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Autore: uhstilinski    30/10/2015    3 recensioni
I numerosi alberi che circondavano la scuola di Beacon Hills erano mossi da un insolito vento autunnale, gli studenti si affrettavano ad entrare, visibilmente infastiditi dal suono insistente della campanella. Un rombo di motore attirò l’attenzione di Emma, un ragazzo in sella alla sua moto rossa fiammante aveva appena parcheggiato a qualche metro dalle gradinate di marmo, sfilandosi il casco per rivelare un paio d’occhi glaciali. Stretto nella sua giacca nera di pelle, sparì lentamente dalla sua vista, mimetizzandosi tra la folla.
«Quello è Jackson Whittemore» mormorò una ragazza dai capelli neri e gli occhi grigi, affiancando la giovane. «Il capitano della squadra di lacrosse e di nuoto, praticamente il tipo ideale di chiunque abbia un paio d’occhi funzionanti». Emma dovette sembrare parecchio confusa, data l’espressione divertita che nacque sul suo viso pallido. «E io sono Valerie Butler», le porse la mano con gentilezza perché la stringesse, sorridendo.
«Emma. Emma Walker».
«Lo so» annuì immediatamente la mora, allungando il passo. «È una cittadina molto piccola, le notizie arrivano prima di quanto immagini» concluse con espressione furba, rivolgendole un altro sorriso cordiale e divertito prima di correre in classe.
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Derek Hale, Nuovo personaggio, Scott McCall, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hot Mess.


Goccia dopo goccia, il temporale si abbatteva irruente e spietato sulla cittadina apparentemente tranquilla di Beacon Hills. Quel martedì mattina un particolare profumo di cornetti caldi e appena sfornati svegliò Emma, che aveva dormito stretta nel piumone fino all’ultimo secondo possibile. Stropicciò gli occhi stanchi, sbadigliando ripetutamente: si sentiva talmente fiacca da desiderare di poter passare l’intera giornata al caldo tra le coperte, tenendosi ben lontana dalla burrascosa tempesta scatenatasi improvvisamente.
«Scendi per la colazione?» domandò ad un tratto Chris dal piano di sotto. Non aveva nemmeno avuto bisogno di alzare troppo il tono della voce. Emma poteva sentirlo trafficare con gli utensili da cucina, indaffarato in chissà quale faccenda di casa. 
«Sì» replicò semplicemente lei, saltando giù dal letto con uno slancio insolito. Si chiuse in bagno per una ventina di minuti, tempo che impiegò per fare una doccia, lavare i denti, sistemare i capelli, vestirsi e truccarsi. Fu pronta in tempo record, tanto da stupire persino se stessa. Si controllò allo specchio un’ultima volta e con uno sbuffo rumoroso, si diresse di sotto. Sarebbe stato inutile continuare a pettinare i capelli nella speranza che una volta uscita, non si arruffassero a causa dell’umidità. Scese gli ultimi gradini con estrema lentezza, il solo pensiero di doversi confrontare con suo padre le faceva venire il mal di pancia. Non gli aveva rivolto parola dall’ultima discussione lasciata a metà e nonostante sapesse di avere ragione, quella situazione non giovava di certo a nessuno dei due. Non aveva senso continuare ad ignorarsi, sarebbe stato da stupidi nascondersi dietro ad un dito. Vivevano sotto lo stesso tetto, prima poi quel momento sarebbe dovuto arrivare. Si fece coraggio e prese un bel respiro, dirigendosi a passo diretto e sicuro in direzione della cucina, nella quale suo padre faceva colazione. Varcò la soglia e lo trovò seduto su uno sgabello a sorseggiare del caffè corretto con un po’ di latte, come suo solito. Il suo sguardo mortificato si spostò altrove quando Emma fece per avvicinarsi. 
«Ho cucinato dei cornetti surgelati» esordì lui, indicando il forno con un cenno del capo. Emma si ritrovò ad abbozzare una piccola risata e nel prendere la teglia ancora calda, si voltò verso di lui. 
«Ma papà, non li hai cucinati.. Al massimo li hai riscaldati» esclamò con un sorriso stampato sulle labbra.
«Già, sì, il tuo vecchio non sarebbe in grado nemmeno di preparare un uovo» replicò lui con una smorfia divertita.
«Non è vero, non dire così!» lo ammonì seria lei, afferrando un cornetto dall’aspetto alquanto discutibile. Sperò solo che fosse tanto profumato quanto buono. «Solo perché io sono più brava, non vuol dire che tu debba abbatterti in questo modo». Si scambiarono un altro sorriso giocoso, prima che Chris tornasse serio in volto e si schiarisse la voce con un colpo di tosse.
«Sai, penso che dovremmo parlare» mormorò, appoggiandosi sul tavolo con entrambi gli avambracci coperti dalla giacca di pelle. Emma annuì lentamente, riponendo la teglia nel forno prima di andare a sedersi proprio di fronte a lui.   
«Mi dispiace molto che tu ti sia sentita messa da parte da me. So bene che ti ho sempre chiesto chiarezza e sincerità, promettendotene altrettanta a mia volta, però questa è una faccenda molto più grande di te, nella quale avrei preferito non averti mai coinvolta. Tuttavia, è successo e non posso cambiare di certo le carte in tavola a questo punto. Tu stai crescendo, quella piccola bambina di sei anni che non andava dormire senza favola della buonanotte sta diventando una donna e per quanto sia dura doverlo accettare, prima o poi andrai via da me» disse l’uomo dagli occhi color ghiaccio e i capelli brizzolati, sospirando profondamente davanti a quella consapevolezza.
«Ma papà, io ci sarò sempre» lo interruppe lei, aggrottando la fronte nel sentirlo parlare in quel modo.
«Fammi parlare, per favore. Dicevo, per quanto non mi vada a genio l’idea di doverti vedere andar via, ho bisogno di sapere che quando lo farai, sarai forte abbastanza da poterti difendere da sola. Forse ho sbagliato a non dirtelo prima, è solo che ho sempre pensato che a diciassette anni si è così giovani ed ingenui, da non essere pronti ad affrontare una realtà del genere. Parliamoci chiaro, quanti altri adolescenti al di fuori di Beacon Hills si ritrovano a dover avere a che fare con dei licantropi e dei cacciatori?»
Il discorso di suo padre non faceva una piega, solo in quel momento Emma realizzò di aver reagito in maniera un po’ troppo impulsiva. Non poteva farci niente, quello era il proprio carattere, la propria natura, ed era certa che potendo tornare indietro, lo avrebbe rifatto altre cento volte.
«Hai ragione, è tutto molto strano per me, sto cercando di ambientarmi nel migliore dei modi in questo posto. È vero, è stato uno shock scoprire tutti i retroscena di questa cittadina apparentemente pacifica, di certo trasferendomi qui non avrei mai immaginato di dovere avere a che fare con tutto questo soprannaturale. Però, nonostante tutto, se vuoi saperlo mi trovo davvero bene con i miei nuovi amici e anche se le cose potrebbero andare meglio, cerco sempre di non scordarmi che potrebbero anche andare molto peggio» replicò tutto d’un fiato la giovane bruna, inumidendosi le labbra secche e asciutte per il tanto parlare. Chris sospirò, riflettendo sulle parole di sua figlia. 
«Devi promettermi che non ti metterai nei guai per nessun motivo al mondo» le ordinò serio, puntando i suoi occhi di ghiaccio in quelli color caramello di Emma. Era incredibile quanto gli ricordassero le iridi allegre e vivaci della donna che l’aveva messa al mondo. A dirla tutta, non c’era un particolare che non gli facesse pensare a Joanne quando la guardava, erano identiche, due gocce d’acqua.
«E tu promettimi che non ucciderai mai più nessun licantropo senza motivazioni valide».             
«Sei buona come tua madre» ammise sincero, con un sorriso ad illuminargli il volto stanco e provato.
«E determinata come mio padre» aggiunse lei furbamente, addentando il cornetto ormai freddo. «Pace?»
«Pace» annuì lui, alzandosi per sciacquare la tazzina. «Quindi sai anche che McCall è uno di loro» suppose dopo qualche istante, sorprendendola.          
«Come sai che conosco Scott?» domandò con un cipiglio. Non era un segreto che lei e Scott fossero amici, ma suo padre non era mai andato a prenderla a scuola, dove diavolo aveva potuto averli visti assieme?          
«Le voci tra quelli come me girano fin troppo velocemente, bambina mia» mormorò lui, con le mani insaponate. «Poi ho visto il modo in cui difendevi la sua razza l’altro giorno, eri troppo agguerrita… Non devo mica preoccuparmi, vero? Non vorrai mica che gli spari una pallottola in fronte, giusto?»
Emma si ritrovò a trattenere il fiato, spalancando gli occhi al solo pensiero di una scena simile. Non poteva fare sul serio.
«Papà! Tra me e Scott non c’è assolutamente niente. E scordati di fargli del male, è una brava persona» esclamò lei, alzandosi in piedi per gettare nel secchio la parte finale del cornetto, che proprio non riusciva a sopportare. Aveva quello strano vizio sin da piccola, probabilmente glielo aveva trasmesso sua madre, che di stranezze se ne intendeva fin troppo bene.
«Sto scherzando, seguo un codice ben preciso e non mi verrebbe mai in mente di uccidere un giovane ragazzino senza motivo. A maggior ragione se mi dici di tenerci tanto» le fece presente lui, asciugandosi le grandi mani con un pezzo di carta. La sua espressione rilassata le fece capire quanto fosse sincero nel dire quelle cose, conosceva suo padre, sapeva riconoscere quando mentiva e quando invece diceva la verità. Dopo tutti quegli anni potevano dire di conoscersi a memoria. 
«Molto bene, soldato. Mi fido» mormorò affettuosamente, rimarcando quel buffo soprannome che gli aveva dato a soli cinque anni e che continuava ad utilizzare in maniera scherzosa. Chris sorrise ampiamente nel sentirsi apostrofare ancora in quel modo, per quanto fosse fiero della figlia che da solo aveva cresciuto, gli mancavano un po’ i vecchi tempi privi di problemi e preoccupazioni tanto grandi.     
«La ringrazio, generale Walker, ma adesso sarà meglio che vada a scuola, altrimenti farà tardi» ridacchiò lui, controllando l’orario con un’occhiata rapida all’orologio a muro di fronte a sé. Emma liberò una risata acuta ed ilare prima di stampare un piccolo bacio sulla guancia ruvida di suo padre e sgattaiolare fuori di casa, munita di ombrello e chiavi dell’auto. 

La Beacon Hills High School non contava così poche presenze almeno da dieci anni, quando un professore aveva dato di matto e si era lanciato da una finestra del secondo piano, finendo brutalmente schiacciato contro l’asfalto. La segretaria lo ricordava ancora, per ben tre giorni si erano presentati a lezione solo i soliti trenta studenti, che di starsene a casa proprio non ne avevano avuto la minima intenzione. Quell’anno, però, era diverso: nessuno sfortunato evento aveva segnato la reputazione dell’antica scuola, semplicemente al notiziario mattutino avevano consigliato di non uscire di casa a causa di una seria allerta meteo. Erano previsti rovesci per tutta la giornata ed Emma si maledisse per non aver seguito il telegiornale quella mattina. Ovunque si girasse, c’erano decine di studenti adirati. C’era chi si lamentava per le scarpe nuove, chi per il libro di biologia che si era bagnato e chi, semplicemente, si godeva una sigaretta seduto al riparo dal temporale, che non aveva fatto altro che causare malcontento. 
La bruna tossicchiò e si ravvivò i capelli ondulati e bagnati sulle punte, nonostante l’ombrello, sembrava essersi inzuppata a dovere lo stesso. E probabilmente, si era beccata anche un brutto mal di gola, a giudicare dal fastidioso bruciore che percepiva all’altezza dell’ugola. Arrivò davanti al proprio armadietto e dopo aver inserito la combinazione, lo aprì e afferrò il libro di algebra. Il solo pensiero di dover passare un’ora ad ascoltare stupidi e incomprensibili ragionamenti matematici le provocò i crampi allo stomaco.
Sbuffò, infastidita dalle punte delle Converse bianche bagnate, domandandosi mentalmente perché avesse scelto delle scarpe del genere quella mattina. A volte faceva fatica persino a capire i propri ragionamenti. Anche se la verità era che ultimamente – da tre giorni, con precisione – aveva la testa da un’altra parte. E la causa di tutti quei pensieri, ahimè, era proprio Derek. Era sparito da ben tre giorni alla ricerca del branco di Alpha e dal momento della sua partenza silenziosa, nessuno aveva più ricevuto sue notizie. Scott diceva che fosse normale per uno come lui, “Non stupirti, è di Derek che stiamo parlando. È fatto così.” sembrava essere diventata la sua risposta preferita quando usciva fuori l’argomento. La cosa che la irritava di più, era il non riuscire a capacitarsi del perché fosse così in pensiero per lui. Continuava a ripetersi che lo avrebbe fatto con chiunque e forse per un po’ ci aveva anche creduto. Ma dopo un’attenta analisi aveva compreso quanto fosse inutile prendersi in giro in quel modo: per lei, Derek non era chiunque. Non sarebbe mai stato in grado di vederlo come uno dei propri migliori amici. Che poi, a pensarci bene, loro due cosa erano? Amici, forse? Ne dubitava altamente. Scott era suo amico, Stiles ed Isaac erano suoi amici. E Derek? Derek che cos’era?
«Emma!» la voce di quel citrullo di Stilinski la fece sobbalzare, finendo con la schiena spiaccicata contro l’armadietto ormai chiuso, i libri stretti al petto e le labbra schiuse per riprendere aria. 
«Stiles, dannazione» esclamò lei, col fiato corto a smorzarle la voce. «Potresti fare più rumore la prossima volta che ti avvicini?»
«Ma se ti stavo chiamando da due ore» borbottò lui, aggrottando le sopracciglia a mo’ di smorfia confusa. «A che stai pensando? Ancora al Lupo Cattivo
«Stiles» gracchiò inviperita lei. «Puoi smetterla con questa storia una volta per tutte? Altrimenti ti ci faccio sgozzare dal Lupo Cattivo».
L’aria minacciosa di Emma non fece altro che far ridere allegramente il ragazzo, che teneva fermo sulle spalle lo zaino e si dondolava sui talloni come un bambino divertito. 
«Non sei brava a nascondere le cose, Ems» la canzonò, apostrofandola con quel nomignolo, che aveva tanto l’aria di essere la versione un po’ più originale e moderna del solito vecchio soprannome col quale tutti erano abituati a chiamarla. 
«Non ti nascondo proprio niente, Stiles» ribatté a tono lei, sollevando il mento con fare orgoglioso. «Non penso assolutamente a nessuno in particolare».
Lui la studiò per pochi istanti di sottecchi, abbozzando un sorrisetto furbo. 
«Non sarò un licantropo, ma riesco a sentire l’odore della menzogna prima ancora che qualcuno ne dica una». 
«Ti va di dirmi questo che odore abbia?» domandò un istante prima di mostrargli il dito medio e superarlo con un sorrisetto, diretta nell’aula di algebra. 
«Oh, avanti» sbuffò lui, «non fare l’antipatica, occhi di gatto».
«Dovresti smetterla di frequentare Valerie, ti attacca tutte le sue manie strane. Per esempio, quella dei nomignoli più assurdi» esclamò lei sincera, nascondendo un velo di divertimento dietro uno sguardo troppo serio, che non le si addiceva affatto. 
«Hai ragione, candido bocciolo» la punzecchiò lui, affiancandola. Emma gli lanciò un’occhiata cupa, sbuffando più volte.
«Stiles» borbottò, continuando a camminare.
«Dimmi, pollo al curry» esclamò lui, con tono estremamente convinto. Emma storse il naso sottile e all’insù, aggrottando le sopracciglia curate. 
«Pollo… al curry?» lo guardò sconcertata, trattenendo una piccola risata per via della sua espressione buffa. 
«Che c’è? Non mi veniva in mente niente» si giustificò lui, entrando subito dopo di lei all’interno dell’aula, prendendo posto alla sua sinistra. 
«Sei incredibile» sogghignò lei, scuotendo il capo. Una volta trovato posto, alla destra di Stiles, aprì il quaderno di algebra, portandosi letteralmente entrambe le mani nei capelli alla vista dei numerosi esercizi che aveva lasciato incompleti, con tanto di punto interrogativo rosso e gigante disegnato affianco. 
«Ci hai capito qualcosa?» domandò la bruna con sguardo perso, avvicinando il quaderno alla faccia di Stiles, che sembrava stesse già per addormentarsi sul banco. Lui sollevò il viso pallido, lanciando un’occhiata rapida agli scarabocchi dell’amica.
«Ovvio» rispose, alzando le spalle. «Ma credo che a te serva una mano».
«Tu dici?» mormorò lei con ironia, sbuffando prima di puntare un gomito sul banco e poggiare il mento contro il pugno chiuso. 
«Posso darti una mano, se vuoi» si offrì con un bisbiglio, in modo da non farsi sentire dal professore appena entrato in aula. Lei annuì, abbozzando un sorriso come ringraziamento per essersi offerto.
«Sai dove possa essere Valerie? Non fa mai ritardo» gli fece notare dopo pochi istanti passati a guardarsi intorno. 
«No, volevo chiederlo a te» ammise Stiles, grattandosi la nuca con fare spaesato. Quei suoi grandi occhi color nocciola gli donavano un’aria da cucciolo smarrito. 
«Mandale un messaggio» suggerì lei, continuando a bisbigliare per non fare troppo chiasso. 
«Io? Perché io? Fallo tu» ribatté, contrariato da quella proposta. 
«Stiles, andiamo» alzò gli occhi al cielo lei, sospirando spazientita.
«Uffa» si lamentò il giovane, affondando il viso tra le braccia conserte.
«Stiles» continuò Emma, con tono più autorevole. Era ridicolo che fosse ancora infastidito a causa di Aiden e dell’uscita a quattro che Valerie avrebbe voluto organizzare per fargli conoscere una ragazza. Infondo era un pensiero carino.
«E va bene, ma mi firmo col tuo nome» le disse lui, serio. Prima ancora che Emma potesse replicare, inviò il messaggio. «Fatto», sorrise malefico.
«Ripeto, sei incredibile» ribadì lei, lanciando un’occhiata preoccupata al temporale fuori la finestra. Temeva con tutta sé stessa di poter rimanere bloccata a scuola quel pomeriggio.
«Mi sa che non ci è cascata» borbottò lui dopo un minuto, fissando lo schermo sbloccato del proprio cellulare. 
«Fa’ vedere» gli disse lei, allungando la mano. Afferrò il telefono e lesse i messaggi con espressione divertita.

A: Valerie (8.28)
“Come mai non sei a scuola? – Ems”.

Da: Valerie (8.29)
“Buongiorno anche a te, Stiles. Allerta meteo, ho preferito non rischiare. Salutami Emma”.

«Sei proprio scemo, non mi sono mai firmata così e in quel modo mi ci chiami solo tu» ridacchiò la bruna, restituendo il cellulare al proprio padrone. 
Stiles le rivolse un’occhiataccia e nascose nuovamente il viso tra le braccia conserte. 
 Il signor Roberts chiamò qualche volontario alla lavagna, iniziando la tanto temuta lezione. Emma fece attenzione a nascondersi dietro le spalle di Kevin, uno della squadra di nuoto alto quasi due metri. Per quel piccolo particolare, si risparmiò parecchia fatica: di solito nascondersi dietro Isaac era un pochino più impegnativo, nonostante nemmeno lui fosse poi tanto basso. 
«Chi sa risolvere questa equazione irrazionale? Prescott?» fece il professore, consegnando il gesso alla seconda volontaria, Amber Prescott, dai lunghi capelli biondi e l’aria un po’ da snob.
«Hey» la richiamò Stiles, probabilmente illuminato da un’idea delle sue. 
«Dimmi» mormorò Emma, lanciandogli un’occhiata di sfuggita. Stava adottando la tattica del sorridi e annuisci anche se non capisci un tubo e col professor Roberts sembrava funzionasse più che bene.
«Ho trovato un altro nomignolo. Che ne dici di Occhio di Bue?» ridacchiò sommessamente lui, sollevando un sopracciglio. Emma affondò il viso tra le mani, scuotendo il capo con la profonda convinzione che nessuno avrebbe potuto battere il livello di idiozia di Stiles. 
«Che ne dici se ti taglio la lingua?» ribatté lei, tentando invano di seguire la lezione. Che volesse ammetterlo o meno, parlare con Stiles, o sentirlo solo sparare stupidaggini, era più allettante di quelle stupide equazioni irrazionali.
Quando la campanella suonò, l’intera classe fu sgomberata nel giro di un minuto.
«Quindi non ti è più… ecco, capitato di sentire quelle voci?» domandò curioso Scott, aggiuntosi alla coppietta per fare il punto della situazione prima che suonasse la seconda ora. Per tre giorni non si era verificata nessuna anomalia, nessuna uccisione, niente di niente. E per quanto questo li allietasse, non potevano negare che fosse strano. Si erano abituati fin troppo a tutti quegli strani avvenimenti da sentirne inconsapevolmente, in un certo senso, quasi la mancanza. Quasi come se fosse troppo normale camminare per i corridoi della scuola senza avere addosso l’ansia di essere seguito o girare per il bosco senza dover temere di essere attaccato da qualcuno o qualcosa.
Era tutto nella norma, persino Derek si stava comportando da… Derek. Era sparito e secondo Isaac e Scott era una cosa normale, una cosa da aspettarsi da lui. Eppure Emma temeva che potesse trovarsi in pericolo e che i propri sensi da banshee fossero, come dire, difettosi. Non aveva fatto alcuna pratica, non sapeva nemmeno se ci fosse un modo per controllarli.
«No, non ho più sentito nessuna voce, niente. Nessuna cosa da banshee negli ultimi tre giorni» spiegò per l’ennesima volta, sotto lo sguardo incredulo di Scott. Sembrava come se volesse per forza estorcerle qualche informazione soprannaturale, nonostante lei gli avesse ripetuto almeno dieci volte che non fosse accaduto proprio un bel niente. 
«Strano» sbuffò infine. «Deve essere la quiete prima della tempesta, o qualcosa del genere. Dobbiamo tenerci pronti per un eventuale attacco da parte degli Alpha, ma senza Derek la vedo dura».
«Ancora non si è fatto vivo?» chiese un po’ turbata Emma, stringendo al petto il libro di letteratura.
«Come se si fosse volatilizzato» spiegò sbrigativo. «Ma non temere, starà sicuramente alla grande. È fatto per la vita da lupo solitario».

Erano passati ben venticinque minuti dal suono dell’ultima campanella, ma Emma non era ancora riuscita a ritornarsene a casa. Aveva fatto un salto in biblioteca alla ricerca di Lettere, famosa opera di Oscar Wilde, che racchiudeva tutte le missive da lui scritte. La fortuna parve assisterla quando scovò, tra un mucchio di libri polverosi, una tra le prime edizioni pubblicate. 
Il temporale pareva non essersi ancora calmato e lei, munita di ombrello, si fece coraggio e si avviò in direzione dell’auto. Con grande piacere aveva notato che per i corridoi o al di fuori, non ci fosse più nessuno, se non il bidello a svolgere il proprio lavoro. 
L’ombrello per poco non si spaccò a causa del forte vento che aumentava sempre di più. A completare il quadretto, numerosi tuoni e lampi presero a squarciare il cielo. Un brivido le percorse la schiena, facendole quasi rizzare i peli sulle braccia. Non aveva mai visto niente di simile, a Portland non aveva mai piovuto con tale violenza. Pareva come se il cielo volesse punirli per qualche peccato commesso, come se la natura si stesse ribellando. 
Quando fu seduta al caldo nella propria auto, cullata da un soffice tepore, fece per mettere in moto, ma una strana sensazione la fece desistere. Sentiva come una pesantezza strana, come se qualcuno la stesse osservando, o forse, cercando. Non si trattava dello stesso livello di pericolo che aveva percepito prima di svenire le volte precedenti, era qualcosa di più sottile e preciso. Il respiro irregolare la costrinse a mollare il volante e spegnere l’auto, per permetterle almeno di tranquillizzarsi. Nonostante i pensieri positivi che cercasse di trovare, il cuore si ostinava a batterle come un razzo. Respirò con lentezza e regolarità per un po’, lasciandosi consolare da pensieri un po’ meno cupi. Molte cose della propria natura non le erano ancora chiare, era consapevole di avere ancora un sacco di cose da imparare prima di potersi definire cosciente e sicura delle proprie abilità soprannaturali. 
Pochi istanti dopo, una grande mano insanguinata si poggiò poco delicatamente contro il proprio finestrino mezzo appannato. I battiti, a quel punto, sembrarono rallentare fino a sparire. Sentì tremare le ginocchia al solo pensiero di un’altra vittima. Com’era possibile che non avesse avvertito nessun tipo di sensazione anomala? Non appena il soggetto in questione si abbassò, cercando implicitamente aiuto, Emma smise di respirare. 
«Oh mio Dio» gridò spaventata nel riconoscere il volto malconcio di Derek. Cosa diavolo gli era successo? E, soprattutto, da dove spuntava?
«Derek» gracchiò in preda all’ansia, scendendo dall’auto senza preoccuparsi di recuperare alcuna protezione. Al diavolo l’ombrello. 
I propri occhi assistettero ad uno spettacolo per niente piacevole: Derek steso a terra, fradicio e ferito ovunque. Per un attimo si chiese perché loro due non potessero incrociarsi in maniera diversa, più normale. C’era sempre qualcuno che si apprestava a salvare l’altro. 
«Derek?!» lo scosse lei, chinandosi sulle ginocchia prima di schiaffeggiarlo piano, in modo da fargli aprire gli occhi. Si limitò ad un tocco delicato, non voleva peggiorare la situazione già critica, nonostante sarebbe servito ben altro per fargli ulteriormente del male. 
«Sono… sveglio. Portami a casa, sto guarendo» biascicò a fatica, sotto lo sguardo scettico della bruna. Ma che gli diceva il cervello?
«A me non pare che tu stia guarendo» commentò ad alta voce, tentando di sovrastare lo scrosciare della pioggia. Continuava a sfiorargli la guancia bagnata con i polpastrelli, come se quel contatto potesse aiutarla a non farsi prendere dal panico, come una specie di calmante. E si ritrovò persino a darsi della ridicola, vedere Derek come una fonte di tranquillità era più che assurdo, eppure quelle sensazioni erano così singolari da farle perdere per un momento il senso del tempo e dello spazio. 
«Sto guarendo, ascoltami. Ci… ci metto più tempo» soffocò un verso dolorante, che lo fece accucciare da un lato. Emma lo guardò apprensiva e preoccupata, sospirò e gli afferrò il volto con entrambe le mani. 
«Sentimi bene, voglio davvero sperare che tu stia guarendo, perché se stai mentendo e ti succede qualcosa mentre sei nella mia auto, giuro che… te la faccio pagare» borbottò infine, abbassando lo sguardo a causa dell’imbarazzo causatole dalle sue iridi chiare e penetranti. Derek abbozzò un’impercettibile smorfia simile ad un sorriso sghembo di sfida, che bastò a ricordarle di che pasta fosse fatto. Non c’era affatto da scherzare con lui, nonostante in quelle condizioni glielo avrebbe lasciato fare, troppo impegnato a cercare di non morire dissanguato. 
«Adesso alzati» sussurrò fin troppo vicina, afferrandolo dalle spalle per aiutarlo a sollevarsi senza fare troppa fatica. Lui ringhiò quasi quando entrambi i piedi furono saldi contro l’asfalto. Le ferite bagnate dalla pioggia bruciavano più del previsto. Emma tentò di sorreggerlo quanto più le fosse possibile, facendolo poggiare contro lo sportello del passeggero.
«Aspetta un attimo, prendo una coperta» gli disse, spingendolo con entrambe le mani con la schiena contro la fiancata della Range Rover. 
«Mi tratti come se fossi una femminuccia» si lamentò, gettando il capo all’indietro a causa di una fitta particolarmente dolorosa. 
Lei alzò gli occhi al cielo e recuperò la grande coperta, avvolgendoci Derek con la premura di una mamma. «Facciamo così, ti copro perché voglio evitare macchie di sangue sui miei sedili di pelle, mh?»
Lui abbozzò una smorfia poco convinta e si sforzò a scivolare all’interno dell’abitacolo, lasciandosi andare a peso morto contro il sedile scuro e morbido. La giovane fece il giro ed entrò a sua volta, maledicendo quella dannatissima pioggia. Legò i lunghi capelli ormai zuppi in uno chignon alto e poco ordinato, sfilandosi anche la giacca diventata appiccicosa, per rimanere con indosso solo una maglia chiara aderente, resa leggermente trasparente dal contatto con l’acqua.
«Dì un po’» azzardò, mettendo in moto, «la fai spesso questa cosa di sparire e tornare a brandelli?» continuò severa.
Lui grugnì quasi, arricciando le labbra in un’espressione per niente divertita. Ma ad Emma non importava, non voleva affatto divertirlo, bensì, fargli comprendere quanto li avesse fatti preoccupare.
«A volte» borbottò lui, col respiro affannato. Stava soffrendo più di quanto volesse dare a vedere. Tuttavia, lo spacco sullo zigomo sembrava stesse guarendo in maniera un po’ più rapida rispetto ai grossi tagli e che si era procurato sul petto. 
«Sei uno… uno… uno sconsiderato, ecco cosa sei» esclamò lei, tentando di non accelerare troppo per le strade scivolose della cittadina praticamente deserta. 
«Me lo hanno detto in molte» sogghignò, rivolgendole uno sguardo debole. In un certo senso, lo preferiva privo di forze e più silenzioso del solito, nonostante fosse un lato di lui al quale ancora doveva abituarsi. 
«Si può sapere che è successo?» sbottò con espressione dura, stringendo tra le dita sottili il volante in pelle nera. Derek fu scosso da un fremito, a dirla tutta non sembrava che il suo corpo avesse intenzione di migliorare. 
«Mi sono scontrato con due di loro» biascicò a fatica. «Erano tre, ne è rimasto uno… quello che mi ha attaccato. Mi ha dato la scossa e mi ha quasi impalato contro la corteccia di un albero. Preferirei risparmiarti i dettagli» spiegò con vaga lentezza. Il cuore della ragazza le balzò in petto al solo pensiero di suo padre al posto di quei due cacciatori e per qualche minuto, perse le parole. Continuava ad immaginarlo sdraiato in mezzo ad una pozza di sangue, freddo e privo di vita. Un respiro tremolante la tradì, rivelando a Derek la natura di quei pensieri.
«Sei spaventata» affermò, ricordandole di quel suo potere di percepire gli stati d’animo. «Pensi che ti farò del male?»
Lei scosse il capo, fermamente convinta. «Non si tratta di me».
«Oh» sussurrò lui tra un respiro affaticato ed un altro. «Temi per la vita di tuo padre» asserì con fermezza, sobbalzando appena a causa di una buca, che Emma, ovviamente, aveva preso in pieno. 
«Scusa» mormorò, lanciandogli uno sguardo angosciato. 
«Conti-» gemette a causa dell’ennesima fitta dolorosa, «continua a guidare».
Emma riprese a guardare di fronte a sé, svoltando per i boschi. Iniziò a pensare di dover avvertire Scott, giusto per fargli sapere che Derek era tornato ed era sano e salvo, o almeno quasi. Le ronzarono in testa un paio di domande: che ci faceva l’Alpha a scuola? Ma, soprattutto, perché era corso da lei? Probabilmente era l’unica rimasta nel parcheggio e lui era stato particolarmente fortunato ad imbattersi in lei. C’erano troppe coincidenze strane in quegli eventi, ma, dopotutto, a Beacon Hills niente era mai troppo scontato e i guai erano sempre pronti a travolgerli una volta svoltato l’angolo. Iniziò a pensare a cosa sarebbe successo se suo padre avesse scoperto la sua vera natura: una banshee. Probabilmente non era neanche a conoscenza dell’esistenza di queste ultime. Ma com’era possibile che non ne avesse mai sentito parlare? Aveva letto che i poteri erano solitamente ereditari, che qualcuno della sua famiglia le avesse passato il gene soprannaturale? Era tutto un mistero contorto ed irrisolto, un mistero che l’aveva colta in contropiede, come un fulmine a ciel sereno. 
La giovane non spiccicò parola fino all’arrivo a casa Hale, era troppo scossa e preoccupata da tutti quegli avvenimenti e temeva davvero per l’incolumità dell’uomo che l’aveva cresciuta e amata senza riserve, oltre che per la propria, che comunque tendeva a mettere in secondo piano quando si parlava di Chris. Non poteva permettersi di perdere anche lui, dopo sua madre. Quella perdita le aveva già sconvolto abbastanza la vita, nonostante avesse vissuto costantemente circondata dall’affetto smisurato di suo padre.
Parcheggiò frettolosamente e dopo aver lanciato un’occhiata a Derek, si affrettò a scendere dall’auto per andarlo a recuperare. Lui accettò di buon grado quell’aiuto solo a causa delle pessime condizioni nelle quali si trovava, in altre circostanze avrebbe lottato con le unghie e con i denti pur di dimostrare di potercela fare da solo. Non era un tipo a cui piaceva essere compatito da qualcuno, era abituato a convivere coi propri demoni interiori e non gli piaceva condividerli con altri. Questione di sopravvivenza: mostrarsi indistruttibile per evitare di essere fatto a pezzi. Era semplice, ci aveva fatto l’abitudine. 
«C’è qualcuno in casa che possa aprirci? Non mi aspetto che tu abbia le chiavi» fece lei, faticando a trascinarselo dietro fino al portico. La differenza di altezza e corporatura tra i due era evidente e per una ragazza di appena cinquanta chili per un metro e sessanta era una gran fatica tirarsi dietro un gigante che ne pesava minimo ottanta. 
«Chiavi?» rise flebilmente. «Non ci sono chiavi, la porta è sempre aperta».
Lei sollevò le sopracciglia a quella affermazione e tentò di testarne la veridicità: afferrò la maniglia esterna e spinse con un po’ troppa forza, ritrovandosi come per magia dentro casa. Derek si sorresse contro il muro, strisciando quasi in direzione del divano. Lei restò indietro, premurandosi di chiudere la porta.
«C’è nessuno?» domandò ad alta voce, in modo da arrivare anche al piano di sopra. Nessun rumore sospetto, nessuna apparizione dal nulla degna di un Hale. Niente di niente, regnava un inquietante silenzio. 
«Non c’è nessuno» la informò l’Alpha, tentando invano di sfilarsi la maglietta ormai lacerata ovunque. Emma nascose il rossore delle proprie guance ai suoi occhi vigili e attenti, avanzando a passo lento in direzione del divano.
«Lascia che ti aiuti» mormorò con un accenno di timidezza e timore, sedendosi al suo fianco prima di accertarsi che fosse d’accordo. L’espressione piatta e velata presente sul suo volto insolitamente pallido e stanco non accennava ad alcuna presenza di stizza. Con Derek di fronte era impossibile concentrarsi su qualcosa che non fossero i suoi occhi brillanti ed espressivi. Erano talmente magnetici e particolari, che la giovane si ritrovò a pensare di poterli fissare per ore senza mai stancarsi. Allo stesso tempo, però, nascondevano qualcosa. Celavano dolore, perdite, voglia di vendetta, insolenza, aggressività, negata debolezza, solitudine… Il tormento che ne trapelava era più che evidente se si prestava attenzione alla sostanza e non all’apparenza.
Emma portò le mani piccole e fredde sui lembi sporchi e umidi della maglia del ragazzo, tirandola su con delicatezza, per paura di infliggergli dell’altro dolore. Lui si limitò a contrarre i muscoli del viso a causa di un lieve bruciore all’altezza dell’addome. L’indumento logoro e vecchio finì accartocciato alla fine del divano, dietro le proprie spalle decisamente minute e strette in confronto a quelle ampie e ben strutturate dell’Alpha. 
«Hai bisogno di disinfettarle» affermò lei con voce debole e bassa. Si accorse di tremare solo quando sfiorò per sbaglio la sua mano grande e calda. Probabilmente i licantropi avevano una temperatura corporea più alta e non soffrivano il freddo. O probabilmente aveva la febbre.
«Non serve, sono un lupo mannaro» affermò come se ancora non fosse chiara la sua natura. «Guarisco da solo».
Lei percorse le ferite con lo sguardo, avvicinando lentamente l’indice a sfiorargli la spalla. E con stupore da parte propria, lui non accennò ad indietreggiare. 
«Non stai guarendo, Derek» sussurrò lei, in pensiero. «Chiamo Scott?»
«No, sto bene» si irrigidì appena, stringendo tra le mani la coperta nella quale era stato avvolto fino a poco prima.
«Hai degli asciugamani? Devi asciugarti» disse lei, ignorando la sua ultima reazione fin troppo prevedibile.
«Sali le scale, prima porta a sinistra» replicò lui, fornendole le indicazioni per il bagno. Emma annuì e si alzò dal divano, seguendo alla lettera il percorso da lui indicato. Salì le ampie scale scricchiolanti, l’unico rumore che l’accompagnava era quello dei propri passi piccoli e rapidi contro il legno. Quel silenzio surreale le infondeva una strana e piatta tranquillità. 
Giunse in bagno, faticando per trovare la luce, stupendosi del fatto che la corrente funzionasse in una casa malmessa e tecnicamente inutilizzabile come quella. Cercò degli asciugamani puliti all’interno di una cassettiera vecchia e cigolante, decidendo poi di seguire la propria volontà e munirsi anche di qualche benda e del disinfettante praticamente inutilizzato. 
Quando tornò di sotto, ritrovò Derek dove l’aveva lasciato, con lo sguardo perso nel nulla e l’espressione sofferente. 
«Non ti facevo un tipo da disinfettante senza alcol» ridacchiò sommessamente lei, tornando a sedersi affianco al giovane, che sollevò lo sguardo, sbuffando scocciato. Non l’aveva ascoltato e lui non era un particolare fan delle persone che si ostinavano a non dargli retta. 
«Quello è di Peter» disse serio, «ultimamente è diventato delicato». 
Emma abbozzò un sorriso, scacciando qualsiasi tipo di pensiero divertente dalla mente. Aveva intenzione di fasciargli le ferite prima di essere costretta ad amputargli qualche braccio.
«Puoi metterti sul tavolo? Qui è troppo buio» esordì con gentilezza, cercando di prenderlo nella maniera più delicata possibile: con le pinze, in poche parole.
I suoi occhi si alzarono al cielo per qualche istante, quella ragazza parlava troppo. Gli ricordava in maniera particolare Stiles, che non perdeva occasione per infastidirlo col suo temperamento da schizzato iperattivo. 
Nonostante desiderasse lamentarsi, si alzò a fatica, raggiungendo il tavolo non troppo distante, domandandosi se fosse realmente in grado di medicarlo o meno. Non appena fu seduto, con le gambe penzoloni e i pugni chiusi a sorreggersi ai lati di queste ultime, un tenue bruciore lo scosse appena. Emma si accorse di quel piccolo sussulto e non riuscì a trattenere un ghigno divertito.
«È freddo» borbottò cupo, volgendo le iridi chiare altrove, mentre lei continuava a riempirlo di disinfettante. 
«Certo» annuì la bruna, sollevando accidentalmente lo sguardo in direzione delle sue labbra. E come il più stupido dei cliché, prese a domandarsi di nuovo se fossero effettivamente così morbide come sembravano. Tutta quella vicinanza non era affatto un bene, la fantasia vagava libera, senza che lei potesse controllarla o, almeno, porvi un freno. Era colpa sua, di quell’aria tenebrosa e tormentata che l’attraeva in maniera pericolosamente intensa. Si morse la lingua e continuò a tamponare col cotone, iniziando a fasciargli il braccio sinistro all’altezza del bicipite. Era stupita da quanto i suoi muscoli sembrassero scolpiti con dedizione e cura da uno dei migliori artisti mai esistiti. Di tutte le cose che avrebbe potuto dire per mandare avanti la conversazione, nessuna le pareva opportuna: si sentiva una povera idiota con la i maiuscola. Di tutte le persone – o licantropi – di cui avrebbe potuto infatuarsi, perché proprio lui? Perché, ad esempio, non Scott? Scott aveva un grande carisma e una bellezza tipicamente del sud. Perché non Isaac? Infondo anche lui aveva un qualcosa di misterioso nello sguardo e forse dietro ai suoi silenzi si celava una spiccata profondità d’animo. O magari Stiles, col suo sarcasmo e i suoi grandi occhi scuri. Perché, tra tutti, proprio Derek? Cos’aveva di tanto speciale?
Con un sospiro profondo, Emma terminò anche l’ultima medicazione. Avvitò il tappo del disinfettante, sollevando lo sguardo in direzione di quello dell’Alpha, che la stava osservando attentamente. Se ne era accorta da un po’, ma non aveva voluto dargliela vinta così facilmente. Aveva finto indifferenza finché aveva potuto, per poi far annegare casualmente le proprie iridi calde nelle sue limpide e cristalline. Compensava quei lunghi silenzi in cui era solito chiudersi con gli sguardi: parlava con gli occhi. Non c’era nemmeno bisogno che aprisse bocca. Quando voleva, sapeva essere incredibilmente comunicativo. Altre volte, invece, era in grado di non far trapelare la minima emozione.
Si guardarono per quelli che parvero attimi infiniti, come se si stessero scambiando delle informazioni segrete solo con un semplice contatto visivo. 
«Derek, stai-» 
Cora sbucò dalla porta d’entrata come una furia: la preoccupazione che trapelava dai suoi occhi bastava a far intendere le proprie intenzioni. 
«Scusate» tossicchiò, spostando lo sguardo da Emma a Derek. «Se avessi saputo che ti trovassi in buona compagnia, non ci avrei messo così poco ad arrivare».
Emma si allontanò frettolosamente dal corpo torreggiante di Derek, che si irrigidì prima di addolcirsi in un sorriso. Uno di quelli veri, sentiti. 
«Oh, non fa niente, me ne stavo anda-»
«Ma no, puoi restare quanto vuoi, volevo solo abbracciare il mio fratellone» sorrise raggiante lei, dirigendosi frettolosamente in direzione di Derek. 
«Cora, stai bene?» sussurrò lui, lasciandosi stringere piano dalla ragazza.
«Io sì, tu, piuttosto? Sono morta di paura quando ho fiutato l’odore del tuo sangue. Si può sapere che ti è successo? E perché sei pieno di bende?»
L’Alpha rivolse uno sguardo furtivo ad Emma, che se ne stava in disparte ad osservare la scena. «Ha insistito tanto perché non guarivo».
«Oddio, che maleducata» trillò Cora come un campanellino. «Io sono Cora, sua sorella. Non ci somigliamo molto perché io sono più bella» ridacchiò allegra.
Emma abbozzò un sorriso poco convincente, specchiandosi nei suoi occhi castani. Aveva ragione sul fatto che non si somigliassero molto, ma entrambi vantavano di una particolare e singolare bellezza. 
«Piacere mio, Emma. E, davvero, sei gentilissima ma devo proprio scappare. Sono già in ritardo» ribatté la bruna, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans stretti e strappati sulle ginocchia. 
«Va bene, Emma. Ti accompagno alla porta, sono sicura che Derek si sia scordato le buone maniere anche con te» scherzò, premurandosi a farle strada con un cenno della mano. La bruna si voltò in direzione dell’Alpha, rimasto fermo immobile come lo aveva lasciato lei. Accennò un flebile sorriso e si apprestò a seguire Cora a passo svelto. 
«Grazie per aver curato quello scorbutico di mio fratello, sono stupita che si sia lasciato toccare da qualcuno» bisbigliò quest’ultima nell’aprire la porta. 
«Cora! Ti sento» gridò lui dall’altra stanza, scatenando nelle due, già complici, una debole risata. 
«Fatti gli affari tuoi, impiccione» lo rimbeccò in risposta sua sorella, tornando a sorridere cortesemente ad Emma. 
«Non è un problema, anzi» si lasciò sfuggire in risposta, arricciando gli angoli delle labbra. «Ci vediamo, Cora».
«Senz’altro, Emma». 





Hello there!
Aggiornamento lampo!
Iniziamo con uno Stiles particolarmente scatenato e chiacchierone, che non smette mai di essere così incredibilmente adorabile. Lo amo.
E poi ecco di nuovo Derek che si dissangua nell’auto di Emma. Di nuovo. E lei si appresta a salvarlo, di nuovo. #DEREMMAVIBES
La scena tra questi due è stata volutamente non troppo lunga in modo da tenervi un pochino sulle spine. Eheh.
Non trovate particolarmente divertente il fatto che sia sempre Cora ad interromperli? Io adoro questa cosa e adoro il modo in cui si è presentata ad Emma. L’ho immaginata come una piccola Campanellino di Peter Pan e non so nemmeno perché.
Idiozie a parte, ringrazio tutti quelli che seguono la storia e la recensiscono, mostrando interesse e apprezzamento per ciò che scrivo. Grazie infinite.
uhstilinski.

 

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