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Autore: PeaceS    02/11/2015    2 recensioni
Sequel di 3.00am
Lord Voldemort sembra scomparso: nascosto nell'ombra e in attesa di recuperare le sue forze, ricorda ai suoi avversari sporadicamente la sua presenza. Sono passati due anni e le premesse di Angelique si sono avverate: lui non è nel pieno delle sue forze e Albus Potter viaggia ininterrottamente per trovare un modo - un piano - che possa salvarli tutti. Nel mentre, Chrysanta Nott ritorna, ma il suo cuore appartiene già a qualcuno.
Il tempo passa e la verità sta per venire a galla: la vera identità di Scorpius sta lottando per uscire e lei, nonostante cerchi di cancellare ciò che è stato, sa che non sarà così facile.
Jackie Alaia e Joanne Smith giocano con i morti e Dalton Zabini con un libretto che, due anni prima, aveva reso Lily un mostro senz'anima.
Alice Paciock è passata al lato oscuro e si dice che suo fratello, ora, sia in giro per Londra... a dissanguare innocenti - e cercare di evitare l'unica donna che avesse mai amato, Roxanne Weasley.
Lucy Weasley, invece, è sempre più vicina al suo destino. E tra Mangiamorte, Demoni e Angeli, sente il fuoco dell'inferno cercare di bruciarla da dentro.
Lucifero è dentro lei.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Draco/Hermione, Harry/Ginny, James Sirius/Dominique, Lily/Scorpius
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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IV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giselle McAdams era sempre stata bella, su questo non c'erano dubbi; con i suoi riccioli bruni e i grandi occhi azzurri – con la pelle diafana e le labbra rosse e carnose – aveva fatto girare la testa a più di un mago... Oscuro e non. La loro arida madre aveva sempre puntato su Giselle. L'aveva creata, modellata per avere quello che lei non aveva mai potuto avere.
Potere, fama, ricchezza. Clarissa McAdams aveva partorito un mostro – e ne era sempre andata fiera.
Aveva educato Giselle in modo che potesse entrare nelle grazie di chiunque, ma tutti sapevano chi era il suo bersaglio; Clarissa puntava all'Oscuro Signore e con quel corpo dal seno prosperoso, il busto perfettamente a clessidra e le gambe tornite, era quasi sicura di aver dato alla luce la prossima Lady. La prossima regina – colei che avrebbe affiancato Lord Voldemort per l'eternità, ricavandone ogni privilegio.
Ma lei era difettosa. Giselle guardò il suo riflesso nello specchio alto ben tre metri nella sua stanza al Quartiere dei Mangiamorte, passando sulle labbra un generoso rossetto rosso. Velenoso. E sorrise, scuotendo il capo e lasciando che i riccioli le rimbalzassero sulla testa.
Clarissa aveva calcato ogni minimo dettaglio... tranne la nascita di Jackson e un suo possibile disgusto verso Tom Riddle. Quanto, quanto aveva urlato quando le voci che Alice Paciock fosse entrata nel letto di Voldemort erano circolate, arrivando fino a lei.
Inutile parassita. Non era servita a nulla, nemmeno ad irretire un uomo.
Anche se l'Oscuro Signore poteva considerarsi tutto tranne che un uomo, Clarissa aveva strillato fino a perdere la voce. Poi l'aveva aggredita.
Giselle ricordava le sue mani sulla gola, quegli occhi azzurri – i suoi stessi occhi azzurri – spalancati dalla rabbia e il senso d'impotenza. E la vergogna che le corrodeva le vene come acido corrosivo.
Clarissa McAdams aveva creato e modellato Giselle. L'aveva educata al sesso e al piacere, spalancandole le porte dell'inferno... e facendole vedere come mostrare quelle del paradiso. Ma aveva sbagliato i calcoli, anche su di lei, anche sul punto di ucciderla, perché così presa dalla rabbia nemmeno si era resa conto della bacchetta puntata sulla nuca.
Jackson aveva sussurrato quell'Avada Kedavra con tale semplicità da sorprendere persino se stesso. E Clarissa era crollata contro di lei, esanime.
“Mi piace come ti sta il rosso”
Giselle girò appena la testa, incontrando il suo stesso sguardo dall'altro lato della stanza – dove suo fratello l'aspettava con le spalle larghe poggiate contro lo stipite della porta.
Il lampadario di cristallo sulle loro teste illuminò appena i capelli castani di lui e Giselle sorrise, arrossendo appena sulle guance. Indossava un vestito di velluto rosso, lungo e largo fino ai piedi e portava tanti piccoli rubini sullo scollo rigorosamente a cuore. Le scarpe dal tacco alto quasi stridettero sul marmo bianco quando tornò a fissare il suo riflesso, girando su se stessa.
“Dovremmo andare” disse di nuovo Jackson e Giselle annuì, lisciandosi ancora una volta la gonna e ignorando lo spacco che lasciava intravedere tutta la coscia sinistra.
Nonostante sua madre fosse morta da più di un anno, lei continuava ad essere ciò che Clarissa aveva sempre voluto. Una puttana d'alto borgo.
Una lurida prostituta che si basa sul proprio aspetto per andare avanti nella vita. Una... una...
“Oggi la luna è piena”
Jackson la prese sotto braccio e la trascinò fuori dalla stanza spoglia, chiudendo la porta dietro di sé; il letto a baldacchino che torreggiava al centro aveva visto le loro lacrime, insicurezze e i loro primi passi. L'armadio a doppia anta, accanto allo specchio che Giselle tanto adorava quanto odiava, e poi il vuoto. Nulla che potesse rispecchiarli. Niente in cui potessero identificarsi.
Spoglia, come la loro anima. Vuota, come i loro cuori. Impersonale, come tutto ciò che apparteneva a quel mondo – lontano miglia da loro.
“Ed è rossa?” gemette Giselle, guardando il fratello attraverso le lunga ciglia brune e Jackson annuì, grave.
“Scorrerà sangue, questa notte” mormorarono all'unisono, quasi predicendo una profezia inquietante quanto allettante.
Attraversarono il corridoio buio, guardando fuori le arcate che si succedevano una dopo l'altra con un misto di suggestione e ansia. L'immenso collegio che era diventato da anni il Quartier Generale dei Mangiamorte sostava a nord dello Yorkshire, in una campagna sperduta difficile da localizzare persino dagli animali. Erano circondati da una distesa di margherite nere e rose bianche, così in contrasto con loro stesse da creare un panorama unico e la casa aveva più di quattrocento stanze.
Dall'aspetto vittoriano, rimodernato da ampie finestre e archi di marmo, di primo impatto sembrava di trovarsi dinnanzi ad una caserma militare; le stanze erano tutte maledettamente uguali, dagli ampi letti a baldacchino ad un solo armadio a riempire lo spazio. Stanze su stanze, una biblioteca, una cucina e una Sala Riunioni, ecco tutto. L'essenziale che faceva a pugni con l'immensità di quel posto.
Giselle mai aveva vissuto in una casa così tetra. Nonostante le ampie arcate che portavano luce, ad ogni angolo l'ombra sembrava prendere il sopravvento... inghiottendo il resto.
I muri erano lisci e marmorei, ma freddi, abbracciati da un buio che non esisteva... ma che quasi veniva creato dagli stessi abitanti.
Assassini. Animali. Bestie.
“Ancora non si conosce il motivo per cui Nostro Signore ci ha mandato a chiamare?” mormorò Giselle, guardando il profilo di suo fratello con un'ammirazione che pochi potevano vantare di aver visto nel suo sguardo.
Jackson fece spallucce, scuotendo il capo.
Era bello, suo fratello. Con quel profilo imponente, dalle labbra carnose e il naso perfettamente dritto e delineato, aveva l'aria di un cherubino sperduto. L'aria di un angelo sofferente, cacciato senza motivo dal suo paradiso.
Ma in fondo... non era così? Loro erano angeli, con quel potere così speciale che li contraddistingueva dagli altri, ma venivano usati per loschi motivi. Il loro “effetto collaterale” veniva usato per uccidere... e questo li rendeva malvagi, cattivi, assassini. Animali. Bestie.
Come tutti gli altri.
“Ho come la sensazione che Avery sia tornato alla base” mormorò Jackson, passandosi una mano tra i capelli riccioluti e corrucciando le sopracciglia.
Faceva sempre così, quando era triste.
“Non possiamo proteggere tutti, fratello caro” bisbigliò Giselle, stringendosi contro il suo braccio e lasciando intravedere la valle dei seni attraverso la generosa scollatura.
Jackson la guardò appena, arrossendo dalla radice dei capelli fino alla punta dei piedi. Con un colpo di tosse si aggiustò il colletto del mantello nero che indossava, in completo con la camicia e i pantaloni di seta dello stesso colore, strappandole un sorrisetto spavaldo.
“Nemmeno noi stessi, a lungo andare. Ci aspetta l'inferno, amore mio, e non ci andrò solamente per un maledetto cip conficcatomi nella carne” sibilò rabbiosa, lasciando che il ticchettio furioso delle scarpe accompagnasse le sue parole.
No. Non sarebbe bruciata tra le fiamme eterne solo per volere di altri.
Lei era un assassina, un animale, una bestia... e da tale si sarebbe comportata, se quella sarebbe stata l'unica porta disponibile a spalancarsi al suo cospetto.
“Siamo nella merda”
Una volta arrivati all'ala Ovest, dove la Sala Meeting e la stanza dell'Oscuro erano gli unici due stanzoni presenti, entrambi guardarono la voce che aveva esclamato aspramente quelle parole.
Alice si passò una mano tra i capelli biondi e lunghi, avvolta in un delizioso abito di raso nero – che con due spacchi le scopriva le gambe e i sandali dal tacco alto. La scollatura di pizzo lasciava intravedere il solco tra i seni e il tatuaggio che si era fatta fare da Michael un anno prima, ed era sfinita.
Era appena stata nella SUA stanza. Ogni volta che lo faceva, sembrava malata; l'incarnato era più pallido del solito e le occhiaie le appesantivano lo sguardo.
Facendo sesso con Lord Voldemort, Alice sembrava risucchiare la sua oscurità. E sembrava non digerirla bene.
“Che succede?” sbottò Jackson avvicinandosi a grandi falcate e lasciando indietro Giselle, immobile.
Non si erano mai sopportate, tutte e due, dalla prima volta che si erano conosciute. Erano l'opposto: il giorno e la notte, il bene e il male, il coraggio e la vigliaccheria, la vita e la morte, l'amore e malignità.
“Quello stupido... quello stupido di Avery si è fatto scoprire nientepopodimeno che da quello zotico di Cadice!” sussurrò Alice, stringendosi le braccia esili attorno al busto.
Era dimagrita ancora. Ogni giorno che passava, Giselle vedeva la stessa Paciock sopperire al destino che si era scelta con le sue stesse mani, avvizzendo e rassomigliando sempre di più allo scheletro che brillava tetro sul suo braccio sinistro.
Il sole si oscurò e un tuono fece tremare le fondamenta.
“Ha incaricato noi”
Michael apparve alle spalle di Alice e le accarezzò appena il collo, scostandosi di scatto. Lui sentiva quando Voldemort la toccava, quasi come se i pori di lei lo urlassero a squarciagola.
Giselle sorrise, disgustata. Non che quello stupido facesse qualcosa. Michael la lasciava fare e basta – guardando da lontano lo scempio e la morte che Alice, giorno dopo giorno, attirava a sé.
“Merda” sbottò Jackson, sbattendo un piede a terra come un bambino capriccioso e girando di scatto la testa verso di lei, quasi aspettandosi che dicesse qualcosa.
“Non avevo nessun dubbio. Da quando si è innamorato, Avery ha perso completamente il lume della ragione” sbuffò, quasi divertita. E in effetti lo era.
Avery era stato uno dei più terribili assassini, ai tempi della Prima e Seconda guerra Magica. E ora? Ora cos'era?
Un condannato a morte. Un uomo che si era stretto da solo la corda al collo... solo per essersi innamorato di una donna che, per il loro padrone, non avrebbe dovuto nemmeno esistere.
“Dovete coprirmi” sussurrò Alice, guardandoli ad uno ad uno con una luce determinata negli occhi. Giselle sospirò, accarezzandosi il collo quasi stufa di quella solfa.
Attenzione, attenzione! Fate spazio all'eroe del secoli, signori e signore!
Alice Paciock, nientepopodimeno che la scopa amica di Lord Voldemort. Yeah!
“Sembra quasi che tu ne sia gelosa” mormorò Alice, con tono lascivo e anche un po' cattivo, fissandola attraverso le lunga ciglia e bloccando i due ragazzi – che la guardarono senza capire.
Giselle rise, scuotendo il capo.
“No, certo che no, Vostra Altezza” bisbigliò, usando volutamente quel nomignolo e mandandola in bestia.
“A me sembra proprio di sì, Principessina” sibilò l'ex Tassorosso, ora con una strana luce rossastra nello sguardo.
Stava quasi facendo la stessa fine della Granger anni or sono.
“Mi sa che io ora non posso coprirti, ho da fare” cinguettò Giselle, melensa e zuccherosa come solo lei sapeva esserlo – dandole le spalle con una giravolta e facendo roteare il suo bellissimo vestito di velluto.
“Abbiamo una riunione!” strillò Alice, mentre lei, con i morbidi fianchi, si allontanava ancheggiando. La coda del vestito frusciava sul marmo bianco, dando l'impressione di lasciare alle sue spalle una scia immensa di sangue.
Jackson socchiuse gli occhi, addolorato.
“Guarda un po'... ho appena accusato un malore e non posso proprio partecipare” ridacchiò la McAdams, mandandola nel pallone.
Merda. Se la sua assenza era difficile da spiegare all'Oscuro, anche quella di Giselle sarebbe stata impossibile da colmare. E lei doveva avvisare gli Auror dell'attacco imminente a casa Avery.
Merda, merda, merda!

 

✞ ✞ ✞

 

 

Draco Malfoy accarezzò con dedizione i capelli ricci e bruni della sua piccola bambina, seduto su una poltroncina “rosso-oro” come un re spodestato dal proprio trono e fissava le persone che lo circondavano con un'aria scettica e disgustata – quasi come se la presenza di tutti quei plebei lo disturbasse.
“Io non lascio la mia bambina nelle mani di quel Malfoy della malora!” sbraitò Harry, rosso come un pomodoro e in procinto di farsi venire un coccolone.
Draco si bloccò, con una smorfia sulla bocca sottile, per poi ritornare ad accarezzare pigramente i capelli morbidi e profumati di Narcissa, che quel giorno indossava un delizioso vestito bianco, dalle maniche lunghe e la gonna a pieghe, con dei stivaletti rosa pallido imbottiti di pelliccia.
“Io non lo lascio entrare nella mia famiglia e nelle sottane di mia figlia!” urlò ancora, mentre il salone di casa Potter continuava a popolarsi.
Draco salutò distrattamente James, apparso con la solita ciambella tra le gengive e questo ricambiò con la testa tra le nuvole. Come sempre.
Ultimamente il primogenito di Potter sembrava camminare a tre metri da terra, con i capelli sempre scompigliati e le occhiaie che non erano date dal lavoro.
“Nelle sottane di Lily ci è entrato anni fa, paparino” ridacchiò, facendo notare la sua presenza a tutti quanti.
Ginny alzò gli occhi al cielo, preparandosi all'ennesima sfuriata – depositò tutte le tazze sul tavolino basso proprio al centro del salone e se la diede a gambe prima di venire incolpata della condotta immorale di sua figlia. 'Manco Harry avesse aspettato il matrimonio per fare sesso con lei.
George Weasley si accese uno dei suoi sigari al cioccolato, accarezzando la testa del cane meticcio che aveva adottato sei mesi prima. Un bestione di venti e passa chili dal pelo ambrato e gli occhi azzurri belli accesi e vividi: di solito saltava con la lingua a penzoloni su chiunque si materializzasse, ma ora sembrava così preso dalle coccole del suo padrone che si limitò a guaire, soddisfatto.
“Tu, dove diavolo eri finito?” urlò Harry verso suo figlio, con i capelli ritti in testa e gli occhiali storti sul naso.
Draco continuò ad accarezzare i capelli di Narcissa, quasi come se fosse Weston, il cane di George. Questa alzò appena lo sguardo verso di lui, chiedendosi se fosse normale tutto quel accarezzarla nemmeno fosse in punto di morte, per poi ritornare a fissare la sua bambola di pezza.
E quanto cazzo era brutta, quella bambola, poi! Draco l'aveva portata in uno dei migliori negozi di giocattoli, spingendola a scegliere quello più bello – strafregandosene se avrebbe dovuto pagare un occhio della testa – e quella andava a scegliere quella cosetta abbandonata in un angolino. Con quei capelli rossi e gli occhi a bottone azzurri, aveva un qualcosa di inquietante che spingeva Draco a girarla a pancia in giù quando Narcissa insisteva per dormire insieme a lui e Hermione.
Brutta come la morte.
“In giro” rispose James, facendo spallucce come se la sua incazzatura non lo riguardasse.
Harry si scompigliò furiosamente i capelli e puntò i suoi fanali su Draco. Quest'ultimo, che oramai stava scandendo i secondi, ricambiò con noia.
Mica era scemo. Sapeva perfettamente che Potter stava perdendo tempo per prendersela direttamente con lui.
“Lo sappiamo tutti che è colpa tua” sibilò furioso, additandolo nemmeno gli avesse appena ammazzato il figlio. Cosa che, con James, ne avrebbe sofferto solamente quella povera anima pia di Dominique. E nemmeno.
“Certo, Potter, certo” sbadigliò, mentre Narcissa si aggrappava al suo braccio.
Draco la ignorò, come ignorò l'ex Grifonidiota, accarezzando il vuoto – visto che la bambina si era spostata, stanca di quei grattini non chiesti.
Harry lo guardò, stranito, ma lui oramai era completamente perso nei suoi pensieri; Morgana... erano mesi che era sulle tracce di Albus e solo poche ore prima aveva saputo che era tornato a Londra. E ora chi cazzo glielo diceva a quel dispotico di Potter che suo figlio era tornato in patria ma che non li aveva cagati di striscio?
“Sai, quando la settimana scorsa eri troppo preso a coccolare Narcissa, io sono andata nell'ufficio di Hermione e me la sono trombata selvaggemente” cinguettò Harry, sbattendo civettuolo le ciglia nere e attirando l'attenzione di tutta la Sala. Tranne la sua.
Rose, che si era appena smaterializzata con addosso un delizioso maglioncino di lana bianca e dei pantaloni neri e attillati, si fermò al centro della stanza – confusa.
“Ah si?” mugugnò Draco e ora le teste viaggiavano da lui ad Harry, che aveva capito tutto. Non lo stava cagando nemmeno di striscio e solo una cosa – o meglio, una persona – riusciva a risucchiare tutte le energie di Malfoy.
“Certo. E sapessi come urlava...” sibilò, mentre Ginny lo guardava dalla cucina con tanto d'occhi, chiedendosi se prenderlo a sberle o con una bella fattura Orcovolante.
Draco guardò il parquet sotto i suoi piedi e bei parati rosso-oro che circondavano quelle mura sempre calde; il caminetto di mattoni alla sinistra della stanza sfrigolava contento e, alla sua sinistra, un immensa finestra lasciava intravedere il sole coperto da molteplici nuvole.
Parecchi candelabri erano affissi agli angoli della stanza, creando un'atmosfera soffusa, ma abbastanza forte da essere accoglibile. Le poltroncine sparse per la stanza, il tavolino sempre gombro di tazze o giornali e i quadri chiacchieroni, rendevano il salone di casa Potter un vero e proprio rifugio. Casa. Perché Albus non era tornato lì, appena aveva messo piede in Inghilterra?
Perché non si era rifugiato nel calore della sua famiglia, che oramai lo aspettava da tanto, troppo tempo?
“Okay, ora mi dici cos'hai o giuro che una scazzottata non mi basterà”
Draco sobbalzò, ritrovandosi gli occhi di Harry ad un centimetro dai suoi. Aveva poggiato le mani sui braccioli della poltroncina dov'era seduto e lo stava sfidando.
“Mi spiace, la mia non è sessualità repressa come la tua. Io non sono gay, ti odio veramente e basta” cinguettò, facendolo incazzare davvero.
“Non ti scoperei nemmeno col cazzo di un altro, Malfoy” sibilò Harry, faccia a faccia, sfidandolo a replicare.
“Oh, così mi spezzi il cuore”
“Fottiti”
“Sicuramente non con te”
“SMETTETELA, TUTTI E DUE!” sbraitò una terza voce. Entrambi si girarono, pronti a replicare e zittendosi immediatamente nel ritrovarsi un Hermione Granger ancora in tenuta lavorativa e con i capelli così disordinati da far temere al resto dei presenti un attacco diretto.
“Cos'è successo?” sbottò Draco, mandando Potter all'aria e alzandosi di scatto, mentre Narcissa correva dalla sua mamma tutta contenta di poterla vedere di nuovo. Quella bambina sembrava avere un complesso di Edipo non indifferente, comunque.
“Ho avuto un bel faccia a faccia con la nostra spia” disse Hermione, togliendosi stizzita la sciarpa nera dal collo e sbottonandosi la giacca del tallieur perfettamente su misura che indossava.
“E...?” la esortò Harry, già impugnando la bacchetta e pregustando una possibile battaglia.
“E stanno andando a prendere Avery nella sua bella casetta. Penso che se volete salvare qualcuno, compresi i bambini, vi conviene muovere quei culi mosci che vi trovate.
Due Auror sono già sul campo, ma voglio qualcuno di esperto lì; mi pare di aver capito che loro sono in pochi, ma hanno i gioiellini a combattere” mormorò, scuotendo il capo.
I gioiellini, come li avevano soprannominati gli Auror più anziani, erano gli incroci che Diamond aveva creato – e che Lord Voldemort stava continuando a mandare avanti. Quei ragazzi dai poteri speciali, messi al mondo apposta per mandare avanti una guerra che li aveva segnati dalla nascita... insieme a quel maledetto cip che si sarebbero tenuti dentro a vita e che li condannava ad un esistenza senza libero arbitrio.
Harry annuì e insieme a lui si smaterializzarono Draco e Lily, che era sfuggita alla presa del suo ragazzo per afferrare la mano del suo futuro suocero. Scorpius urlò e lei fu risucchiata in un vortice indistinto di suoni e colori – fino a sbattere con il culo per terra.
Quando tutto fu finito aprì gli occhi, tossendo, e si ritrovò dinnanzi ad uno spettacolo raccapricciante; la casa, il piccolo cottage che Avery aveva costruito con le proprie mani, andava a fuoco. Gli alberi, le siepi e le assi – il sostegno dell'intera casa – crepitavano allegramente, come legno nel camino.
“Merda, merda, merda!” sbottò Harry, lanciandosi in avanti.
C'era fumo dappertutto e a Lily sembrò tornare indietro nel tempo; nonostante anche lei fosse un Auror fatto e finito, non aveva ancora messo piede nel campo dopo la piccola battaglia che si era tenuta ad Hogwarts il suo ultimo anno. Lei si era tenuta in disparte, troppo impegnata negli studi.
Troppo impegnata a scoprire qualcosa di reale sugli angeli, imbattendosi in sole leggende. E ora eccola di nuovo lì, con la bacchetta in pugno, a combattere contro un passato che le bruciava le vene, l'orgoglio, il sangue.
Era quello il suo destino. Era quello il destino di ogni singolo Potter che sarebbe venuto al mondo.
La magia, il suono degli incantesimi che si scontravano, erano qualcosa che tutti loro avevano dentro fin dalla nascita.
“Noxa” sussurrò a bassa voce, puntando la bacchetta verso l'uomo che veniva verso di loro e questo urlò – inginocchiandosi ai piedi di Draco, ancora immobile al suo fianco.
Si girò di scatto verso di lei.
“Non cominciare a giocare con qualcosa che non puoi controllare, bambolina” sibilò, ora con gli occhi incendiati e Lily annuì, abbassando il capo.
Quasi si vergognò di quella debolezza. Lei aveva qualcosa che non andava. Lei aveva il male che albergava in una piccola parte di lei e usciva fuori appena il suo senso di protezione s'allertasse.
Iniuria” urlò una voce alla loro destra e Lily si morse le labbra fino a sentire il sapore del sangue in bocca. La bacchetta era stata puntata verso la sua gamba e questa crollò sotto il peso del dolore, facendola traballare.
Sorrise. Sapeva bene chi aveva pronunciato quell'incantesimo: l'unica persona che li conosceva oltre lei.
“Guarda chi si rivede” urlò, con il fuoco che le illuminava i tratti resi quasi folli dal divertimento. Gli occhi bruni accarezzarono quella figura morbida e sinuosa e Alice riuscì, ancora una volta – fino a sentire le ossa congelarsi – a vedere quell'ombra nera inghiottirle l'iride. Fu solo un attimo. Un singolo momento che bastò a farla tremare.
“Chi non muore si rivede” sussurrò Alice, con la veste strappata sulle gambe e un piccolo taglio sulla guancia.
Lily portava i capelli rossi legati sulla nuca e il maglione panna, in cui quasi ci sembrava annegare, quasi la faceva sembrare più piccola di quel che era; alunna e maestra, se così si poteva dire, si ritrovarono faccia e faccia.
“Vedo che ti sei riletta con piacere quel bel libricino” ridacchiò Lily, che si teneva in piedi a stento dopo la botta alla gamba.
Alice scosse il capo e il marchio, quasi offeso da quell'affermazione, sembrò brillare sul suo avambraccio. Vivido. Nero. Tetro.
“Dimenticavo il tuo nuovo maestro” bisbigliò la Potter, senza lasciare che lei aprisse bocca.
E non lo fece. La sua bocca non si aprì quando, con i polsi girati verso l'alto, qualcosa cominciò a squarciarle la pelle, le vene, le ossa. Senza aprir bocca, qualcosa di nero e acuminato stava prendendo forma contro il rosso del sangue che sgorgava copioso dalla ferita.
La luna rossa le illuminò in quello spiazzato dalla terra bruciata e quando finalmente le punte delle frecce scoccarono – ora lontane da quei polsi che sembravano essersi ricuciti un secondo dopo – si fiondarono immediatamente su di lei. Una le colpì la spalla e Lily gemette, l'altra andò alla gamba già ferita, facendola crollare sul terriccio.
“Già, quasi dimenticavi il mio nuovo maestro” bisbigliò Alice, senza nemmeno sobbalzare quando la casa crollò ed Harry urlò il nome di Lily.
“Allora è questo che fai ora... ammazzi gli stessi innocenti che anni fa hai difeso a costo della vita” mormorò una terza voce, quasi disgustata dallo spettacolo raccapricciante che gli si parava dinnanzi agli occhi.
Le due donne si girarono di scatto, sorprese e Lysander scosse il capo ad un solo metro di distanza da Lily. Lì, seduto sulla sua sedia, sembrava un re senza corona. Un re spodestato dal suo incarico... ma non dal trono.
“Lysander” sussurrò Alice, sgranando gli occhi di scatto.
Aveva la veste di raso nera strappata sulle gambe ora completamente nude e il seno scoperto dalla profonda scollatura di pizzo. Oltre il marchio nero, che brillava crudele e trionfo sul suo avambraccio, una rosa faceva bella mostra di sé sulla spalla – quasi ricordandogli che nonostante ora fossero lontani, lei continuava ad essere in fioritura. Lei continuava ad essere bella – tanto da far mancare il fiato – e non avvizziva mai. Nonostante non fossero più insieme e lui fosse morto in quell'esatto momento, lei non avvizziva mai. Appena aveva sentito Hermione parlare con quella spia, subito si era catapultato lì, con il cuore in tumulto. 
“Lily, come hai potuto dimenticare il suo nuovo maestro? Lo sanno tutti che lei è nelle sue grazie da un bel po” ridacchiò Lysander. E con “grazie” entrambe capirono il sottinteso. Per grazie lui intendeva letto.
Alice si trattenne dallo sboccare lì, davanti all'ex amore della sua vita e la sua ex compagna, disgustata da se stessa. Avrebbe voluto tanto vomitare e crollare, piangere fino a sentirsi sfinita. Ma c'erano occhi che la guardavano.
C'erano occhi che la osservavano per bene e lei non poteva permettersi nessuna debolezza. Lysander aveva ragione: lei era nelle grazie dell'Oscuro Signore e ben presto sarebbe stata anche di più. E lui non ammetteva debolezze. Lui non ammetteva amore o pietà per nessuno.
“Va via, Lysander” disse, con quella voce bassa che oramai la contraddistingueva dalla se stessa del passato. Ad Alice quasi mancava la sua voce da soprano, quella che sentiva trillare nonostante fosse sua.
Odiava quel tono basso, appena sussurrato, come un eco di quello che era stata. Era davvero un fantasma? Era diventata tutto ciò che i suoi genitori avevano sempre odiato... che Lysander aveva sempre odiato, che Franck aveva sempre odiato, solo per loro. Loro, che la odiavano. Lei era diventato il loro incubo peggiore per proteggerli.
Che strana era la vita. A Lily Potter era stato perdonato tutto. Quando lei era diventata un demone, tutti le erano stati vicini. Ma ad Alice non era permesso.
Lei era sola. E sola sarebbe stata.
Per sempre.
“Cosa si prova ad essere la puttana dei Mangiamorte, eh, Alice?”
Ora Lysander urlava, con gli occhi azzurri spenti contro le fiamme. Sembrava un guscio vuoto – ora. Senza scopo, senza arte né parte.
Lysander, senza di lei, era l'eco di se stesso. Come lo era lei senza di lui.
Quanto erano uguali...
“La stessa cosa che si prova a starsene seduti su una sedia, impotenti” rispose, spezzandosi insieme a lui. Con lui. Solo per lui. Come sempre.
Quanto erano uguali...
Michael apparve alle sue spalle e l'afferrò per un braccio, ansimante.
“Andiamo via, Alice” sibilò, mentre questa era completamente soggiogata dall'uomo che le stava di fronte.
“Ti scopi anche lui o sei proprietà privata di Lord Voldemort?”
Michael scoprì le zanne lunghe e doppie ancora sporche di sangue e Lysander scoppiò a ridere.
“Ti scopi anche lui. Ricordo bene cosa ti piaceva, a letto” rise, sempre più perfido.
Ora il cuore le faceva così male che le sembrava di impazzire. Niente, nessuna ferita al corpo poteva essere comparabile a quello che le stava facendo lui.
Che fosse maledetto! Lui la guardava e lei si sentiva sprofondare sempre più in giù, in un baratro che nemmeno la vergogna di essere la preferita di Tom Riddle per una ragione la trascinava così in basso.
“Mi scopo il mondo intero, basta che abbia le gambe funzionanti. Sai bene che a me piace stare sotto” e con quello seppe di averlo seppellito.
Con quello seppe di aver fatto a pezzi entrambi. Ed entrambi non si sarebbero mai più ricostruiti. Mai più.
Lysander fu veloce ad afferrare il pugnale dallo stivale di pelle che indossava e altrettanto fulmineo nel lanciarlo verso di lei. Dritto, letale, fendette l'aria senza che lei si spostasse di un millimetro – lasciando che la lama le trapassasse il cuore.
Lo guardò, continuandogli a giurare amore eterno. Continuandogli a giurare che tutti, tutti potevano prendere il suo posto al suo fianco, ma che nessuno avrebbe sopperito la sua assenza e quella presenza nel suo cuore – che le squarciava l'anima ogni singolo giorno.
Fu così che Michael la smaterializzò. Mentre lei lo guardava negli occhi e continuava a giurargli e promettergli che lui era l'unico.
E così sarebbe stato. Per sempre.

 

 

✞ ✞ ✞

 

 

“Certo che tu sei proprio scema. Farti beccare così, con un tipo del genere dopo che gli avevi contato quella balla... è normale che Zabini ora crede di avere due corna da non poter passare sotto i ponti”
Il fatto che Jackie Alaia non avesse peli sulla lingua, proprio lui, che in vita sua non aveva mai fatto nulla di lecito o morale, lei doveva ancora decidere se fosse un bene o un male. Insomma, oramai lei ci conviveva con quel maledetto e il suo sputare sentenze a destra e sinistra risultava sia irritante che veritiero e rivelatore.
Era lui ad aprirle gli occhi e questo non sempre andava giù a Joanne Smith, che si sistemò infastidita il camice bianco – liquidando la faccenda con uno sventolio di mano, come se stesse scacciando una mosca molesta.
“Seriamente. Forse dovresti rivedere le tue priorità” borbottò Jackie, iniettando una sostanza blu nel cadavere steso sul lettino di ferro di fronte a loro.
Joanne sospirò. Non aveva mica tutti i torti. Da quando lei e quel mentecatto si erano messi a giocare con il fuoco, lei era così impegnata in quel progetto e al non farsi scoprire che aveva messo Dalton all'ultimo posto della sua scala delle priorità. E lui ne stava risentendo, e anche molto. Forse troppo.
Ah, stava impazzendo!
“Già essere la sua fidanzata mi costa, Alaia. O forse credi che sia facile esserlo” sbuffò, afferrando il bisturi alla sua sinistra e facendo un piccolo taglio sul petto del cadavere.
La Sala mortuaria dell'ospedale magico St. Smith – chiamato così in onore del padre di Joanne – era uno stanzone così immenso da poter ospitare più di tremila cadaveri; asettica, completamente pitturata di bianco, aveva tante piccole finestre poste quasi sul soffitto, nonostante la stanza fosse sotterranea, e lettini, frigoriferi e armadietti di solo acciaio.
Quando Joanne aveva deciso, con la liquidazione di suo padre, di aprire quell'Ospedale, Dalton non se l'era fatto ripetere due volte: con l'aiuto cospicuo di suo padre e le sue conoscenze, aveva fatto in modo di trovargli uno stabilimento in una campagna che distanziava di poco dal centro di Londra e l'aveva aiutata a rendere quel posto una vera e propria abitazione, più che un ospedale.
Oltre il San Mungo, il suo era l'unico pronto soccorso e ospedale presente in tutta l'Inghilterra e il Ministro aveva stanziato con piacere il progetto; tutto era andato come doveva. Il villone di sette piani ospitava stanze su stanze e tecnologie che solo loro potevano vantare.
E lei, nonostante fosse il capo di quella baracca, doveva nascondersi ben bene per fare quello che stava facendo; se qualcuno li avesse scoperti, sarebbero finiti ad Azkaban senza processo.
“Ancora non riesco a capire cosa ci sia di difficile nell'essere la fidanzata di Zabini. Andiamo, Joe! Nonostante io sia un etero convinto al cento percento, ho ancora gli occhi e il buon senso di ammettere che Dalton, nonostante sia stronzo di natura, è un gran bel ragazzo... e ti ama più della sua stessa vita” disse Jackie, aprendo con le mani guantate di lattice il taglio che lei aveva fatto sul petto di quel povero disgraziato.
A volte Joe si chiedeva se fosse giusto. Quelle povere persone, che per cause naturali e non, schiattavano da sole in quell'Ospedale – senza che nessuno richiedesse indietro il corpo – venivano sottoposte a torture di cui Joe rabbrividiva al solo pensiero... nonostante fossero le sue stesse mani a farlo.
Resuscitare i morti. Che cosa contro natura. Che obbrobrio. Che orrore.
Eppure lo faceva. Eppure lo stava facendo.
“Forse hai dimenticato quello che ho passato ad Hogwarts” mormorò, amara, ricordando il periodo di allontanamento, paura e bullismo che aveva passato per colpa di Dalton.
“Appunto. Zabini ha quasi ucciso quella stronza della sua ex ragazza e di quell'altra sgualdrinella quando ha saputo quello che ti facevano. Quello è pazzo di te sotto ogni punto di vista” sbuffò Jackie, scuotendo la testa per il suo essere dura.
Nonostante non fosse più un adolescente in piena fase ormonale, continuava ad odiarsi. Lei continuava a non accettare il suo corpo, il suo viso, le sue imperfezioni... l'avevano colpita così a fondo, così intensamente, da procurarle ferite che non riuscivano a rimarginarsi.
“Ragazzi, siete ancora chiusi lì dentro?” urlò una voce oltre la porta d'acciaio e Joe sbiancò – afferrando di volata il lenzuolo bianco con cui avevano scoperto il cadavere e coprendolo nuovamente.
“Oh, ciao Sirius!
Aspetta, ora ti apriamo” disse Joe, mentre Jackie afferrava velocemente il corpo e di peso lo trascinava verso uno dei frigoriferi aperti. Lo mise dentro e, annuendo verso la Smith, le diede il consenso di correre ad aprire la porta chiusa a chiave.
“Voi due mi spaventate quando vi chiudete a chiave con tutti questi cadaveri” sbuffò l'uomo, che con il corpo di Diamond era ritornato indietro di vent'anni.
Gli occhi grigi, il taglio sbarazzino e il volto giovale, avevano già conquistato il cuore di Which journal, il più rinomato giornale per streghe.
“Cos'è, hai paura che ci aggrediscano?” rise nervosa, sfuggendo al suo sguardo e ridacchiando in modo frivolo... come aveva imparato a fare in presenza di un uomo.
Gli sguardi non la soddisfacevano, come nemmeno i complimenti. Joe non riusciva a capire cosa gli altri vedevano in lei: perché lei non riusciva a vedere niente di quello ciò?
“Oh, ho imparato che i morti sono più utili di alcune persone vive” mormorò Sirius, guardandola attentamente e seriamente con i suoi occhi grigi.
Gli occhi grigi dei Black. A volte Joe aveva l'impressione che le leggesse nella mente – scavandole a fondo, nell'anima – e le faceva paura. Lui era capace di profanarla, come lei stessa faceva con quei cadaveri.
“Sciocchezze” s'intromise Alaia, infilandosi tra le labbra un leccalecca alla frutta e sorridendo per la fattezza oramai scomparsa.
Già, Jackie aveva bisogno di una spinta per squartare cadaveri e cercare di resuscitarli, ma Joe cominciava a pensare che oramai le canne non gli procurassero più nessun effetto; ne era così dipendente e ne faceva così abuso che si sarebbe sorpresa del contrario.
“Andiamo a cena? Ho una fame” borbottò, mentre Joe afferrava Sirius per un braccio e lo trascinava nei corridoi illuminati del sotterraneo.
Solo gli infermieri con un tesserino speciale potevano entrare lì e Black non era uno di quelli. Ma bazzicando spesso l'ospedale e aiutandoli, Joe non si sorprendeva più dei posti dove poteva ritrovarselo.
“Sono venuto a cercarvi perché penso che dobbiate preparare il pronto soccorso. Harry e gli altri hanno avuto una soffiata e ho la brutta sensazione che qualcuno non tornerà sano da lì” disse Sirius e Joe si mise subito sull'attenti.
“E cosa diavolo stavi aspettando per dirmelo?” sbottò, avanzando il passo e superandoli di gran carriera.
Si sistemò il camice bianco e il cartellino con il suo nome sul petto e ignorò i due alle sue spalle.
Sirius fiutava qualcosa. E lei non poteva permetterselo.
Voleva bene a Black come qualsiasi componente della famiglia Potter, anche se lui riusciva a capirla come nessuno sapeva fare... ma non poteva assolutamente permettere che lui scoprisse il suo segreto.
Resuscitare i morti non era uno scherzo e nemmeno le tragiche conseguenze che farlo portava.

   
 
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