

“Bene” affermò il re “Ora per te è giunto il tempo di partire. Hai una piantina del regno? Sai come arrivare al palazzo dell’Ovest?”.

“Sì. Mi sono procurato tutto”.

“Perfetto. Allora puoi andare. Il Signore ti attende. E che il grande Dio della Forza e del Coraggio ti guidi lungo tutto il cammino. Fai buon viaggio e ricorda: al tuo ritorno ti attende una degna ricompensa se tutto andrà come previsto!”.

Si congedò e fece segno al convocato di andare. Con un inchino, Mattehedike uscì dal castello tenendo sempre la chiave fra le mani, un po’ per essere sicuro di non perderla ed un po’ per tenerla celata ad occhi indiscreti. Si incamminò deciso, verso la superficie, con la sacca in spalla e gli occhi scuri puntati verso l’obiettivo. La luce di Sirona lo investì e si coprì gli occhi con la mano. Non era più abituato a tutta quella luce. Sapeva qual’era la direzione, era felice e sicuro di poter fare onore alla sua razza. Con quei propositi si incamminò verso il Signore dell’Ovest, dove sarebbe iniziata la più grande avventura della sua vita.

 

†††

 

Friedrik bussò, diverse volte, senza ricevere risposta. Entrò nella stanza lentamente e chiamò il nipote per nome. Lo chiamò ma questi non si girò. Assorto nella lettura di un grosso manuale, non si era reso nemmeno conto di non essere solo nella stanza. Il re del regno della Luce sospirò, ridacchiando divertito, e gli poggiò una mano sulla spalla.

“Efrehem!” lo chiamò, ed il giovane sobbalzò allarmato, scendendo dalle nuvole.

“Nonno! Sei tu…” sbottò, dopo essersi ripreso dallo spavento.

“Sì. Sono io. È ora di andare, nipote. Il tempo è giunto”.

Doveva partire alla volta del Signore dell’Ovest ma non era per niente d’accordo di esserne in grado. Era gracilino Efrehem, magro e di bassa statura, con grandi occhi arcobaleno. Non era mai uscito da quel palazzo luminoso ed era piuttosto spaventato all’idea di lasciarlo.

Più volte aveva chiesto il perché di quella scelta, perché lui era destinato a partire, ed il nonno lo aveva convinto spiegandogli che secondo lui non c’era persona più adatta per quel compito.

Era intelligente, colto e con una buona forza magica, dovevano essere queste le caratteristiche della Luce, non altre. Da quando il parente a capo di quel regno gli aveva parlato di quel viaggio, Efrehem aveva iniziato a studiare e leggere più libri possibile riguardanti Asteria, per poter essere preparato a ciò che lo aspettava. Rimase turbato da come le informazioni sui vari regni fossero frammentate e discordanti. Leggendo e rileggendo, aveva capito che molte cose avrebbe dovuto apprenderle sul posto perché da quelle pagine non se ne veniva a capo. Troppe domande! Troppe poche risposte! Credeva di essere in grado di prepararsi adeguatamente in tre settimane ma si sbagliava…era giunto il giorno della partenza e lui ne sapeva ben poco di più rispetto a prima. Rabbrividiva solo all’idea di dover affrontare una tale impresa senza le conoscenze che desiderava. Al buio. Al buio lui, che era il nipote del re della Luce!

Si passò una mano sui capelli corvini, corti e ben pettinati, sfiorando le antenne rosse che aveva sulla testa. Erano molto utili quando si volevano leggere più volumi assieme. Il cervello di quelle creature era in grado di seguire le due paia di occhi contemporaneamente, senza problemi, accorciando notevolmente i tempi di apprendimento. Gli occhi giallo-dorati su quelle antenne, però, si notava che erano stanchi per il troppo lavoro. Si socchiudevano assonnati.

“Credi davvero che io sia in grado di affrontare una cosa del genere?” domandò, per l’ennesima volta, Efrehem.

“Assolutamente!” ribatté, di nuovo, il re “Non c’è nessuno in tutto il mio regno più adatto di te a rappresentarci. Devi stare tranquillo e credere in te stesso, come hai sempre fatto”.

“Ma nonno…una cosa è imparare delle cose per poi ripeterle, un’altra è impararle e metterle in pratica! E poi qui non c’è nulla di utile, fra questi scaffali. Un’immensa biblioteca, e così poche informazioni sugli altri regni. È assurdo…”.

“Noi non possiamo andare nei loro mondi, dobbiamo attendere che siano loro a fornirci notizie. Non essendoci grandi contatti, com’è possibile avere più informazioni al riguardo?”.

Efrehem decise che, nello zaino per il viaggio, avrebbe anche portato un quadernetto bianco per potervi annotare ogni cosa. Voleva che i suoi successori avessero perlomeno la vaga idea di cosa ci fosse oltre i confini del regno della Luce.

Con il solito completo in giacca e cravatta di colore nero, si apprestò a partire. La luce della sua pelle era particolarmente forte, probabilmente per l’agitazione, ed avvertiva chiaramente il battito accelerato del suo cuore. Aveva preparato tutto da tempo, pensando accuratamente ad ogni cosa. Aveva pensato al freddo del regno del Ghiaccio, al buio dell’Oscurità, al caldo del Fuoco…per ognuno di essi sperava di essersi preparato a dovere. Ovviamente con sé portò un’accurata piantina del suo regno, l’unico di cui esisteva una mappa in tutto il territorio della Luce, ed alcuni libri che ritenne utili. Pesava sulla sua schiena quello zaino ma sapeva di non poter lasciare a casa nulla.

Suo nonno, sovrano di quel popolo, gli stava porgendo la chiave per il palazzo del Signore dell’Ovest. Era bella, dorata e luminescente. La appese al collo con la catenina chiara e la nascose sotto la cravatta, per non dare troppo nell’occhio.

“Nipote mio…” riprese a parlare il re “…non posso mentirti dicendoti che sarà un viaggio facile, breve o piacevole. Ti ritroverai circondato da creature sconosciute, di specie diverse, in luoghi in cui non sei mai stato e di cui non hai studiato. Ti stancherai, avrai fame, caldo, freddo, paura…ma ricorda che le divinità ti proteggono. Senti queste voci?”.

Nel silenzio, Efrehem sentì chiaramente i cori provenienti dal tempio interno al castello. Canzoni magnifiche, melodiose, venivano rivolte agli Dèi.

“Sì, le sento…” rispose Efrehem.

“Tienile dentro di te. Vedrai che ti daranno la forza di affrontare ogni cosa, anche la più inaspettata. Non avere paura…”.

“Non ho paura! È solo che non so cosa aspettarmi là fuori. E la cosa mi irrita perché vorrei essere preparato prima ad ogni imprevisto possibile, per poterlo fronteggiare con logica e buon senso”.

“Non tutto si può affrontare con il buon senso. L’amore, per esempio, è una sensazione che blocca ogni tua capacità logica…”.

“Non credo possa accadere che IO perda ogni capacità logica e, ad ogni modo, dubito fortemente che l’amore abbia a che fare con la missione!”.

“Era per farti un esempio, mio piccolo genio…”.

Efrehem sospirò. Con lo zaino in spalla e la cartina a portata, uscì dalla biblioteca. Friedrik lo seguiva, camminandogli a fianco, con la corona scintillante e luminosa ben calcata in testa.

“Sono sicuro che mi renderai orgoglioso!” esclamò il sovrano.

“Perché, fin ora non ti ho mai reso orgoglioso?”.

“Tantissime volte. E so che anche questa volta non mi deluderai”.

“E…se non dovessi tornare? Se incontrassi un pericolo più grande di quanto immagini e nessuno degli altri nove miei compagni mi aiutasse?”.

“Da quando sei pessimista? Andrà tutto bene! Ricorda che…”.

“Sì, sì…gli Dèi mi proteggono! Ho capito, nonno”.

Gli occhi sulle antenne del giovane si erano chiusi, addormentandosi, e non si riaprirono per un sacco di tempo.

Efrehem uscì da palazzo con una certa titubanza dentro di sé, ma mostrando estrema sicurezza all’esterno, ed incominciò ad attraversare le vie di Balder, la capitale. Qualcuno lo riconobbe, molti lo ignorarono. Non essendo mai uscito dal castello, in pochi sapevano come fosse fatto lui, principe erede al trono. Sua madre, discendente diretta di Friedrik, era morta non molti anni prima all’improvviso e di suo padre non si avevano più notizie da tempo. Sapeva che era vivo ma Efrehem non aveva nemmeno tentato di ricontattarlo, sentendosi tradito dal suo abbandono. In questo modo era lui destinato a prendere il posto del nonno, anche se al momento non ne aveva nessuna voglia. Si sentiva a disagio nei panni di sovrano. Friedrik era un uomo alto, con uno sguardo che incuteva rispetto e timore. Il principe invece, al contrario, era piccolino e con enormi occhi che suscitavano solamente tenerezza. Dimostrava di certo molti meno anni rispetto a quelli che aveva.

Intraprese il viaggio fino al palazzo del Signore dell’Ovest da solo. Voleva abituarsi all’idea di dover pensare a se stesso, senza aiuto, per non doversi ritrovare al cospetto degli altri rappresentanti dei regni senza aver mai provato la solitudine. Sirona brillava forte quella mattina ed Efrehem si concentrò per assorbirne i raggi il più possibile, sicuro che ne avrebbe avuto bisogno lungo il suo cammino. Non scendeva mai la notte in quel regno, c’era sempre luce anche se più o meno forte. Dopo non molto tempo, si pentì di aver portato con sé quei libri così pesanti. Si fermò, non riuscendo ad andare oltre. Si guardò indietro, sconfortato. La capitale era ancora a portata d’occhio. Sempre più convinto che non l’avrebbe più rivista, decise di lasciare i libri dietro di sé. A malincuore, li regalò a due simpatici signori che incrociò poco più avanti, raccomandandogli di averne cura. Non si separò, però, dal blocco di fogli bianchi in cui si era ripromesso di trascrivere per intero la sua avventura ed ogni informazione utile riguardante Asteria. Più si allontanava da Balder, inoltrandosi per le campagne, e più si sentiva fuori posto. Si pentì amaramente di non aver mai lasciato il castello per esplorare un po’ il mondo circostante, come al contrario aveva fatto sua sorella che ormai mancava di casa da anni e si faceva sentire solo per lettera.

Il viaggio durò dieci giorni, non sette come aveva previsto e sperato, data la sua andatura per nulla atletica. Giusto in tempo giunse al cospetto del palazzo del Signore dell’Ovest. Lo vide da lontano, dall’alto di una sporgenza erbosa, e sorrise. Si inquietò leggermente notando come il terreno cambiasse una volta oltrepassati i confini, che dall’alto si vedevano chiaramente. Il regno del Fuoco, sulla destra, lo spaventò con quel suolo rosso, forse di lava incandescente, e quello dell’elettricità non lo confortò di certo notando le scosse che lo attraversavano. Avrebbe davvero dovuto metterci piede? Fortunatamente il palazzo grigio e circolare dell’Ovest, identico all’esterno a quello dell’Est, gli impediva di scorgere gli altri regni, impedendogli di spaventarsi ulteriormente. Prese un profondo respiro e si accinse a scendere da quell’altura, raggiungendo la valle sottostante. Ovviamente, malfermo sui piedi com’era, scivolò per un tratto e ruzzolò fino a quando non riuscì ad aggrapparsi ad un albero, luminoso come la sua pelle. Si guardò, riflettendosi sull’acqua increspata di un piccolo fiume, e decise di darsi una sistemata prima di entrare. Sistemò i vestiti, che si asciugarono dopo il lavaggio in un attimo grazie alla forte luce, si pulì il viso dalla terra, ancora presente dopo il bagno, e si pettinò accuratamente i capelli.

La porta dal suo lato era color oro, come la chiave che portava al collo, e brillava riflettendo la luce. Gli occhi sulle antenne di Efrehem si spalancarono per ammirare quello spettacolo irripetibile. Il principe riusciva perfettamente a specchiarsi in quella superficie e pensò che gli occhi della divinità che lo proteggeva dovevano essere di quel colore. Guardò in alto, notando un’ampia finestra ad arco a tutto sesto, sormontato da una lunetta decorata con intarsi in oro. Voleva continuare a guardare quell’edificio ma sapeva che non avrebbe potuto restare lì a lungo. Era ormai giunto il giorno prestabilito. In lontananza, un satellite tondo e di colore rosso stava facendo capolino dal tetto dell’edificio, proprio sopra la sua testa. Prese coraggio, afferrò la chiave d’oro fra le mani e la infilò nella serratura, aprendo la porta ed entrando.

   
 
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