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Autore: Laky099    05/11/2015    4 recensioni
"Più scoprirai su di te, più cose ricorderai".
Un uomo, impossibilitato a ricordare persino il suo nome, si ritrovò in una stanza completamente bianca. Tutto ciò che lo riguardava era stato cancellato dalla sua memoria. Solo una bambina-avatar, dietro un display sembra poterlo aiutare a compiere questo complicato viaggio alla scoperta di se stesso ed a svelare il mistero che l'ha condotto in quella piccola strana stanza bianca.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4 - La Stanza degli Orrori



“Mark! Mark! Sei ancora fra noi?”
La voce di Mercy, che ormai sembrava decisamente più matura, risuonò e rimbombò nella testa di Mark, destandolo dal suo stato catatonico. Più il tempo passava, meno positiva si faceva la prospettiva di scendere ancor più in basso nei ricordi, che sembravano diventare sempre più oscuri ed amari.
“Scusa” rispose biascicando, cercando di riconnettere il cervello alla sua situazione attuale, reale o meno che fosse.
“Sto bene, sono solo un po’… spaventato”
“Non ti biasimo di certo” annuì Mercy. Il suo corpo era ormai quello di una ventenne: indossava una maglietta leggera e degli shorts, mentre i suoi capelli biondi erano raccolti in una lunga treccia che le calava dietro la schiena, ondeggiando ad ogni suo movimento.  Questa volta, diversamente che in passato, era anche ricoperta da un leggerissimo strato di trucco. Teneva i suoi occhiali, senza montatura e dalle lenti strette, poggiati delicatamente sul naso, cosa che le conferiva l’aria di una che la sa lunga. I suoi occhi, che risplendevano dei loro colori diversi, osservarono Mark lasciando trasparire tutta l’apprensione che poteva provare in quel momento.
“Hai qualche idea?” chiese lei aggiustandosi la treccia.
“Poche, confuse ed a cui preferisco non pensare. Chiunque sia questa Miriel, deve essere stato qualcuno di molto importante per me e Caty. Comunque vada andrà male”
“Probabile” dovette ammettere Mercy “ Però non essere triste, Mark: quel ricordo non era molto recente, eri visibilmente più giovane allora. Qualsiasi cosa fosse, dovresti averla superata”
Non necessariamente  pensò Mark, che però decise di tacere.
“Parlando d’altro, ti piace come sono cresciuta? Ormai sono un adulta!” disse Mercy, cercando di esternare la sua solita contagiosa allegria. La sua voce però, ormai matura ed adulta, se da un lato era  estremamente più melodiosa e seria, dall’altra aveva perso parte del suo candore e della sua innocenza. Quella era una voce senza dubbio splendida, ma non pura, non angelica come quella di una bimba o di una giovane ragazza.
“Molto!” disse Mark sinceramente “Ma fattelo dire, con quegli occhiali sembra quasi che tu voglia tirartela”
“Non è colpa mia se sono miope!” obbiettò Mercy, che ancora una volta non sembrò accettare particolarmente bene le critiche.
“Sei sicura di essere miope?” chiese Mark perplesso. Dopotutto, per quanto sembrasse in tutto e per tutto umana, era pur sempre solo un avatar. Un’intelligenza artificiale programmata probabilmente da un qualche nerd ciccione e peloso disperso in qualche parte del mondo, che ha completato i dialoghi nell’abbondante tempo a disposizione che gli veniva concesso tra una partita ai videogiochi ed una fantasia sulla ragazza più popolare della scuola che, ovviamente, in quanto lui nerd ciccione e peloso, non se lo sarebbe mai filato.
Da quando sono così cattivo?  Si chiese subito dopo, sentendosi parzialmente in colpa per il nerd ciccione.
“Senza non vedo che un mucchio di macchie colorate, fai te. Penso di essere anche gravemente miope”
Mark fece spallucce, ancora basito dalla curiosa malfunzione della sua alleata e compagna di viaggio.
“Vogliamo procedere?” chiese lei, che sembrava non riuscire a frenare il suo solito entusiasmo.
“Si, ma senza troppa fretta” rispose Mark, cercando di apparire il più possibile indifferente per nascondere la sua paura.
“Ok” rispose Mercy “sai, stavo notando una cosa: nella prima prova hai ricordato la tua prima infanzia, ovvero il tuo nome ed il tuo aspetto. Subito dopo ci sono stati i giocattoli, quindi la tua vera e propria infanzia ed adolescenza. Infine hai ricordato l’università, ovvero la post-adolescenza e l’ingresso nell’età adulta. Adesso, qualsiasi cosa succeda…”
“Riguarderà la mia età adulta” completò Mark “Non ci avevo pensato, in effetti. Suppongo che vista dall’esterno sia più facile da analizzare”
“Forse” disse Mercy “Dai, ora andiamo avanti!”
Mark, trovandosi a corto di scuse per rinviare ulteriormente la sua discesa negli anfratti più remoti, drammatici ed oscuri della sua memoria,  decise che non c’era altra scelta se non proseguire.
Una porta calò rumorosamente dall’alto, producendo un frastuono  insopportabile e facendo tremare l’intera sala. Mercy, che ovviamente non poteva percepire il piccolo terremoto che si era formato, era semplicemente basita per la goffa entrata in scena di quello che sembra essere lo sportello di una cassaforte, con tanto di codice da inserire. Prevedibilmente, lo schermo e la tastiera non erano solo a scopo decorativo, ma richiedevano l’immissione di una sequenza di quattro numeri.
“Immagino che tu non sappia il codice, vero Mercy?”
Lei si limitò ad alzare le spalle. Mark provò una lunga serie di combinazioni casuali,che ovviamente andarono a vuoto.
“Sono quattro numeri, per un totale di novemila novecentonovantanove combinazioni” disse Mercy “non si aprirà se riprovi a fare combinazioni a caso”
Mark sorrise, rivolgendo a Mercy uno sguardo sagace e furbetto.
“La password 0511” disse.
“Prova!” lo invitò lei. Dopo aver inserito le quattro cifre, la porta si aprì,  rivelando una stanza le cui luci spente impedivano di vedere qualsiasi cosa.
“Bravo! Come hai fatto?” chiese Mercy
“Semplice, é l’ultima data che ricordo. È da quando ho assistito al ricordo del funerale che quella data, il cinque novembre, mi ossessiona. Se ci pensi ha senso: per sbloccare i miei ricordi devo utilizzare i miei ricordi”
“Vedo che hai imparato!” sorrise lei, invitandolo a proseguire. Come consuetudine, le luci si accesero nella stanza, ma stavolta non corsero nemmeno il rischio di abbagliarlo. L’illuminazione era fornita da una lunga sequela di candele che bruciavano di una macabra fiamma verde, emettendo una luce fioca e funestando la stanza di una putrida cortina di fumo verdastro.  Sotto le candele ed il grosso candelabro centrale, che pareva essere animato da una pila di fuochi fatui, si stagliavano le smorte pareti di pietra grigia alle quali erano appesi quadri rappresentanti ritratti o nature morte. Molte delle espressioni dipinte sulle tele erano austere o melanconiche e per qualche strana ragione sembravano scrutare Mark con odio e disprezzo. Sotto un’ immenso quadro a tema religioso, nella quale era rappresentata la crocifissione di Cristo, v’era una altare ricoperto di una tovaglia bianca, che quasi brillava tanto era candida.
“Sono finito in un film horror” scherzò Mark “poco male. Non basteranno certe due zombie od un fantasmino a spaventarmi”
“Sarebbe divertente vederti fare il Ghostbuster!” disse Mercy allegramente “Hai idea di cosa fare per andare avanti?”
“In vero no” disse Mark, che cercò una porta in quel lugubre posto. Andò ad esaminare con attenzione il quadro, ma non trovò nulla. Almeno finché non si voltò.
Poggiate sull’altare vi erano quattro bambolotti, sporchi e semi distrutti. Avevano uno sguardo sadico ed assettato di sangue, tanto che a due di loro mancava un occhio, sostituito da un oscuro anfratto che avrebbe potuto nascondere un chissà quale legame con un chissà quale mondo oscuro. Mark si sentì mancare il respiro sin quasi a soffocare. Arrancò all’indietro, finendo solo col cadere addosso alla solida parete posta sotto il quadro.  Si rialzò goffamente, ripetendosi mentalmente parole di conforto.
È solo un bambolotto, è solo un bambolotto è solo un fottuto bambolotto. Queste parole, come un mantra, risuonarono nella sua testa. Ma tutto andò in fumo quando la più grossa fra queste bambole, una di quelle senza un occhio, rilasciò una fiumana di un liquido rosso e denso, che colò ed imbrattò la pregiata e candida tovaglia. Mark sbarrò gli occhi, paralizzato dal terrore. La vide muoversi e guardarlo con un espressione agghiacciante. Una voce stridula, macabra ed ossessiva uscì dalla sua bocca immobile “Aiu….taci…” disse con tono strozzato.
Mark, a quel punto, non fu più in grado di controllarsi. Si rialzò di corsa e lanciò un urlo stridulo, acuto e decisamente poco virile. Scappò fino a tornare nella stanza bianca, ove Mercy lo guardò con apprensione.
“Tutto bene Mark?” chiese. Ma lui era ancora troppo terrorizzato per risponderle.
“Non avevi detto che quattro zombie od un fantasmino non era in grado di spaventarti?”
“Q-Quelli no… ma… ma là dentro c’è d-di molto peggio!” balbettò goffamente.
“Vampiri? Ghoul? Chtulu? Cosa ci può essere di tanto orribile?” chiese Mercy perplessa.
“Loro… loro si muovevano e sanguinavano, Mercy. Non ho mai visto nulla di tanto orribile!”
In quel momento un leggero mal di testa scosse Mark, ricordandogli qualcosa che non avrebbe mai voluto ricordare.
Io sono pediofobico.
Alzò lo sguardo nel sentire una risata fragorosa. Mercy era letteralmente piegata in due dal ridere, tanto da arrivare a lacrimare e doversi togliere gli occhiali.
“Non… non puoi… avere paura delle bambole!” lo schernì lei tra uno schiamazzo e l’altro. Come mai da quando era finito lì, Mark si sentì umiliato.
“Va bene, ok, lo riconosco” disse cercando di coprire con il tono della voce gli schiamazzi della ragazza  “È una fobia un po’ desueta, tuttavia si basa su principi psicologici legittimi che sono presenti nel…”
“Ehi Mark” disse, mettendo le braccia ritte dietro la testa, piegando gli indici e i medi come a voler simulare le orecchie di un coniglio “Non chiamarmi mai più… bambola!”
A quelle parole riprese a ridere sguaiatamente, ignorando completamente il disappunto di Mark che dovette riconoscere, nonostante l’umiliazione, che la citazione a Lola Bunny era assolutamente notevole.
“Ok… ok… basta” disse Mercy, la cui espressione era ancora sconvolta dalle risate “Tor… torniamo seri”
“Grazie”  rispose Mark con voce impassibile “Temo di aver capito tutto fin troppo bene, vero?”
“Devi superare le tue paure, per quanto siano… come le hai definite? Desuete?”
“Si. Una di loro mi ha chiesto di aiutarle, ma non so come”
“Avevano qualche particolarità queste bambole? Prima hai detto che sanguinava, o qualcosa del genere”
Mark ripensò con  orrore alla scena, tanto che ebbe un brivido gli percorse la schiena.
“Erano tutte rotte e rovinate… Non mi dire che…”
“Si Mark caro, devi sistemare quelle bambole”
L’uomo scosse la testa, sospinto dal suo istinto di sopravvivenza a non muovere un passo. “oh no no no no!” disse “Non ci penso nemmeno di rientrare in quel fottuto inferno!”
Mercy lo guardò con espressione seria, che venne intervallata da un qualche residuo della risata precedente. “Mark, sei un uomo sposato di trentotto anni. Dimostra un po’ dignità, diamine!”
Quelle parole lo scossero, anche perché nel profondo era ben conscio di come non avesse poi tanta scelta. Rientrò nella stanza e scrutò le bambole, le quali parvero contraccambiare lo sguardo.
Si sono anche voltate nel frattempo. Stronze. Pensò, avvicinandosi di soppiatto.
“P-posso aiutarvi?” chiese.
“Siamo… ferite…” disse la bambola grande, con una voce macabra e gracchiante.
“Come posso curarvi?” chiese Mark, cercando di dissimulare il terrore che provava.
“Portaci… i pezzi... sono nella vaschetta sotto il quadro bruciato”
Mark annuì, cercando con lo sguardo il quadro bruciato di cui aveva parlato la bambola. Lo trovò quasi subito, osservano l’immagine nella quale era rappresentata una coppia di cigni con il becco poggiato l’uno sull’altro. La parte a destra del quadro, alle spalle dei due immacolati uccelli, pareva essere bruciata, distruggendo la metà nella quale avrebbero dovuto stare eventuali cuccioli. Dietro un telo nero, che era sfuggito alla sua precedente perlustrazione della stanza, c’era una sorta di enorme scatola da scarpe, improvvidamente definita vaschetta dall’ orrida bambola.
Non appena tolse il velo, poco mancò che non perdesse i sensi. Un’infinità di teste ed arti di bambole, cosparsi di sangue marcio,lo fissavano con espressione disperata.
Gridavano con voce stridula e sofferente, mentre i loro occhi, per le teste che ancora li avevano, parevano iniettati di sangue. “Aiutami!” diceva la maggior parte di loro, ma c’era anche chi invocava pietà o chiedeva di essere salvata. Mark si sentì sul punto di impazzire. Un fiume di lacrime uscì dai suoi occhi, mentre inseriva la mano nella vaschetta alla ricerca dei pezzi di ricambio.
“Ti prego! Salvami! Queste parole risuonarono nella sua testa, mentre la mano sgusciava tra il viscido calore del sangue e la plastica. Sul fondo della scatola trovò una sacchetta. Non ebbe nemmeno bisogno di aprirla per capire che era esattamente quello che cercava. La tovaglia sull’altare, una volta bianca come la luce di un faro, era ormai vermiglia, imbrattata dall’enorme quantità di sangue che la fuoriusciva dalla bambola grande.
“T-tenete” disse Mark, porgendo la sacchetta a colei che gliel’ aveva chiesta. Il suo cuore cominciò a palpitare incontrollato ma, nel momento stesso in cui la bambola toccò il contenuto della piccola sacca, un bagliore illuminò la stanza. La luce solare filtrò dalle finestre che avevano preso il posto dei dipinti, rendendo quel posto molto meno lugubre. La bambola principale era rimasta nello stesso stato in cui si trovava in precedenza, mentre le altre tre avevano preso le sembianze di bambini in carne ed ossa, dal fisico sano e robusto. Questi, che parevano indossare la classica tunica verde acqua da ospedale, sorrisero dolcemente e svanirono camminando sospesi a mezz’aria verso la luce. La bambola grande lo guardò, pronunciando una sola parola con la sua voce gracchiante “Grazie”.
Per qualche motivo, la sua espressione sembrava essere ora più dolce e gentile, per quanto ancora in tutto e per tutto orrida.
“Perché tu non sei… come le altre?” chiese Mark, il quale la fissava non più con terrore ma con pietà.
“Per me era troppo tardi Mark…” la sua voce, si fece più debole, tanto che sembrava in procinto di affievolirsi sempre più e spegnersi come una candela.
“Tu già lo sapevi, vero? Volevi salvare loro”
“Si” sussurrò con le sue ultime forze “per gratitudine, Mark, ti donerò il ricordo a te più caro. Sii pronto ad accoglierlo, poiché non sarà facile”
Mark annuì, ma prima che potesse rendersi conto di qualsiasi cosa, svenne.
Quando riaprì gli occhi, di ritrovò nella stanza bianca, sotto gli occhi vigili di Mercy.
“Buongiorno! Sei stato pestato da una bambola?”
“Vai al diavolo” rispose Mark, sorridendo  “Come sono finito qui?”
“Ti hanno riportato due bambole. Devo riconoscere che sono piuttosto inquietanti, in effetti”
“Vedi?” la incalzò Mark, cercando di rimettersi in piedi. Dopo essersi dato una debole sberla sul viso come a voler essere sicuro di essersi risvegliato, osservò Mercy, che sembrava sul punto di scoppiare dalla voglia di dire o fare qualcosa. “Qualcosa non va?” chiese.
Lei sorrise. “Sentiamo un po’, come ci si sente ad essere padre?”
Mark ripensò solo in quel momento al dono della bambola, il suo ricordo più prezioso. Lui aveva una figlia, una splendida figlia di nome… Mercy.
“Certo che non hai molta fantasia coi nomi” scherzò la ragazza-avatar, notando la faccia sorpresa di Mark.
“Non può essere una coincidenza”  borbottò lui sommessamente, ma venne immediatamente bloccato dalla sua compagna d’avventura.
“Non lo è infatti. Il tuo legame con tua figlia è troppo forte per essere cancellato da un semplice reset. Non è più qualcosa che appartiene alla tua memoria, ma bensì qualcosa che appartiene a te, molto più in profondità di quanto la tecnologia possa scavare. Se a questo aggiungi che Mercy ha come consonanti M, R e C… è chiaro che tu mi abbia dato quel nome”
Mark dovette riconoscere che la spiegazione avesse perfettamente senso, ma dovette fermarsi per qualche istante per realizzare bene il tutto e ricordare i momenti passati con sua figlia. La cosa che gli diede più solievo, tuttavia, fu proprio il nome. Miriel non è lei!  pensò, dissipando la sua più grande paura.
“Come mai proprio una prova di coraggio, Mark? È strano associare un ricordo del genere a tua figlia”
“Beh… diciamo che quando abbiamo avuto Mercy sia io che Caty andavamo ancora all’università, tanto che lei dovette mollare gli studi per stare appresso alla piccola. All’epoca la paura di non essere all’altezza mi fece quasi dimenticare quella per le bambole”
Mercy annuì con aria seria, mentre Mark ripercorse mentalmente tutti i ricordi che lo legavano a sua figlia, che si fermavano a quando aveva più o meno un anno. Erano ricordi vaghi e sfumati, tanto che non era nemmeno in grado di guardare bene il suo volto o gli ambienti che li circondavano. La paura che aveva attanagliato il suo cuore fino a solo qualche istante prima svanì in un istante, sostituita dalla curiosità di raccogliere maggiori dettagli su di lei. Devo scoprire tutto su di lei! Pensò, recandosi sorridente e felice verso la porta che era comparsa sotto il quadro che rappresentava la crocifissione.
“Ehi Mark” disse Mercy, proprio un istante prima che potesse mettere piede sulle scale.
“Dimmi”
“Questa è… questa è l’ultima scalinata”
“Davvero?” disse Mark “Mi stai dicendo che…”
“Si. Ti manca solo una stanza prima di ricordare tutto ciò che ti manca”
Caty, Mercy… finalmente potrò riabbracciarvi! Pensò lui gioioso “Ti troverò ancora al piano di sotto, vero?”
“Certo, Mark. Io ci sarò sempre” rispose lei. La sua voce parve strana, quasi tremula nel pronunciare quelle parole. Ma Mark non vi diede peso.
Entrò in quella che era l’ultima scalinata, che si mostrò in tutto il suo ossessivo ed inquietante aspetto. Era una stanza delimitata da quattro pareti che parevano essere di vetro, alle quali erano appesi un’infinità di orologi, che contenevano al loro interno altri orologi che sembravano contenerne infiniti altri al loro volta. Il lento scorrere del tempo, scandito dai continui tic-tac-tic-tac, parve viaggiare su binari alternativi, che parevano un momento troppo lenti e quello dopo troppo rapidi. Sullo sfondo nero, che contornava i bordi dorati ed i quadranti bianchi di quegli angoscianti macchinari dediti a segnare tempi che non esistevano, si trovavano ancora quelle due orribili lucette verdi, che sembravano perseguitarlo al mero scopo di infastidirlo.
Devo ricordarmi di chiedere a Mercy se sa cosa siano pensò, mentre scendeva velocemente i gradini. La scala fu particolarmente breve, tanto che vedere la porta che lo avrebbe condotto al ricordo successivo lo sorprese non poco. Era una porta verde acqua a due battenti, con due finestrelle poste in alto.
Entrò in quella che altro non poteva essere altro che una stanza d’ospedale. Dei medici parlavano freneticamente, assiepati intorno ad un lettino. Mark, guardandoli ed udendoli, dedusse che  stavano cercando di rianimare una persona.
“Ti prego, Miriel! Non mollare” sibilò Caty, che si trovava alle sue spalle appoggiata a se stesso, che osservava la scena con sguardo vacuo ed il viso pieno di lacrime.
L’immagine si distorse sempre più, dando ancora una volta l’idea di un televisore sintonizzato male. Tutti i colori si mischiarono e contorsero insieme, facendo comparire Mark in un altro ambiente, appartenente ad un altro ricordo. Era un ufficio piccolo ma elegante, all’interno del quale si trovava, oltre ovviamente a Mark stesso, un uomo di mezz’età dall’aria triste, seduto dal lato opposto di una pregiata scrivania in mogano. L’uomo prese la parola, senza guardare il suo interlocutore negli occhi.
“Sono veramente dispiaciuto, Signor Hardy, ma non c’è nulla che noi possiamo fare. Le mie supposizioni, purtroppo, erano corrette: Miriel soffre di una rara malformazione cardiaca, che le impedisce di avere una respirazione regolare. È la causa del suo continuo ammalarsi nel corso di quest’anno e della debolezza cronica che la affligge. Non so veramente come dirglielo, certi drammi sono terribili da affrontare anche per chi li vede quasi tutti i giorni. Ma è da escludere che Miriel possa continuare a vivere per più di qualche mese ancora. Mi dispiace”
Mark, osservando la scena, sentì una sensazione orribile scuoterlo, lasciandolo quasi del tutto privo di forze. Una parte aveva ricordato quello che più di ogni altra cosa avrebbe voluto dimenticare.
L’immagine tornò dov’era in precedenza. I medici si agitavano intorno al letto, mentre il macchinario dedito a controllare il battito cardiaco continuava a suonare, sovrastando le voci di medici ed infermieri.
Bip… bip… bip…
Mark non aveva più bisogno di ricordare. Ormai sapeva tutto quello che doveva sapere, provava tutto il dolore che doveva provare. Aveva perso tutto, anche la capacità di piangere.
Bip… bip…bip…
L’apprensione nella voce dei medici aumentava ogni istante di più. Caty tremava, sembrava sul punto di svenire. Aprì la bocca come per gridare, ma non uscì alcun suono se non un orrido lamento.
Biiip… biiiip…biiiip…
Il ritmo di quel suono meccanico rallentò, cosa che poteva significare una ed una sola cosa. Si avvicinò al letto, ben sapendo cosa avrebbe visto. Un medico imprecò, segnale dell’ammissione della sconfitta.
Biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip…..
Un unico, lunghissimo trillo anticipò l’urlo disperato di Caty. Mark sgusciò tra i medici. Vide lì il cadavere di una bambina, una piccola e tenera entità che non poteva avere più di un anno.
“Ora del decesso?” chiese il medico.
“Otto e ventitre” rispose uno degli assistenti, osservando il suo orologio.
Il medico annotò quanto detto su un foglio, che Mark non poté non leggere. Il nome del paziente, segnato in alto, era chiaro.
Miriel Hardy.
Mark, senza più ombra di dubbio, capì che quella che aveva appena visto morire era sua figlia. Non seppe capire perché la ricordava con un nome diverso, quel nome poi. Ma non aveva voglia di pensarci. Sentiva un senso di vuoto dentro di sé che lo prosciugava e lo inghiottiva come un buco nero. Nulla sembrava avere più importanza di fronte a quel dolore immenso, tanto forte da non portare con sé tristezza, ma distruzione, una bieca distruzione di tutto ciò che un uomo, un genitore può provare.
 La scena si distorse ancora, proiettandolo in nuovo ricordo, ammesso che fosse un ricordo e non una fantasia od un sogno. Era una stanza grigio scuro, illuminata in maniera debole da una  piccola lampada che si trovava sopra un lettino. Una neonata, all’ interno della piccola struttura di legno, gemette. Mark si avvicinò per guardarla meglio, bramando almeno un’immagine stabile e chiara di sua figlia da viva. Si sporse per guardarla bene, vedendo quel piccolo frugoletto dai capelli biondi ed il naso leggermente schiacciato.
La piccola dormiva, ma Mark ebbe un dubbio improvviso, che colpì la sua mente come un pesante maglio da guerra. Sollevò la bimba, stringendola solidamente fra le mani. Miriel, che già sembra in procinto di svegliarsi, aprì molto lentamente gli occhi. Quello che Mark vide gli tolse il fiato, lasciandolo paralizzato mentre pesanti lacrime rigavano il suo volto. I due occhi che lo fissavano erano di colore diverso l’un dall’altro. Azzurro il primo, verde il secondo. 
   
 
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