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Autore: Kanako91    28/10/2015    6 recensioni
Separata dalla guardia con cui suo fratello Turgon le ha concesso di lasciare Gondolin, Aredhel raggiunge i cugini Celegorm e Curufin, ma non li trova in casa. Durante le passeggiate per i loro territori, Aredhel si spinge troppo lontano e finisce invischiata nelle tenebre di Nan Elmoth. Dopo giorni di girovagare alla ricerca di una via d'uscita, solo un palazzo, spuntato dal nulla le offre riparo dalla foresta.
Per una promessa impulsiva, Aredhel si ritrova a vivere con cinque strani servitori e un padrone di casa che è tutto fuorché gentile e ben disposto.
[What if? del Capitolo 16 del Silmarillion: come avrebbe potuto essere tutto consenziente?]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aredhel, Eöl
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tempi di Alberi, di Fiori e di Frutti'
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Di seguito, un piccolo dizionario per gli amici dei Sindar:
Curufinwë/Curvo: Curufin
Fëanáro Curufinwë: Feanor
Írissë, Iritta: Ireth, il nome paterno di Aredhel Ar-Feiniel
Itarillë/Itarillinkë: Idril, il secondo è un nomignolo non ufficiale (grazie Elleth!)
Ondolindë: Gondolin
Turukáno/Turno: Turgon
Tyelkormo/Tyelko: Celegorm
Valar: Belain





Capitolo VII. Ritorno in gabbia




[Maeglin] disse quindi ad Aredhel: «Signora, andiamocene finché siamo in tempo! Che speranza c’è in questi boschi per te e per me? Qui siamo tenuti in custodia, e io non ne ricaverò alcun profitto; infatti, ho appreso tutto ciò che mio padre aveva da insegnarmi e i Naugrim intendevano rivelarmi. Perché non ci mettiamo in cerca di Gondolin? Tu sarai la mia guida e io la tua scorta».


Soldati Noldorin circondarono Írissë e Lómion, girando intorno a loro sui cavalli. Gli stendardi di Fëanáro e dei Silmarilli sventolavano, retti da due di loro, e il corno da caccia era cucito sulle casacche, a indicare quale figlio servivano.

Erano soldati di Tyelko!

Írissë fermò Ilkalinto e, nello scorgere il movimento di Lómion con un luccichio dei bracciali neri, tese una mano di lato. Non era il caso di estrarre Anguirel, non davanti ad amici.

«Dama Ar-Feiniel, sei tornata o sei uno scherzo del Nemico?» chiese quello che doveva essere il capitano di quel gruppo, in Sindarin.

«Sono proprio Aredhel Ar-Feiniel, o Ireth figlia di Fingolfin» disse Írissë, nella stessa lingua. «E questo è Maeglin, figlio di Eöl».

«L’Elfo Scuro» mormorò qualcuno dei soldati.

«Cosa ci fai col figlio di quel Morben?»

«Vogliamo visitare mio fratello nel Nord». Non specificò quale fratello. Non avrebbe mai voluto che qualcuno la seguisse a Ondolindë, nemmeno i soldati di suo cugino. «E Maeglin è con me perché io sono sua madre».

Il capitano chiamò a sé uno dei soldati, gli disse qualcosa a mezza voce e questi partì verso Sud, al guado.

«Bene, dama Ar-Feiniel, se vuoi seguirci, il nostro signore sarà felice di vederti».

Írissë lanciò uno sguardo a Lómion, che annuì e tornò a lanciare occhiate sospettose ai soldati intorno a loro. Doveva calmarsi, nessuno li avrebbe inseguiti ed erano al sicuro tra i soldati dei suoi cugini.

Si rimisero in cammino, cavalcando più verso Nord di quanto avessero inteso i piani di Írissë.

Eöl era partito verso i Monti Azzurri da più di una settimana e Írissë sentiva ancora bruciare quelle ultime parole che gli aveva sentito pronunciare. Non aveva dormito nel letto con lui quella notte e non era tornata nella loro camera finché lui non era partito.

Perciò quando, dopo giorni di cavalcate nel Nan Elmoth, Lómion le aveva proposto di andare a visitare i suoi parenti in Ondolindë, lei non ci aveva pensato due volte e aveva accettato. Aveva avvisato Naureth e Lainedhel della loro partenza così da non far preoccupare troppo Eöl – e presentargli davanti il fatto compiuto –, Nordal per preparare i cavalli per il viaggio, e poi erano partiti. Sperava però che Eöl non tornasse prima del tempo e che prendesse con calma quella partenza, che avesse la pazienza di aspettare il loro ritorno e non facesse qualcosa di inaspettato.

Prima di quell’ultima sera, non si sarebbe preoccupata, non avrebbe mai pensato neppure di fuggire. Ma ora non sapeva più cosa aspettarsi da Eöl.

Qualsiasi cosa ti abbia raccontato tua madre, non sono altro che le parole di una di loro, una Golodh dalle mani sporche di sangue.

Írissë strinse i denti e chiuse gli occhi. Aveva bisogno di rivedere il mondo fuori da Nan Elmoth per dimenticare quello che Eöl aveva detto. Le riusciva difficile credere che fosse stato detto in uno scatto d’ira. Lui credeva davvero che lei fosse solo una Golodh. Quei decenni passati insieme non avevano nessun significato per lui? Gli era servita solo a mettergli al mondo un erede, alla fine? Era stato disposto a giacere con una Golodh solo perché lei gli avrebbe potuto dare un figlio?

Non erano quelli i pensieri su cui voleva rimuginare. Avrebbe voluto ricordare i troppi momenti felici in quegli anni.

E ora stava per rivedere i suoi cugini dopo decenni di lontananza e avrebbe dovuto esserne felicissima.

Giunsero al castello nell’Himlad, l’ultimo posto che aveva visto fuori da Nan Elmoth, e tutto sembrava uguale a quando lo aveva lasciato, salvo per la bandiera spiegata sull’ingresso delle mura a segnalare che i signori erano in casa. Non era cambiato nulla per loro in quei quasi cento anni?

«Allora, cugina» la accolse una voce, appena varcò il portone delle mura, «com’è che te ne sei andata per boschi e sei tornata con un figlio?»

Il benvenuto di Tyelko, sorridente sulla soglia del torrione, la fece saltare giù da cavallo e tra le sue braccia.

«Oh, Tyelko» gli disse, affondando il viso tra i capelli argentati sciolti sulle spalle. Profumava sempre di foresta e di cane, ma Huan non sembrava essere da nessuna parte nelle vicinanze. Doveva essere all’interno, disteso davanti al camino, una montagna di pelo e muscoli con gli occhi gentili.

Tyelko la avvolse con le braccia e dondolò da un lato e dall’altro, una risata che gli rombava in petto. Un suono così familiare! Non si era resa conto di quanto le mancasse. La riportava dritta a tempi più felici, in cui il profumo acuto della corteccia era una presenza costante, l’odore del cuoio e dei cani da caccia qualcosa a cui il naso aveva fatto l’abitudine. In cui la luce stessa era diversa e nessuna nuvola la poteva coprire come era coperto il sole quel giorno.

Írissë era così felice che avrebbe voluto ridere e danzare. Il semplice abbraccio di Tyelko le diceva che aveva fatto bene a partire per rivedere i suoi parenti. Le avrebbe fatto bene, le avrebbe ricordato che non erano tutti Golodhrim con le mani sporche di sangue, che c’era altro al di fuori del fratricidio su cui Eöl si concentrava tanto.

«Speravo fossi diventata una dama come si deve, ora che hai messo su famiglia» le mormorò Tyelko in Quenya e le premette un bacio tra i capelli.

Írissë gli tirò una pacca dietro la schiena e sciolse l’abbraccio per guardarlo in viso. «Come sarebbe una dama come si deve? Lo sono già». E gli mostrò la lingua.

Tyelko scoppiò a ridere e la strinse di nuovo a sé. Un movimento attirò la sua attenzione e Írissë sentì la testa di lui sollevarsi e puntare, come un segugio, oltre la sua spalla.

«E quello sarebbe tuo figlio?»

«Sì, si chiama Maeglin». Sciolto l’abbraccio, Írissë si voltò verso Lómion e gli sorrise. «Gli ho parlato molto di te, di Curvo, di tutti gli altri».

«Ah» disse Tyelko e lo stomaco di Írissë si contorse dal suo tono. Era strano, non quello che si aspettava. Lui non poteva rifiutare di conoscere Lómion solo perché suo padre era l’Elfo Scuro, come lo chiamavano i suoi soldati.

Írissë guardò Tyelko e lo scoprì sorridente, una luce divertita negli occhi.

«E dimmi, Maeglin» disse Tyelko in Sindarin, «tua madre ti ha raccontato cosa faceva lei quando aveva più o meno la tua età?»

Lómion si lasciò sfuggire uno dei suoi sorrisi, così rari da adulto, e scosse la testa.

«Vieni dentro con noi» disse Tyelko, con un cenno della mano, «e preparati ad avere mal di pancia dal ridere».


* * *


Ora, Eöl tornò dall’est più presto di quanto Maeglin non avesse previsto, e scoprì che la moglie e il figlio se n’erano andati appena da due giorni; e tale fu la sua collera, che si mise alle loro calcagna uscendo alla luce del giorno.



Eöl lasciò il cavallo a Nordal e notò che quelli di Iritta e Maeglin non erano nella stalla. Non era la prima volta che tornava da un viaggio e li trovava a passeggio. Non poteva farci nulla. Col passare degli anni, Iritta aveva iniziato a girare sempre più in Nan Elmoth e Maeglin non esitava mai a seguirla.

Da quanto tempo non passeggiavano solo Eöl e Iritta tra gli alberi? Troppo tempo. Da quando era nato Maeglin, sono un paio di volte. In quasi un secolo.

Forse avrebbe dovuto rimediare.

L’idea lo riempiva di energie.

In cucina, Lammaite lo salutò senza girarsi a guardarlo, indaffarata con quella che aveva tutto l’aspetto di essere una torta salata. Eöl prese un biscotto di quelli che stava sfornando e andò verso la fucina. Aveva un nuovo ordine dai Naugrim, non solo quelli dei Monti Azzurri, ma anche dei loro cugini nelle Montagne Nebbiose. Avrebbe potuto far lavorare Maeglin con lui e fargli dimenticare quelle sciocchezze sui cugini di sua madre. Gli avrebbe insegnato i segreti del galvorn, dal primo all’ultimo, e sarebbe stato il suo erede in tutto e per tutto. E avrebbe capito che non c’era niente di interessante per lui nei regni di Golodhrim.

Non chiamò Lammaite per ravvivare il fuoco della forgia, non aveva fretta. Voleva aspettare che tornassero Iritta e Maeglin dalla loro passeggiata per raccontare loro del viaggio e per portare suo figlio in fucina.

E Iritta sarebbe stata felice di vederli all’opera insieme. C’era sempre qualcosa nei suoi occhi, quando scendeva a portare loro uno spuntino e li trovava a lavorare.

Per quel qualcosa, Eöl avrebbe sopportato gli sguardi terribili di Maeglin.

Nella fucina, il fuoco era vivo e pronto per il lavoro. Naureth aveva anticipato le sue richieste, per una volta! Eöl andò nel ripostiglio a recuperare il grembiule e i guanti di cuoio. Forse avrebbe dovuto cambiare la camicia, era ancora quella del viaggio e non voleva sentire lamentele da Lainedhel sul trattamento dei vestiti.

L’armadio dell’armatura era aperto.

Eöl si avvicinò e lo chiuse.

Poi lo riaprì. Non aveva senso che fosse ancora aperto, non lo aveva toccato prima di partire e Angrin sapeva che non doveva toccarlo.

I sostegni di legno e ferro erano vuoti.

Com’era possibile?

Dalla fucina provenne uno scoppiettio e odore di cuoio bruciato.

Eöl uscì dal ripostiglio e corse alla forgia. Ecco l’armatura, le cinghie carbonizzate ormai, ma il galvorn brillava, nero e solido, sfidando il fuoco che non avrebbe potuto fargli nulla, non da solo.

Da quanto tempo erano via Iritta e Maeglin?

Eöl afferrò una pinza e tirò via una a una le parti dell’armatura, schinieri, gambali, corazza, spallacci, ma mancavano i bracciali. Spostò i carboni, il fuoco troppo caldo persino per la sua sopportazione, e non li trovò.

Con un urlo, Eöl gettò la pinza dall’altra parte della fucina.

Sono anche un Golodh, perché Golodh è mia madre. Negarlo non mi renderà più Morben di quanto non sia, non mi renderà come te.

Oh, si era sbagliato. Quello era un figlio dei Golodhrim. Un traditore come tutti loro, un veleno per il loro stesso sangue.

Era stato disposto a insegnargli tutto, tutto. Gli aveva insegnato i suoi segreti, lo aveva portato dai Naugrim, e gli avrebbe insegnato il segreto del galvorn!

E così lo aveva ripagato. Era fuggito con sua madre, gli aveva rubato Anguirel e aveva cercato di fondergli l’armatura.

Cosa aveva creduto di fare, era stato davvero convinto che il semplice fuoco potesse fondere il galvorn?

Aveva creduto di fargli un grave danno? Di obbligarlo a restare nelle ombre di Nan Elmoth senza la sua armatura?

I bracciali non gli sarebbero serviti a scoprire il segreto del galvorn, se era per quello che li aveva rubati.

Quei bracciali non gli sarebbero serviti a nulla.

Non avrebbe portato i suoi segreti ai Golodhrim. Non avrebbe tradito il suo stesso padre, dopo quanto aveva fatto per lui.

Quell’ingrato. Quel traditore.

Sono a poca distanza da qui, non dovremo avventurarci in territori pericolosi.

«Lammaite!»


* * *


Due messaggi arrivarono dai soldati di Tyelko e Curvo li ascoltò con preoccupazione crescente.

Il primo messaggio era stato un semplice annuncio che dama Ar-Feiniel era stata ritrovata e aveva con sé suo figlio.

Il secondo messaggio era di Tyelko stesso.

«Il mio signore mi ha chiesto di dirti: Ireth è in fuga dall’Elfo Scuro. L’ho lasciata andare per la sua strada, tu sai cosa fare» disse il messaggero e Curvo poteva quasi sentire la voce irrisoria di suo fratello. «E ci teneva che aggiungessi: i Morbin non sanno come tenere le loro mogli».

Sì, la voce di Tyelko c’era tutta. Ma non bastava a divertirlo.

Curvo congedò il messaggero con un cenno della mano, chiamò il suo capitano e gli diede ordine di controllare i confini col doppio dell’attenzione – con un occhio di riguardo per l’Elfo Scuro – e tornò a rigirarsi quei messaggi in testa, ora conditi di ulteriore preoccupazione.

No, Curvo era certo che non fosse preoccupazione la sua, era irritazione. Da un lato, era sollevato che Írissë fosse ricomparsa, dall’altro aveva un figlio. E non il figlio di un padre qualsiasi. Per quanto Írissë fosse sempre stata ribelle e cocciuta, questa volta Curvo non era certo che si trattasse di ribellione di alcun tipo. Come poteva Írissë, che aveva evitato il matrimonio e la ricerca di un marito con molto impegno, aver ceduto di fronte a quel verme Avar?

Non era degno di lei, non era nessuno a cui lei avrebbe potuto rivolgere più di uno sguardo. E se lei lo avesse fatto, lui e Tyelko avrebbero provveduto a fargli capire di aver guardato dalla parte sbagliata. Curvo non lo aveva mai incontrato di persona, ma alcuni soldati giuravano di averlo visto e che fosse gobbo e pallido, sempre vestito di nero, e che non uscisse mai dalla sua foresta senza l'armatura completa, come il codardo che era.

Come se non bastasse, quel maledetto Elfo Scuro era la rogna più grande che Curvo e Tyelko potessero avere a Sud dei loro territori, al punto che le foreste infestate della Nan Dungortheb erano niente a confronto. Quando qualcuno dei loro soldati di guardia al confine con Nan Elmoth spariva, ormai sapevano che sarebbe bastato aspettare qualche giorno per ritrovarlo. Smunto, pallido e morto.

Un regalino dell’Elfo Scuro.

Curvo si alzò dallo scranno e passeggiò avanti e indietro di fronte alla scrivania, le mani dietro la schiena per impedirsi di stringerle a pugno.

I Morbin non sanno come tenere le loro mogli.

Írissë era fuggita da Nan Elmoth viva. Non poteva aver sposato quel Moriquende di sua spontanea volontà, non era così sciocca da cadere vittima di qualsiasi fascino lui potesse avere. E non doveva averne davvero nessuno.

Cosa aveva fatto quell’Elfo Scuro a Írissë per riuscire a sposarla? Non aveva avuto nemmeno la decenza di chiedere il permesso, se non a Turno – che era nascosto chissà dove, almeno ai parenti più vicini e facili da raggiungere: lui e Tyelko. Aveva agito a dispetto delle regole e aveva preso in moglie una principessa dei Noldor.

La loro Írissë.

Curvo strinse la mano all’elsa della spada. Oh, avrebbe pagato.

Ma non sarebbe stato Curvo a spargere il suo sangue su questa terra maledetta. Non avrebbe versato sangue se non per i Silmarilli di suo padre. Così avevano giurato e Curvo intendeva mantenere quella promessa. L’Elfo Scuro non aveva alcun legame con la loro vendetta, purtroppo.

Un battere di zoccoli sulla terra e un soldato corse nella tenda.

«Mio signore, lo abbiamo preso».

Curvo strinse gli occhi. «Chi?»

«L’Elfo Scuro, signore. Eöl».



«Che vai cercando, Elfo Scuro, nelle mie terre? Deve trattarsi di questione urgente, per spingere uno così nemico del sole a vagare in pieno giorno».

Ed Eöl, consapevole del pericolo che correva, raffrenò le parole aspre che gli erano venute alle labbra, e disse: «Ho saputo, Signore Curufin, che mio figlio e mia moglie, la Bianca Signora di Gondolin, sono venuti a trovarti mentre io ero lontano da casa; e mi è sembrato opportuno unirmi loro in questo viaggio».

Curufin allora gli rise in faccia e replicò: «Può darsi che, se tu li avessi accompagnati, l’accoglienza loro riservata sarebbe stata meno cordiale di quanto sperassero; ma poco importa, non essendo questa la ragione del loro viaggio. Non sono nemmeno due giorni dacché hanno superato l’Arossiach, continuando rapidi verso occidente. Ho l’impressione che tu voglia ingannarmi; a meno che tu stesso non sia stato gabbato».

E allora Eöl rispose: «Quand’è così, Signore, forse che mi darai licenza di andarmene per scoprire come stanno in verità le cose».

«Hai la mia licenza, non però il mio affetto» ribatté Curufin. «Quanto prima te ne andrai dalla mia terra, tanto più lieto ne sarò».

Allora Eöl rimontò a cavallo dicendo: «Buona cosa, Signore Curufin, trovare un parente così servizievole nel momento del bisogno. Me ne rammenterò, quando tornerò». Allora Curufin guardò Eöl rabbuiato. «Non sbandierare davanti a me il titolo di parentela di tua moglie» gli disse. «Coloro che rapiscono le figlie dei Noldor e le sposano senza fare donativi né ottenere il consenso, non acquisiscono alcun legame di parentela. Ti ho dato licenza di andartene. Approfittane e sparisci. Secondo le leggi degli Eldar, non posso più ucciderti. Ma questo consiglio voglio darti: tornatene alla tua dimora, nelle tenebre di Nan Elmoth, perché il mio cuore mi dice che, se volessi continuare a inseguire coloro che più non ti amano, più non vi faresti ritorno».


* * *


Giunsero Aredhel e Maeglin al Cancello Esterno di Gondolin e alla Guardia Scura sotto i monti; e ivi essa fu accolta con gioia e, superati i Sette Cancelli, arrivò con Maeglin al cospetto di Turgon su Amon Gwareth. Il Re stette ad ascoltare meravigliato tutto ciò che Aredhel aveva da riferirgli; e guardò compiaciuto Maeglin, figlio di sua sorella, scorgendo in lui uno che meritava di essere annoverato tra i principi dei Noldor.

«Mi rallegro davvero che Ar-Feiniel sia tornata in Gondolin,» disse «e adesso la mia città sembrerà certo più bella che non nei giorni in cui davo mia sorella per perduta. E a Maeglin saranno riservati i sommi onori del mio reame».

Allora Maeglin si inchinò fino a terra e accolse Turgon per signore e re, pronto a fare secondo la sua volontà; poi, però, rimase silenzioso e attento, perché la bellezza e lo splendore di Gondolin sorpassavano tutto quanto s’era immaginato dai racconti della madre, ed era sbalordito dalla potenza della città e dalle folle dei suoi abitanti, nonché dalle molte cose singolari e attraenti che vedeva. Ma soprattutto i suoi occhi erano attratti da Idril, la figlia del Re che gli sedeva accanto, ed era dorata come i Vanyar, la stirpe di sua madre, e gli sembrava tale e quale il sole da cui proveniva la luce che inondava la sala del Re.


«Vedi quei due alberi?» disse Turno a Lómion, tenendogli una mano sulla spalla mentre con l’altra indicava fuori dalla finestra della torre.

Lómion si sporse dalla finestra ed esclamò.

«Sono Glingal e Belthil» continuò Turno. «Avrei voluto farli splendenti e maestosi quanto lo erano gli Alberi del Reame Beato, ma c’è solo la memoria di chi li ha visti a replicarne la bellezza».

«Forse è quella memoria a rendere Glingal e Belthil meno di quello che sono ai tuoi occhi, zio» disse Lómion e, senza essere vista, Írissë sorrise. «Quello che vedo è un albero dorato e uno argentato, che brillano sotto la luce del sole. Mi fanno pensare a quella che doveva essere la gloria del Reame Beato, come se potessi vederne uno scorcio in questa piazza».

Turno scoppiò a ridere e strinse a sé Lómion, complimentandosi per l’arguzia, e Írissë cercò di imprimersi nella mente quella scena, per ricordarla quando fosse tornata a Nan Elmoth. Le bastava sapere che suo figlio era ben accetto da suo fratello e i suoi cugini – Tyelko, almeno, perché Curvo non si era fatto vedere – per metterle il cuore in pace. Era questo che aveva agognato, quando aveva pensato a Ondolindë: voleva che la sua famiglia potesse vedere e apprezzare Lómion come faceva lei.

Forse era sciocca a cercare l’approvazione della sua famiglia, dopotutto era stata una sua scelta quella di sposare Eöl e di mettere al mondo Lómion. Forse voleva solo la certezza di non essere una Golodh con le mani sporche di sangue e che il frutto del suo ventre fosse… buono.

Itarillinkë la prese braccetto e le sorrise.

«Sono felice di rivederti dopo tutto questo tempo, zia» disse. «Stavamo male per la preoccupazione, soprattutto papà. Ora sembra rinato». Itarillinkë ridacchiò. «Guarda com’è contento di avere un nipote da tormentare!»

Írissë mise una mano su quella che Itarillinkë aveva sul suo braccio. «Non prenderlo in giro, era così anche con te, quando eri bambina».

«Ricordo molto bene». Itarillinkë rivolse lo sguardo a Turno e si strinse il labbro inferiore tra i denti. «Mi chiedo se papà avrebbe mai voluto– sai, se le cose fossero andate in maniera diversa». Itarillinkë chiuse gli occhi e Írissë poggiò la testa contro la sua.

Turno avrebbe voluto altri figli, se fosse stato possibile? Di sicuro, ne aveva parlato più volte con Elenwë. Írissë lo ricordava con i bambini di Tirion, sempre pronto a giocare con loro e a portare Elenwë con sé quando lo faceva. Itarillinkë, di certo, ricordava i pomeriggi passati nella Grande Piazza a correre e saltare con i figli di chiunque altro. Turno avrebbe voluto avere anche molti bambini suoi.

Ma, se fosse stato in Aman, li avrebbe avuti. Se fosse rimasto, Elenwë sarebbe stata ancora viva. Non c’erano altre possibilità nella Endorë, solo aspettare di tornare ad Aman per mare e col perdono dei Valar oppure attraverso le Aule di Mandos.

Non erano pensieri su cui Írissë volesse soffermarsi in quel momento. Le facevano male, per suo fratello e quei suoi desideri irrealizzabili.

«Non indugiare sui se, Itarillinkë, le cose sono andate come sarebbero dovute andare. Di certo, non è il tuo dovere, né è in tuo potere, fare qualcosa per realizzare quei se».

Itarillinkë guardò Írissë e sollevò appena gli angoli della bocca, gli occhi luminosi e pieni di affetto. «Zia, mi sei mancata».

Írissë le baciò la fronte e tornò seguire con lo sguardo Turno che indicava gli edifici e le fontane di Ondolindë a Lómion.

«Quello che vedi tra i palazzi è il grande mercato» stava dicendo Turno.

«Ma da dove arriva quello che vendete al mercato?»

Turno rise ancora e si lanciò in una spiegazione sui campi intorno alla città e sugli artigiani e le miniere tra i monti, come tutto questo arrivasse al mercato e alla fine non fosse poi tanto necessario scambiare i loro prodotti con l’esterno.

«Lo rifaresti?» chiese Itarillinkë.

Írissë sapeva cosa intendeva sua nipote. Non sapeva, però, perché esitò a risponderle.

Qualsiasi cosa ti abbia raccontato tua madre, non sono altro che le parole di una di loro, una Golodh dalle mani sporche di sangue.

Quelle parole echeggiavano nelle sue orecchie e, per un attimo, Írissë fu così debole da rimettere in discussione tutto. Aveva creduto di amarlo e di essere amata. Lo amava ancora, o non si sarebbe sentita così ferita da quelle accuse.

Una Golodh dalle mani sporche di sangue.

Pure lui, a modo suo, doveva averla amata. Le aveva permesso di conoscere una parte di lui che nessun altro aveva conosciuto e che, a sua detta, non aveva avuto intenzione di far conoscere a nessuno. Non era un uomo di tante parole, Eöl, ma Írissë era sempre riuscita a capire quel che cercava di dirle con quelle sue frasi all’apparenza così prive di sentimento. E ogni volta che avevano parlato la sera, nell’intimità della loro camera da letto, Eöl non faceva che dirle – tra le righe – che se non fosse arrivata lei, lui non avrebbe voluto avere nessun altro. Che, nonostante le loro differenze, Írissë lo capiva.

Lei aveva creduto che anche lui la capisse. Che vedesse oltre il suo odio, che vedesse Írissë – Iritta! – e non tutta la schiera dei Noldor.

E si era sbagliata.

Come aveva potuto dire quelle parole a Lómion? Lei non aveva mai detto nulla contro Eöl o sul suo passato a loro figlio, nella speranza che fosse Eöl a raccontargli di lui e legarlo a sé come Írissë aveva fatto.

Una Golodh dalle mani sporche di sangue.

Invece, quello aveva detto di lei. Senza nemmeno spiegare a Lómion perché pensava questo di lei e della sua stirpe. Di certo, non credeva di essere ascoltato. Ma era quello a fare più male. Aveva detto quelle parole alle sue spalle, sapendo che lei non ci sarebbe stata per difendersi o ribattere. Aveva detto quelle parole per distogliere la mente di Lómion dai suoi parenti Noldorin.

Però ora Írissë si chiedeva se, tutti quegli anni, Eöl non l’avesse disprezzata oltre che amata. Perché, sì, Írissë sapeva di avere le mani sporche di sangue. Non lo aveva versato lei di persona, ma non aveva fatto nulla per fermarlo, e questo la dannava quanto i suoi cugini.

Ma aveva sperato che Eöl, almeno lui, la vedesse innocente o, almeno, non così colpevole.

Speranza vana.

La domanda di Itarillinkë, però, era ancora lì, che aleggiava nell’aria, e Írissë non le aveva ancora dato una risposta.

Come riassumere tutto quello che provava in un sì o un no?

«Sono stata libera, Itarillinkë» le disse. «Sono stata felice».

Esclusa quell’ultima, terribile sera a Nan Elmoth, Írissë sapeva che per tutti quegli anni era stato vero.



Eöl però, seguendo le tracce di Aredhel, trovò il Fiume Secco e il sentiero segreto e, strisciando, giunse alla Guardia, dove fu preso e interrogato. E quando le scolte seppero che egli reclamava Aredhel come moglie, ne furono sorprese e inviarono un rapido messaggero alla Città; e il messaggero entrò nella sala del Re.

«Signore,» egli gridò «i guardiani hanno catturato uno che è giunto di nascosto fino alla Guardia Scura. Eöl, dice di chiamarsi, ed è un Elfo alto, fosco e tetro, della stirpe dei Sindar; pure, proclama che la Signora Aredhel è sua moglie, e chiede di essere condotto al tuo cospetto. Grande è la sua collera e difficile è tenerlo a freno; noi però non lo abbiamo ucciso, come pure comanda la tua legge».

Allora Aredhel esclamò: «Ahimè, Eöl ci ha seguiti, proprio come io temevo. Ma in grande segretezza l’ha fatto, tant’è che non abbiamo visto né udito nessuno che ci stesse alle calcagna, mentre ci mettevamo per la Via Nascosta». Poi, rivolta al messaggero: «Colui dice il vero. Egli è Eöl e io sono sua moglie, ed egli è il padre di mio figlio. Non uccidetelo, ma conducetelo qui, per essere giudicato dal Re, se il Re lo vuole».

Così fu fatto; ed Eöl fu condotto nella sala di Turgon e stette davanti all’alto seggio di questi, fiero e imbronciato. Sebbene fosse sbalordito non meno di suo figlio da tutto ciò che vedeva, il suo cuore era tanto più traboccante di collera e odio per i Noldor. Turgon però lo trattò onorevolmente, si alzò e gli porse la mano dicendogli: «Benvenuto, cugino, che tale io ti considero. Qui potrai dimorare a tuo piacimento, salvo che devi restarci senza più dipartirti dal mio regno, essendo mia legge che nessuno, il quale trovi la strada per venirci, possa poi andarsene».

Eöl però ignorò la mano che gli veniva porta. «Io non riconosco la tua legge» replicò. «Né tu né nessuno della tua stirpe in questa terra avete il diritto di impadronirvi di regni o di stabilire confini, ovunque siano. Questa terra appartiene ai Teleri, ai quali voi arrecate guerra e turbamento, comportandovi in maniera offensiva e ingiusta. Non mi curo affatto dei tuoi segreti, né sono venuto per spiarti, ma soltanto per reclamare ciò che è mio: mia moglie e mio figlio. Pure, se nei confronti di Aredhel tua sorella tu vanti diritti, ebbene, che essa qui resti: lasciamo che l’uccello rientri nella gabbia, dove ben presto tornerà a immalinconirsi, come è già accaduto. Non altrettanto vale per Maeglin. Non mi strapperai mio figlio. Vieni, Maeglin, figlio di Eöl! È tuo padre che te lo ordina. Abbandona la casa dei nemici di tuo padre, degli uccisori di quelli del tuo sangue, o che tu sia maledetto!» Ma Maeglin rimase in silenzio.

Turgon allora tornò a sedersi sul suo alto seggio, in mano lo scettro, e con voce severa disse: «Non intendo discutere con te, Elfo Scuro. Le spade dei Noldor costituiscono l’unica difesa dei tuoi boschi senza sole. La libertà di aggirartici a tuo piacimento la devi alla mia stirpe; e, non fosse per essa, già da un pezzo ti troveresti a faticare ridotto in servaggio nelle voragini di Angband. E qui io sono Re. E, che tu lo voglia o meno, il mio giudizio è legge. Quest’unica scelta ti è concessa: di vivere qui, o di morire qui; e lo stesso vale per tuo figlio».

Eöl allora affissò lo sguardo negli occhi di Re Turgon, e non era affatto intimorito, ma rimase a lungo immobile e muto, mentre un pesante silenzio scendeva nella sala; e Aredhel ne fu spaventata, perché lo sapeva pericoloso. All’improvviso, ratto come una serpe, Eöl diede di piglio a un giavellotto che teneva nascosto sotto il mantello e lo scagliò contro Maeglin, gridando: «La seconda opzione valga anche per mio figlio! Non ti terrai ciò che è mio!»

Aredhel, però, si gettò a far da scudo al dardo che la colpì alla spalla; ed Eöl fu afferrato da molti e posto in ceppi, e via condotto mentre altri medicavano Aredhel. Maeglin però seguì con lo sguardo il padre, e restò muto.

Fu deciso che Eöl il giorno dopo sarebbe stato giudicato dal Re; e Aredhel e Idril indussero Turgon a fargli grazia.


* * *


La sera, però, Aredhel si sentì male, per quanto la ferita fosse sembrata lieve, e piombò nel buio, e durante la notte morì; che la punta del giavellotto era avvelenata, ma nessuno se n’era reso conto se non quand’era ormai troppo tardi.


Il viso di Írissë aveva perso tutto il rosa che le tingeva sempre le guance e le labbra, tutta la vitalità che l’aveva caratterizzata da che Itarillë la ricordava. La sua pelle aveva assunto una tinta grigiastra, le palpebre erano calate sugli occhi senza impedirle di vedere attraverso le ciglia. Non che Itarillë fosse certa che la zia vedesse qualcosa, quel poco che si intravedeva delle sue iridi era smorto e la pupilla era appena visibile, tanto era piccola.

Era così difficile riconoscerla. Itarillë si tormentò le dita delle mani. Se non altro, era riuscita ad allontanare papà dal capezzale della zia. Era stato il minimo che potesse fare, pur di non obbligarlo di nuovo a veder morire qualcuno della sua famiglia.

«Andava sempre in giro con un giavellotto intinto in non so quale veleno», aveva spiegato il figlio della zia, quando erano comparsi i guaritori. «Non usciva mai da Nan Elmoth senza veleno. Gliel’ho visto usare un paio di volte, non c’è nulla da fare».

Itarillë avrebbe voluto chiedergli perché aveva lasciato che sua madre si parasse davanti a lui, se aveva saputo del veleno e del giavellotto. Se lei avesse potuto prendere un po’ del gelo che si era portato via sua madre, lo avrebbe fatto. Ma le era bastato guardare papà per dimenticare qualsiasi obiezione alle parole del figlio della zia.

«Ci sono affari che richiedono la tua attenzione e che nessun altro può svolgere, papà», gli aveva detto, posandogli una mano sul braccio. «Non c’è niente che tu possa fare per la zia che non stiano già facendo i guaritori. Resterò io qui».

L’espressione di papà era stata fin troppo straziante. Itarillë temeva cosa sarebbe seguito, perché i guaritori non avevano potuto fare molto, se non constatare che si trattava di veleno.

«Mandos non ci permetterà di far nulla, mia signora», aveva detto il capo guaritore, con un sospiro. «Dama Írissë è legata al suo corpo solo dalla volontà di non lasciarlo ancora. Ma non durerà a lungo».

Il figlio della zia – il nuovo cugino di Itarillë, Maeglin – era seduto vicino al letto, le mani intorno a quella di Írissë. Lei gli stava sussurrando qualcosa, a cui lui rispondeva con mormorii che Itarillë non provò ad ascoltare. Erano conversazioni private, se la zia avesse voluto dirle qualcosa, glielo avrebbe fatto sapere.

Ma non poteva fare a meno di chiedersi cosa gli stesse dicendo. Stava chiedendo perdono per Eöl così come aveva fatto davanti a papà? O lo stava maledicendo? In qualche modo, a Itarillë riusciva difficile pensare che la zia potesse maledire l’uomo che aveva sposato.

Sono stata libera, Itarillinkë. Sono stata felice.

Lo avrebbe rifatto, così come si sarebbe rimessa tra suo figlio e quel giavellotto. Quella era una certezza.

Eppure Eöl aveva cercato di uccidere suo figlio. Forse era stato solo pazzo, forse aveva avuto delle buone ragioni. Itarillë non sapeva che pensare, era tutto così strano. Mai aveva visto un padre tentare di uccidere il proprio figlio, la cosa la turbava. Eöl era sembrato terrorizzato all’idea che suo figlio rimanesse tra loro, come rubato, e non aveva avuto la minima intenzione di passare del tempo a Ondolindë. Papà era stato troppo definitivo, ma un giorno, quando la zia avesse deciso che era stanca di quell’isolamento, se ne sarebbero andati e papà non si sarebbe imposto come la prima volta.

Però Eöl non aveva neppure considerato la possibilità. Aveva avuto solo parole di disprezzo verso di loro, sibilate in quel suo strano accento.

In tutto questo, Maeglin non aveva mostrato alcun sentimento sul suo viso, era rimasto a guardare il padre e poi la madre ferita senza lasciar trapelare nulla.

Itarillë non sapeva cosa pensare. E a turbarla più di tutto c’erano le parole di Eöl rivolte a zia Írissë.

Lascia che l’uccellino rientri in gabbia, dove presto starà di nuovo male, come è già stata male prima.

Quelle parole le facevano riaffiorare alla memoria altre parole, sentite poco tempo prima.

Sono stata libera, Itarillinkë.

Era stata davvero libera con lui? Non lo era mai stata durante gli anni passati a Ondolindë? Le era pesato così tanto l’isolamento e Itarillë non se n’era mai resa conto? Aveva sottovalutato a quel punto la voglia di libertà che aveva avuto la zia?

Era un pensiero terribile. Ancora più terribile in quel momento.

La voce della zia era impercettibile, ormai, e Maeglin si era chinato vicino alla sua bocca per sentirla.

L’aria nella stanza cambiò.

E Itarillë capì, senza dubbio alcuno, cosa era successo.

Si alzò dalla sedia e si avvicinò al letto. Il viso della zia era immobile e bianco come le vesti che aveva sempre indossato. No, quel bianco era stato luminoso, quello della pelle di Írissë era spento. Morto. Questo era l’aspetto che aveva dovuto avere mamma, ma nessuno le aveva concesso di vederla, tutti le avevano coperto gli occhi, l’avevano tenuta lontana, l’avevano distratta.

Ora non c’era nessuno a proteggerla.

Ora nessuno poteva tingere di acquerelli la cruda realtà.

Un singhiozzo le scosse il petto e Itarillë premette una mano alla bocca. Almeno questa volta le era concesso di affrontare la morte. Faceva male, ed era il ricordo della vita che c’era stata nel corpo della zia a fare male più della sua dipartita.

Questa volta, poteva anche provare davvero quello che avevano cercato di non farle provare per sua madre.

«Ora è libera da quell’uomo» disse Maeglin, alzandosi dalla sedia. «E presto sarò libero anch’io».

Itarillë non lo guardò, gli occhi fissi sul viso immobile della zia. Cosa credeva quel giovane? Che sua madre fosse stata prigioniera di Eöl? Lo credeva nonostante lei per prima fosse corsa a chiedere pietà per lui a papà? Possibile che non fosse distrutto per la morte della madre? Era solo in una città di sconosciuti!

Se Itarillë avesse pensato che la zia fosse stata infelice, se non fosse stata convinta dalle sue parole, non si sarebbe unita alla richiesta. Non avrebbe fatto di tutto per convincere papà dell’inutilità di quella morte.

Non si era pentita di quella richiesta neppure quando la zia era crollata per il veleno.

E sapeva che Írissë non aveva provato rimorso nemmeno per un attimo.

Sono stata libera.

Quelle erano state le esatte parole della zia. E, per quanto le facesse male pensare che prima di allora Írissë non lo fosse stata, Itarillë lo doveva accettare, lo aveva accettato. Per la zia la libertà era fare quel che aveva scelto di fare.

Ma ora la zia non era più libera.

E nessun altro l’avrebbe chiamata più Itarillinkë.


* * *


La cella era più simile a un ripostiglio liberato in fretta e furia, non c’era nemmeno una finestra e la porta aveva una piccola apertura, senza sbarre di ferro, che in quel momento era chiusa. Non che Eöl fosse interessato al mondo fuori da quella cella.

Nel suo petto si era aperta una voragine.

Iritta era morta.

Il veleno, in cui lui aveva intinto il giavellotto prima di addentrarsi lungo il rivo secco e che aveva inteso per se stesso o per quell’erbaccia di Maeglin, aveva fatto effetto.

Quando aveva scagliato il giavellotto, Eöl aveva saputo di essere condannato a morte. Anche quando aveva colpito Iritta, invece di Maeglin, e lei si era rialzata affrettandosi a dire che stava bene. Eöl sarebbe stato condannato a morte in qualsiasi caso, nessun potere avevano le preghiere di Iritta e di quella Golodh bionda e scalza che era sempre stata al suo fianco. Dopotutto, non c’era scampo a quel veleno e lui non aveva portato l’unico antidoto.

E dire che aveva pensato di usarlo con lei, quando l’aveva vista la prima volta.

Avrebbe dovuto farlo.

Almeno ora non avrebbe avuto in petto un vuoto intangibile e impossibile da colmare.

Iritta era morta e Maeglin continuava a vivere.

Era felice ora, felice di averli separati per sempre? Aveva ottenuto quello che voleva dai parenti di sua madre?

Era stato difficile ignorare l’aria soddisfatta con cui Maeglin era stato in piedi al fianco del re dei Golodhrim. Eöl strinse i pugni, gli occhi fissi sul pavimento. Non gli era bastato affiancarlo nella fucina? Imparare arti ricercate dai Naugrim e nemmeno immaginate dai Golodhrim?

No, era evidente che non gli era bastato. E lui lo aveva sempre saputo, perché quella luce ambiziosa che gli si accendeva negli occhi non avrebbe mai portato a nulla di buono. Anche se Iritta non gli aveva dato la risposta che lui cercava, Eöl sapeva che quello era lo stesso sguardo che aveva portato i parenti di lei alla pazzia del fratricidio e delle guerre nel Beleriand.

Maeglin era un frutto avvelenato e chissà quando il suo veleno avrebbe fatto effetto in questa città nascosta. Per avvelenare Eöl e Iritta non ci aveva impiegato molto, questa volta quanto tempo sarebbe passato?

Dei rumori fuori dalla porta lo obbligarono a prestare attenzione. Ma aveva la risposta alla sua domanda.

La finestrella in alto nella porta si aprì ed Eöl vide solo gli occhi di una guardia.

«Elfo Scuro» disse la guardia. «Il re ha decretato che, domani, quando il sole sarà sorto dalle montagne, sarai giustiziato».

Eöl non ebbe il tempo di rispondere, perché la finestrella si richiuse.

Come aveva previsto, non sarebbe stato lì a vedere quanto ci avesse messo Maeglin a distruggere la sicurezza di questa città nascosta. E allora, questi Golodhrim che si erano tanto premurati di proteggerlo, si sarebbero accorti del frutto marcio che si era nascosto tra loro.

Ma intanto Eöl avrebbe visto come ultima cosa una di quelle lampade dei Golodhrim e le loro brutte facce di assassini.

Un sorriso gli tirò le labbra.

Che morte indegna.

A un certo punto della notte, la porta della cella fu aperta e una donna incappucciata entrò. Una ciocca di capelli si intravedeva sotto il cappuccio e le dita dei piedi spuntavano da sotto l’orlo del vestito. Era indiscutibile che fosse la principessa dorata che era stata a fianco al re e a Iritta nella sala del trono.

La donna tirò indietro il cappuccio e confermò il suo sospetto.

Ma Eöl non parlò, si limitò a fissarla. Che rendesse note le sue intenzioni e si levasse dai piedi una buona volta. Non importava che avesse parlato al re dei Golodhrim con Iritta, era pur sempre una di loro.

«Tua moglie, mia zia, è morta» disse la principessa, con voce ferma.

Eöl non distolse lo sguardo.

«E non avete potuto fare nulla per salvarla? Credevo che i vostri Belain vi avessero resi abbastanza superiori da saper contrastare del veleno fatto da Morbin».

«Tuo figlio ci ha detto che nulla può contrastare il tuo veleno e i nostri guaritori lo hanno confermato».

Eöl inarcò un sopracciglio.

La principessa si guardò intorno e mosse un paio di passi lontano dalla porta, mettendosi di fronte a lui, dall’altro lato della cella.

«Se ti pentissi di quello che hai fatto, potrei riuscire a convincere mio padre a non ucciderti».

Eöl tirò le labbra in quella che sperò fosse una smorfia abbastanza brutta, da dissuaderla da qualsiasi proposito di salvargli la vita.

«Non uccidermi e poi? Rinchiudermi in questa città con voi per il resto della vita? La mia risposta non è cambiata».

Non ci sarebbe neppure stata Iritta.

Tutto grazie a loro figlio.

«Dov’è mio figlio? Sta chiedendo la mia morte al vostro re, agitando il cadavere di sua madre?»

Dovette darle atto di una cosa, alla principessa. Sapeva assumere un’espressione impenetrabile e con quei suoi capelli dorati, come la lampada del giorno, era una vista terrificante. La notte di Iritta era più familiare e confortevole di quella luce, che era troppo persino nella penombra della cella.

«Non vuoi aver salva la vita?»

«Al costo della mia libertà? Mai».

Ci fu il guizzo di qualcosa negli occhi della principessa. Poi annuì.

«La zia non ti voleva morto, non sarà felice di rincontrarti così presto nelle Aule d’Attesa».

La principessa andò alla porta e colpì il legno tre volte, dopo di che, inghiottita dalla luce, se ne andò. Forse era più tranquilla al pensiero che lui e la zia si sarebbero rivisti in queste Aule d’Attesa, di cui anche Iritta gli aveva parlato.

Peccato che per lui non ci fosse nessuna Aula in cui aspettare.

Solo la notte eterna.


* * *


Per tale motivo, quando Eöl fu tratto davanti a Turgon, non gli fu concessa mercede; e lo condussero al Caragdûr, un abisso di nera roccia sul versante settentrionale del colle di Gondolin, con l’intento di precipitarvelo dalle mura scoscese della città.


Il sole era dietro le montagne e tingeva il cielo e la neve di rosa. Itarillë si strinse nel mantello, contro il vento del mattino, e arricciò le dita dei piedi sulla pietra. Al suo fianco, il figlio della zia era silenzioso, come lo era spesso quando nessuno gli rivolgeva l’attenzione. E in quel momento, papà era altrettanto silenzioso e per nulla propenso a fare altro se non guardare le montagne.

«Non puoi ucciderlo», gli aveva detto Itarillë, quella notte. «Non è stato versato abbastanza sangue? Ondolindë doveva essere un posto privo di morte, vuoi davvero essere tu stesso a macchiarti le mani questa volta?»

L’espressione di papà era stata gelida, quasi irriconoscibile, e aveva guardato il figlio della zia. «Non sono stato io il primo a far entrare la morte in Ondolindë, Itarillë», le aveva risposto papà. «Morto l’Elfo Scuro, torneranno la pace e la vita in questa città».

Era stato impossibile parlargli oltre, perché papà si era chiuso nelle sue stanze e non ne era uscito fino a quella mattina. Il figlio della zia, Maeglin, si era ritirato chissà dove, a Itarillë non importava. C’era qualcosa di sgradevole in quel ragazzo e vederlo al capezzale della zia non le aveva fatto l’effetto che avrebbe voluto. Non aveva provato la vicinanza e la pietà che avrebbe dovuto provare nel vedere qualcuno vivere quello che aveva vissuto anche lei.

Una piccola folla silenziosa si era radunata per assistere all’esecuzione, più per avere la conferma che fosse stata fatta giustizia per la Dama Bianca dei Noldor, che per il desiderio di vedere altra morte. La maggior parte erano Noldor e Itarillë sapeva che erano stanchi quanto lei del sangue.

Sulle mura, indossavano tutti il grigio del lutto, eccetto Maeglin che era in nero come lo era stato suo padre.

Quello stesso padre che lo avrebbe ucciso, piuttosto che lasciarlo tra loro.

Golodhrim, li aveva chiamati. Aveva sputato disprezzo verso tutti loro e aveva usato quella parola orribile.

Eppure, zia Írissë si era sentita libera con lui. Itarillë non riusciva a dimenticare le parole che le aveva detto e qualsiasi cosa avesse detto Maeglin dopo la morte di Írissë non importava.

Sono stata libera, Itarillinkë. Sono stata felice.

Due guardie, circondate da altre quattro, portarono Eöl sulle mura, tenendolo per le braccia, mentre lui avanzava a testa alta, lo sguardo puntato su Maeglin. La zia aveva amato quest’uomo. Si era sentita libera e felice con lui. Itarillë si strinse una mano nell’altra.

Papà non rivolse uno sguardo a Eöl, quando le guardie si fermarono davanti a lui.

«Gente di Gondolin», disse papà, rivolgendosi alla piccola folla, «il qui presente Elfo Scuro ha tolto la vita a una principessa della nostra gente, con mezzi ignobili. Sia ora annunciata la pena da scontare».

Lo stesso araldo che il giorno prima aveva annunciato il ritorno della Bianca Dama, la sorella del Re, a Ondolindë, batté lo scettro sulla pietra delle mura e sollevò il mento.

«Il qui presente Elfo Scuro sarà gettato dalle mura, che possa incontrare la morte al fondo del Caragdûr» disse l’araldo.

La folla parve trasalire a quell’annuncio, o forse lo fece Itarillë, per quanto fosse già a conoscenza della punizione. Cosa avrebbe pensato di loro la zia quando avesse saputo, dalle Aule di Mandos, quel che avevano fatto all’uomo che l’aveva resa libera?

O forse non lo aveva perdonato del tutto per aver attentato alla vita di loro figlio?

Itarillë trovava difficile arrivare a una conclusione. Non aveva mai visto la zia guardare qualcuno come aveva guardato Eöl arrivato nella sala del trono. C’era stata preoccupazione sì, nel suo sguardo, ma Itarillë non era certa che fosse preoccupata da Eöl, quanto più per lui. E in seguito, pur avendo la spalla ferita dal giavellotto di suo marito, lo aveva difeso davanti a papà.

«È spaventato, Turno, teme che gli portiamo via suo figlio, ti prego», aveva detto la zia, mormorando in Quenya.

E dopo, solo per l’orecchio di Itarillë, aveva aggiunto: «Ci crede degli assassini, Itarillinkë. Non possiamo confermare queste sue idee condannandolo a morte».

Forse la zia aveva sperato di riavvicinarlo a loro, di mostrargli che non erano assassini. E invece ecco ora la condanna e il viso di Eöl non aveva mutato espressione. Era quello che si aspettava. Era quello che sperava.

Non vuoi aver salva la vita?

Al costo della mia libertà? Mai.

Itarillë guardò Maeglin, ma non poté leggere nulla sul suo viso. Come quando la zia era stata colpita.

Il suono dei tamburi si levò sulle mura e le guardie voltarono Eöl verso l’esterno della città, dove il dirupo del Caragdûr lo aspettava.

Sotto le piante dei piedi, la pietra di cui erano coperti i camminamenti delle mura era più fredda che mai, quasi il sole che stava sorgendo le stesse strappando tutto il calore. Itarillë non poteva fare nulla. Se condannare a morte Eöl avrebbe restituito a papà un po’ di pace, poteva sacrificare quella pace per quella della sua coscienza? Zia Írissë avrebbe capito.

Eöl salì sul cordolo delle mura, senza lasciarsi trascinare dalle guardie e si voltò per lanciare uno sguardo in direzione di Itarillë. Non era lei che guardava, ma suo figlio di fianco a lei.

«Così abbandoni tuo padre e la sua stirpe» gridò Eöl. «Che falliscano qui tutte le tue speranze, e che possa tu morire qui, della mia stessa morte!»

Qualcuno tra la folla emise un verso strozzato e, prima che Eöl potesse voltarsi a guardare davanti a sé, le guardie lo spinsero giù dalle mura. Il silenzio calò mentre il primo raggio di sole illuminava Ondolindë.

Un suono lontano provenne dai piedi delle mura e Maeglin si avvicinò al cordolo. Anche papà gli si avvicinò e Itarillë lo seguì.

Nel Caragdûr, tra le rocce, una figura scomposta giaceva sul terreno spoglio e che non avrebbe visto mai piante nascere. Come avrebbe potuto sorgere vita dalla morte che avevano appena seminato?

Papà poggiò una mano sulla spalla di Maeglin e lo strinse contro il suo fianco.

«Mi dispiace» disse papà.

«Dispiace anche a me. Mia madre non ha potuto vivere abbastanza a lungo per questo» fu la risposta di Maeglin. «Sarebbe stata libera da quell’uomo».

«Devono essere stati anni terribili» disse Itarillë, guardando Maeglin.

Lui le rivolse lo sguardo e qualcosa cambiò nei suoi occhi freddi e penetranti. Se prima l’aveva sempre guardata con l’ammirazione di un Noldo qualsiasi davanti a un gioiello, ora c’era qualcosa in quello sguardo che doveva essere lo stesso che c’era stato nello sguardo di Fëanáro Curufinwë quando i Silmarilli avevano ottenebrato del tutto il suo senno.

Maeglin annuì.

«Ma ora sono finiti» disse papà. «Vieni, andiamo via da questo posto».

Papà e Maeglin si allontanarono sulle mura, seguiti dalle guardie e la folla, ma Itarillë rimase là a guardare il sole levarsi dalle montagne, là dove era stato gettato Eöl. Il marito della zia.

Che Maeglin dicesse quello che voleva sugli anni passati da zia Írissë a Nan Elmoth.

La zia aveva confidato in lei e Itarillë non avrebbe mai dimenticato le sue parole. Le avrebbe custodite nel cuore e le avrebbe tenute sempre a mente ogni volta che avesse sentito qualcuno parlare di lei e della sua vita a Nan Elmoth.

Sono stata libera, Itarillinkë. Sono stata felice.



Fine.







Nota dell'autrice


E così finisce questo esperimento.

Non sono ancora sicurissima di come mi sento a riguardo, è stato faticoso e difficile e più di una volta mi son chiesta chi me l’ha fatto fare, soprattutto quando i dubbi mi assalivano ed ero impietrita davanti allo schermo e il foglio bianco.
Spero che il cerchio si sia chiuso bene e di essere riuscita a creare un’alternativa al capitolo originale: la fine sarà sempre tragica, ma volevo un po’ dimostrarmi che era possibile arrivare agli stessi risultati senza plot devices come un matrimonio forzato e con Írissë parte attiva di quello che succede.
E dovrebbe essere anche più chiaro perché ho inserito le citazioni sin dall’inizio. Questo capitolo senza i frammenti di Silmarillion sarebbe un insieme di missing moment e difficile da seguire (credo).

Tra l’altro, Maeglin che non fa una piega quando la madre viene medicata mi ha creepata di brutto nel capitolo canonico.
Però, quel che mi ha più influenzata del canon è la frase che dice Eöl sul lasciar tornare in gabbia Aredhel: ha fatto partire tutti gli “e se...?” che hanno fatto da prima spora per una diversa versione di questa storia. Se nel capitolo originario Eöl ha chiaramente un’opinione troppo alta e nobile di se stesso, c’è comunque un certo che di verità nell’immagine dell’uccellino in gabbia, suona così Aredhel che per me è stata un’immagine impossibile da dimenticare.

Un appunto: Celegorm dava il suo aiuto in una delle versioni precedenti (quella che si trova nell’HoME XI), mentre nel Silmarillion pubblicato non si sa bene se i cugini si siano rincontrati. Mi è piaciuto far sì che si rincontrassero e nel mentre Curufin si è autoinvitato come POV. Ci teneva a dire la sua, ecco.

Passo direttamente ai ringraziamenti, che è meglio!

Prima di tutto, grazie a Chià (kiaealterego) per il betaggio e per aver assistito ai miei deliri e paturnie con la placidità che la caratterizza e che fa di lei la mia alfa-beta perfetta.

Grazie a melianar e tyelemmaiwe per le chiacchierate e per i nomi dei personaggi originali, senza di loro sarei ancora qui a tirarmi le guance perché volevo proprio dei nomi in Primitive Quendian e dei nomi Sindarin che non fossero tutti uguali. E poi Capron sarà sempre nei nostri cuori ♥

Grazie a feanoriel, leila91, milla984 e xingchan per aver seguito questa storia con più o meno remore, ma di sicuro tanto entusiasmo e parole spesso deliranti (e graditissime)!

Grazie a Ghevurah, per aver letto nonostante le perplessità e i problemi con la vicenda originale (ed Eöl!), e per gli scambi di opinioni molto interessanti che abbiamo iniziato ad avere proprio grazie a quelle perplessità.

Infine, grazie a chi ha letto e seguito in silenzio, spero che la lettura sia stata almeno gradevole!

Volevo anche segnalare due fan art che mi hanno fatto da santini mentre scrivevo: enmeshed in Nan Elmoth di liga-marta (anche cover della storia per il Camp NaNoWriMo) e Destiny di EKukanova.

Direi che durante novembre prendo una pausa dal postaggio, perché... NaNoWriMo! Quindi scriverò come una dannata in ogni momento libero e i miei premi per il raggiungimento per la quota di parole giornaliera sarà un po’ di socializzazione. Perciò se non mi faccio viva è perché sono indietrissimo con la tabella di marcia, ma spero di no.

A dicembre con una caterva di racconti di tutti i tipi!

Kan


   
 
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