Capitolo
11: Black Hole
Tutto attorno a
me è nulla.
Sono seduta e
nonostante provi a muovere le mani non
riesco a percepire niente. Il tempo passa, forse lento, forse veloce
mentre io
aspetto che accada qualcosa. Smetto di dimenarmi, non riesco nemmeno ad
alzarmi, è inutile sprecare così le energie;
abbandono le braccia che ritornano
diligenti al loro posto, inerme aspetto che la mia fine sia vicina.
I miei occhi si
chiudono, è inutile tentare di vedere
qualcosa quando non vi è nulla da vedere.
*
*
*
*
La mia
lucidità è perduta definitivamente, inizio a
delirare. Il buio unico spettatore era testimone della mia apatia. Non
provavo
più alcun tipo di emozione, ma cosa ancora peggiore erano i
miei ricordi
perduti.
Non ricordavo
nulla, né come fossi arrivata a quel
punto né cosa ci fosse stato prima, era come se non avessi
più una coscienza.
Fluttuavo nel mare nero, non avevo emozioni, sentimenti.
Sono morta?
Si, sono morta e
questo è il cimitero delle anime
perdute, un’esistenza condannata al buio eterno, sola per
sempre.
Ma la mia mente continuava a rimandarmi insistente un pensiero che
puntualmente
tentavo di scacciare.
Chi ero io?
Voci confuse
sembravano sfiorare quel mondo d’oscurità
in cui a quanto pare abitavo ormai da tempo. Alle volte sentivo un nome
essere
pronunciato più spesso nel fiume di parole che mi
attorniavano, quasi veniva
urlato mentre altre volte sembrava un sussurro, una richiesta
d’aiuto, le voci
così come le parole mi arrivavano ovattate come attraverso
un muro, un eco di
un mondo lontano.
Ariel
Chi era Ariel?
Una nuova
consapevolezza si fece largo dentro di me,
Ariel era il mio nome, Ariel ero io.
Come ero
arrivata in quel posto? Ricordavo di essere
partita, un viaggio… ma nulla di più. Forse ero
morta, probabilmente era così,
altrimenti perché non ricordavo più nulla? Dovevo
aver avuto qualche incidente,
ma dove?
Tentai di
ricordare con tutta me stessa, strinsi gli
occhi più forte come se quel gesto potesse aiutarmi.
C’era
una luce, era calda e avvolgente, c’era qualcuno
con me, qualcuno a cui volevo bene. Era una persona importante per me,
forse
era una delle mie sorelle, no. No.
Era
un’altra persona, sentivo che era qualcuno di più
importante, Papà? Chiamai nel mio animo ma non era quella la
risposta giusta,
mi sentivo frustata, era come essere vicini a qualcosa e lasciarsela
sfuggire
tra le dita.
Cercai di
concentrarmi di più, non stavo dando il mio
meglio. Provai a ricostruire gli ultimi istanti di quella che doveva
essere
stata la mia vita.
Dolore, provai
improvvisamente un forte dolore, poi
scomparve così come era venuto lasciandomi inerme a
riflettere.
C’era
qualcosa di importante in quegli ultimi istanti
che mi sfuggivano, qualcosa che mi avrebbe aiutato a capire meglio in
quale
situazione mi trovassi. Anche prima avevo quei dolori, ricordai che
poco prima
di essere avvolta dalla luce ero piegata in due da forti contrazioni
alla
pancia.
“Resisti,
Ariel” la voce che ricordavo era gentile ma
anche molto preoccupata, era una voce così
familiare… ma dove l’avevo mai
sentita?
Un nome
iniziò a farsi largo nella mia mente
annebbiata, dapprima in un sussurro poi sempre più forte,
sempre più chiaro. Mi
ritrovai a gridarlo a mia volta.
Arren.
E come da un
sogno aprii gli occhi ritrovandomi al
punto di partenza.
Era lui che non
riuscivo a ricordare, mi sentii in
colpa solo per il fatto di averlo dimenticato. Come avevo potuto
scordarmi di
una persona così importante per me? Come?! Ero arrabbiata
con me stessa, era mio
marito, l’amore della mia vita, ed io ero un essere
spregevole.
Improvvisamente
un nuovo pensiero si fece largo nella
mia mente, volevo vederlo, eravamo insieme mentre quella luce calda ci
avvolgeva, se io ero morta lo doveva essere anche lui, doveva essere
lì da
qualche parte.
Arren! Lo
chiamai a voce sempre più alta.
Un altro dolore
alla pancia mi sorprese, l’ignorai.
Dove sei?
Perché non sei qui con me?
Tu sei troppo
buono, tu non meriti di stare in un
posto del genere, sarai asceso al tempio della pace, al ristoro
dell’animo dove
vanno tutte le creature che in vita sono state buone.
Perché
il destino ci separa ancora?! Mi danno con me
stessa ma so comunque di non poter far nulla, sono egoista e ti vorrei
qui con
me, ma la verità è che sono felice che tu sia in
un posto migliore.
Calde lacrime mi
bagnano le guance. Sono sola. Sono
morta. Sono condannata all’eternità.
Addio
mondo… addio Arren… Addio Aris.
L’ultimo
nome mi viene quasi spontaneo, prima ancora
di poter capire a chi appartenga realizzo che Aris è mio
figlio, è il nome del
bambino che porto in grembo.
Improvvisamente
i dolori alla pancia iniziano ad avere
senso, è lui che tenta di svegliarmi, mi sta implorando di
rimanere in vita, io
glielo devo, se io muoio e mi lascio andare allo sconforto anche lui
perirà con
me e questo non è giusto. Solo perché sono una
madre vigliacca ciò non vuol
dire che devo privare mio figlio della sua vita.
Mi asciugo le
lacrime, troverò la forza per uscire di
qui, la troverò per te bimbo mio.
I dolori
diventano più forti, forse mi sto svegliando
da quest’incubo, forse sono vicina ad una via di fuga. Aris,
Arren. Penso a
loro due e mi convinco che deve essere così.
Stringo i denti
trovando la forza di alzarmi, ogni mia
parte del corpo mi sembra pesare una tonnellata ma nonostante questo mi
muovo
nuotando dritta davanti a me.
Sono stanca e i
dolori diventano sempre più frequenti,
devo farcela. Non posso arrendermi, non adesso.
Ad un tratto
proprio nel momento più disperato in cui
penso di poter davvero mollare tutto, di non essere abbastanza forte,
intravedo
un punto luminoso che brilla in lontananza.
Mi aggrappo alla speranza, è tutto quello che ho.
Non so come sia possibile ma penso che se raggiungerò quella
luce ce l’avrò
fatta. È una lotta con me stessa, il mio corpo si rifiuta di
obbedirmi, si
ferma proprio mentre sono più vicina.
Tendo una mano
con fatica. Grido.
Grido i loro
nomi, “Arren! Aris!”
Le palpebre si
fanno sempre più pesanti, gridò più
forte, non voglio!
Piango, urlo.
“non voglio morire!”
Gli occhi mi si
chiudono contro la mia volontà,
attraverso le palpebre percepisco il freddo del vuoto che ritorna a
circondarmi.
Il mio corpo sta
cadendo all’indietro, trascinato da
chissà quale forza misteriosa.
La mia mano
rimane sospesa a mezz’aria. Poi sento un
bacio sulla fronte.
“Non
mollare mamma, ce l’hai quasi fatta”
Apro gli occhi
giusto in tempo per vedere il volto di
un giovane tritone scomparire nella luce.
Mi do un ultima
spinta con la coda strappando il mio
corpo all’oscurità del nulla, poi finalmente,
entro nella luce.
****
La ragazza
aprì gli occhi con estrema
fatica. Provò a muovere le labbra ma sembrava che la sua
bocca non pronunciasse
una parola da anni.
Arren, suo
marito le
teneva la mano ma aveva il volto rivolto verso qualcun altro. Stavano
parlando,
il biondo sembrava molto agitato, ma lei non riusciva ancora a
distinguere le
loro parole, le doleva la testa, ogni parte del suo corpo le faceva
male, come
se non l’avesse usato da tempo, quando spostò lo
sguardo quasi rimase paralizzata
dalla paura quando si rese conto di non riuscire a vedere la coda, un
pancione
enorme le bloccava la vista. Eppure era sicura di essere giusto di
qualche
mese, com’era possibile?
Mosse debolmente
la mano
intrecciata con quella di lui. Si rese conto di essere nel letto
dell’ospedale.
Il suo braccio era pieno di tubi di cui non ricordava nemmeno
l’esistenza.
Il ragazzo si
voltò
sentendo la mano inerme da mesi di sua moglie muoversi. I loro occhi si
incontrarono, “Ariel! Ariel sei sveglia!”
Lasciò
perdere la persona
con cui stava parlando sino a poco prima.
“è
sveglia! Si è
svegliata!” continuava ad urlare a tutti, solo in quel
momento Ariel si accorse
che vi erano altri nella stanza assieme a loro.
Le
accarezzò la fronte
scostandole i capelli dal viso. I suoi occhi verdi si fecero lucidi.
“Temevo
che…” le
accarezzò la guancia con la mano tremante.
“Quanto
ho dormito?”
disse a fatica schiarendosi la voce che uscì rauca e debole.
Lui chiuse un
momento gli
occhi asciugandosi una lacrima in maniera discreta.
“Sono
sette mesi ormai”
le rispose con voce rotta al solo pensiero di aver passato tutti quei
giorni al
suo capezzale sperando in un miracolo.
Un fortissimo
dolore alla
pancia le fece stringere i pugni e chiudere gli occhi in un gesto
improvviso.
“Cos…aaaAAAAHHHHHH!”
le
sfuggì un urlo con una potenza che credeva di aver perso.
Arren si mise
accanto a
lei mentre l’aiutava a mettersi in una posizione
più comoda sorreggendole la
schiena.
“Ci
siamo” le disse lui
agitato.
“Ariel si forte. Il bambino sta arrivando”