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Autore: kanagawa    07/11/2015    1 recensioni
Lentamente, tutto si sbriciola, pezzo dopo pezzo ....
Ci sono delle mattine in cui mi piacerebbe svegliarmi e ritrovarti accanto, mentre il sole solleva i monti dietro alla livida alba nordica.. La mattina che mi svegliai e non c’eri, compresi che cosa fosse la solitudine. Non ti cercai. Tutto ciò che feci, fu di ritrovare la strada di casa. Perché di quella libertà pura e corrosiva che tu ami tanto, io, non sapevo che farmene.
I giorni di gioia e perdizione, bruciati lungo quel tratto di strada selvaggia, dove non c’era nulla... tempo, linguaggio, umanità; nulla. Il respiro di una natura sferzante e incontaminata che sulla pelle sapeva infliggere carezze terribili, e ad avvolgere ogni cosa, la nebbia.
“Incontriamoci tra dieci anni, Maki. Io ti aspetterò al solito posto.”
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[Edit capitolo 3 e 6]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenji Fujima, Shinichi Maki
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Light from a dead star'
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Warning: Non dovrei imbarazzarmene ma il rating rosso non è mai stato il mio forte.
 




Forse lui non se ne rendeva conto.
Non capiva perché le persone trovassero anomalo il loro… legame. Per lui era semplicemente un rapporto d’amicizia intrecciato lungo gli spogliatoi del palasport, dopo le partite… Eppure, pian piano, il mondo intorno aveva cominciato a mormorare.
Lui lo sapeva benissimo. Ma era abbastanza maturo -e fin troppo astuto- da riuscire a capire che non era necessario sbilanciarsi davanti a certi rumori di fondo, a meno che non vi fosse stato un precipuo interesse in gioco… E ci sarebbe invero da domandarsi, a questo punto, perché mai quella stessa intelligenza levigata non gli fu di leva per sollevare il peso capovolto dell’evidenza?
 


In classe faceva decisamente caldo, ma non aveva voglia di migrare verso l’ala refezione, uno dei pochi lidi provvisti di condizionatori nella scuola e ragionevolmente preso d’assalto nelle ore ad esso consacrate. Perciò aveva trascorso la pausa pranzo in ammollo nell’afrore della giovinezza, armato del terzo volume di matematica avanzata e incomputabili sospiri; del resto, con i campionati imminenti, non trovava mai tempo per studiare.
Fu in quel frangente, che un compagno di classe gli fece notifica di una visita. Emerse appena lo sguardo dall’oscuro abisso delle funzioni integrali che scorse sulla porta il sorriso del kohai.  «Cos’è, ora vi date il cambio, tu e Kyota?» Sollevò un sopracciglio di valutazione, vedendo la sua figura irraggiarsi sempre più nell’avvicendarsi dei passi che lo portarono in fondo all’aula, dove il suo banco costeggiava penultima le finestre. «Lo sai che è solo preoccupato per te.» Maki si tolse gli occhiali da lettura che poi posò con calma tra le pagine del libro. «Come vedi, io sto benissimo.»
Jin lo considerò per alcuni secondi, in silenzio. «…Takato-sensei è molto in ansia, e tutti noi pensiamo che….» Il capitano fece uno strano guizzo sulla sedia, scalpitando sui talloni. Si massaggiò le tempie con insofferente rassegnazione. «Non ricominciare con questa storia… Ti faccio notare comunque che non è affar tuo, e poi c’eri anche tu--» Jin si sporse sul tavolo. «Maki, ti sei fatto quasi investire da una macchina!» L’orologio appeso al muro mancò di un secondo. Stavolta, toccò a lui starsene zitto.
Non cogliendo in lui altri segni di vita, Jin riprese a parlare. «Magari certi discorsi di Nobunaga non erano poi così smodati; il fatto è che tu ti comporti in modo strano quando c’è di mezzo Fujima-san, e lo so che finora non mi sono mai espresso, ma… Dopo questo.» Calò le ciglia in un velo d’ombra.
 “Devi darci un taglio.” Gli aveva detto allora, molto conciso. Raramente, il sorriso abbandonava il volto etereo del suo kohai, e quella, era stata certamente una delle scarne volte in cui lo aveva visto con un’espressione tanto perentoria.
 
Quel pomeriggio gli aveva chiesto un passaggio e si era fatto scarrozzare sul sedile posteriore della sua bici fino al cancello del Liceo Shoyo, dove Jin era rimasto in attesa insieme a lui, ben sapendo che era andato per incontrare Fujima.
Doveva assolutamente parlargli. Erano trascorse due settimane e lui continuava a non volerlo vedere. E quando avevano vinto contro lo Shohoku la cosa era anche peggiorata, ora si limitava a sbattergli il telefono in faccia.
In mezzo al corteo di studenti prosciolti dalle lezioni, aveva scorto la sua figura. Gli era andato incontro e si erano messi a discutere dopo qualche secondo; ma non si riusciva a sentire il contenuto del loro discorso che continuava a proliferare tra la folla. Poi Fujima lo aveva scacciato malamente e, tutto scazzato, aveva preso a percuotere il lastricato alla direzione del viale trafficato. Maki gli era corso subito dietro, pregandolo di fermarsi, ma senza evidenti risultati. «Mi spieghi perché ti comporti così?!» Gli agguantò un braccio in mezzo alla strada, costringendolo a voltarsi. «Và pure a fotterti lo Shohoku, visto che ti è piaciuto tanto, e lasciami in pace!!» Lo sguardo folle di rabbia, con uno strattone, si liberò bruscamente dalla sua presa e aveva ricominciato a correre. In quel momento, il semaforo aveva lampeggiato. Jin, che a tratti li perse quasi di vista, sobbalzò lasciando cadere la bicicletta.
… Non si accorsero in tempo. Una frenata acuta li fece ripiegare. Maki urtò di striscio contro il cofano, mentre Fujima aveva evitato di pochi centimetri la curvata brusca dell’auto. Dopo pochi secondi di shock congelato, era scoppiato il putiferio davanti alla scuola. Ma alla fine non era successo niente, solo un gomito sbucciato e tanta paura.
 
… E anche quella volta, come subito dopo l’incidente, con quel solito tono disinvolto aveva sminuito tutto, riponendo un sorriso di imperativa diplomazia, tipico di quando voleva mettere un punto al discorso. Anomalo? … No… Semplicemente, inquietante.
«Ti ringrazio delle tue premure, Jin, ma non c’è davvero nulla di cui preoccuparsi.»    



 
Vägen hem 2582,418 miles 


"Se io non vengo, tu parti lo stesso?"
"Sono già partito."
[C. McCarthy, Cavalli Selvaggi]
 

Cos’era … un amico?
 
Aveva impressione di non comprendere fino in fondo la genesi di un lemma tanto invalso; era come certe particelle imparziali dell’universo semantico, così giuste e cristalline da ispirare ambiguità. Ricordava di aver scritto un tema di giapponese in prima media, su questo argomento, ricavandoci peraltro un gran bel voto in pagella; la maestra l’aveva lodato, ma in verità, nemmeno lui sapeva cosa ci avesse scritto di preciso… Ah, già. Aveva parlato di suo padre.
Ryuichi, primogenito della famiglia Fujima. Scapestrato come pochi, sempre col naso all’insù a fissare il cielo, chiamato perciò ironicamente da suo fratello Ryuji “testa tra le nuvole”, aveva sempre avuto una passione smisurata per le stelle. I Fujima possedevano fin dall’antichità molti terreni, che da generazione a generazione erano andati aumentandosi fino a raggiungere l’attuale ricchezza del patrimonio. Vivevano tutti e quattro -domestici compresi- nella grande villa di famiglia, ereditata dal bisnonno che l’aveva fatto costruire sul disegno di un antico palazzo neoclassico italiano. Kenji non sapeva che nel periodo in cui visse insieme allo zio, gli fosse stata assegnata proprio la stanza che una volta fu di suo padre: si trattava naturalmente di una casa enorme, con lunghi corridoi che si alternavano tra zone di luce e quelle di ombra, bassorilievi in candido marmo di Carrara, le tende di mussola che frusciavano bianche e leggiadre al vento, filtrando viste verdeggianti sul giardino spaziato da grandi cipressi, abeti e macchie di aceri rossi; e tutto questo, nel bel mezzo della prefettura di Kanagawa.
Mentre Ryuji frequentava Legge alla Todai, come era tradizione per tutti i membri maschili della famiglia, Ryuichi, con due anni di ritardo, scelse la facoltà di Astronomia; e appena ebbe possibilità, se ne andò all’estero lasciando le redini della famiglia al fratello minore. All’epoca, doveva averlo incolpato molto, ma Ryuji non era in grado di opporsi al volere di Kenzo Fujima; del resto, lui che era sempre stato posto in secondo piano a causa del fratello, era stato più che soddisfatto così…
Ryuichi visitò diversi avamposti scientifici, nel suo giro intorno al mondo insieme a un equipe di ricercatori, e in Svezia aveva conosciuto sua moglie. L’aveva vista la prima volta a Capo Nord, mentre osservava l’orizzonte offuscato, e la seconda, sulla seggiovia di Abisko. Kristin, i lunghi capelli biondi raccolti in un berretto di lana, e quel sorriso abbagliante come una carezza di sole che scioglieva il gelo della notte polare…  Anche allora, ciò che lo colpì di più, fu il fatto che stesse fissando le scie danzanti dell’aurora boreale con il naso all’insù senza muoversi, per ben mezzora, finché le guance non si erano congelate ad entrambi: allora, si guardarono, accorgendosi dalla reciproca presenza, ormai i soli spettatori del cielo, e si erano sorrisi. La sua espressione rapita e quegli occhi risplendenti nel buio delle luci inafferrabili e sussurranti che mutavano di secondo in secondo… Per Ryuichi, rimasero un ricordo prezioso e indelebile di quella notte.
La terza volta, incredibile a dirsi, si incontrarono lungo il sentiero di Kungsleden mentre era di ritorno dalle pendici del Kebnekaise, e lei andava alla direzione opposta … Fu allora che Fujima decise di fare dietrofront e ripercorrere i 150 km appena fatti con gli scarponi infangati ai piedi, con la sola pretesa di poter conoscere il suo nome. Si sposarono a Kiruna.
Un mese e mezzo di storia d’amore sfociata tra i ghiacci dell’estremo nord. All’epoca erano molto giovani e si somigliavano tanto, entrambi impulsivi e passionali. Kristin era una fotografa paesaggista, originaria del Svealand, naturalmente si trovava ad Abisko per un incarico. Subito dopo la cerimonia -una cappella di ghiaccio, un prete e due colleghi dell’EISCAT * come testimoni-, erano dovuti partire entrambi a causa dei reciproci impegni. Kris scoprì di essere incinta quando era tornata a casa dopo due mesi, ma Ryuichi non era più in Svezia. Si tennero in contatto costante in giro per il mondo e si videro più spesso che poterono, quando il lavoro lo permetteva, tra Tokyo e Stoccolma. Stranamente, fu un periodo molto felice …
Da piccolo, a Kenji piaceva tanto farsi raccontare del posto in cui era nato, quasi che fosse una fiaba prima di addormentarsi. E mai, sul volto di suo padre, aveva scorto un livido  di dolore, mentre glielo narrava… Tutte le volte, lui sorrideva, sorrideva sereno e pieno di orgoglio, sebbene quelle circostanze non rappresentassero solo un evento felice per la sua vita, poiché coincisero anche con la morte di sua moglie.
Al penultimo mese di gravidanza, Kris si trovava in Africa. Certamente, non fu una buona idea … Era rimasta bloccata per via di un’influenza, durante un set fotografico che aveva accettato nonostante le sue delicate condizioni e… Purtroppo, al momento del parto, il suo corpo già logorato dalla malattia non fu in grado di far fronte all’evento. Era una donna temeraria che non si sarebbe fermata davanti a niente pur di inseguire un’ideale e di proteggere ciò che più amava, Ryuichi lo sapeva meglio di chiunque altro… Con un mese di anticipo, Kenji vide la luce sotto il rovente sole del continente africano, e sua madre con un ultimo impulso della sua infinita forza gli fece il dono più prezioso di questo mondo, gli regalò la vita. 
All’ospedale di Algeri, quando li portarono, madre e figlio, entrambi in fin di vita, Fujima finalmente era riuscito a raggiungerli. Uno solo, sopravvisse. Lo aveva preso in braccio, con il cuore a pezzi, pensando a questa nuova vita che stringeva tra le mani … La vita che si era scambiata a quella di Kris. E sentiva, che era amore.
Kenji era cresciuto con gravi problemi di salute, essendo nato prematuro, aveva passato i primi mesi di vita chiuso in una piccola teca di vetro. Ma alla fine ce l’aveva fatta.
Portava i capelli biondi, gli stessi della madre e quegli occhi … Blu, come il cielo limpido e incontaminato del nord, tutte le volte che li guardava, Ryuichi ricordava la sua amata Svezia, terra dove aveva trascorso giorni fieri e indimenticabili, la terra di Kristin.
 
“Se devo proprio dire uno, allora forse è mio padre.
Non si capisce come mai a volte la nostra famiglia si ritrova a rivestire un ruolo tanto differente, quello del migliore amico. Lo è sempre stato, fin da quando sono nato, e sempre lo sarà. Sebbene, ci sono giorni in cui mi auguro di non dover affrontare la sua debolezza e il suo dolore, per quanto sia egoistico. Ma so che lui è forte, in fondo, e non si arrenderà facilmente: perché questa stessa forza mi è stata insegnata da lui.
E con la devozione di un figlio e di un amico, saprò prendermi cura di lui.
Kenji Fujima. Sezione 2, primo anno.”
 
 
Ormai, Fujima doveva aver già scordato quelle parole. Ma ancora oggi, vi riponeva fede ciecamente.
Di certo, spesso si era domandato da dove venisse… Questo affetto. Un atto morboso e ossessivo che lo consumava, veleno e antidoto al tempo stesso, come se non potesse avere liberazione, ed il legame profondo e la forza di trazione che tutto questo attirava, sistematicamente, in una spirale di inevitabile meccanica sentimentale…
 

 
 
 

In quei due giorni, era stato faticoso alzarsi e andare a lavorare.
Dalle stecche delle persiane, l’alba filtrava con una dolcezza quasi fastidiosa. Con gli occhi già aperti in sua attesa, Maki se se stava disteso immobile nel letto a due piazze. Si preannunciava un’altra giornata di mal di testa crivellante …
L’unica consolazione del mattino era il caffè. Dopo essersi riempito due tazze piene, era seduto in cucina a leggere il giornale. La cravatta abbandonata sul tavolo, gli scocciava annodarsela. Dall’atrio, sentì il familiare tintinnare di un mazzo di chiavi, quando una voce femminile si annunciò «Sono tornata, amore.»
«Ancora bevi quella roba?» Entrò a passo scattante in cucina e posò, senza tanto riguardo, due borse stracolme di spesa sul tavolo; dandogli un bacio veloce. «Sì. Come è andato il viaggio?» Noriko si raccolse i lunghi capelli scompigliati e si accasciò su una sedia accanto a lui. «Fiuu… Sono distrutta. Bene, i miei dicono che verranno un giorno prima per darci una mano.» Maki annuì, svuotando gli ultimi sorsi nella tazza e la mise nel lavello, mentre apriva il rubinetto. Con dei movimenti circolari la risciacquò, le maniche della camicia rimboccate a mezzo braccio. «Ottimo, però dall’Hokkaido… Non sarà un problema? Potrebbero stare a casa dei miei genitori nel frattempo, e magari farsi un giro per Yokohama e Tokyo dopo la cerimonia.» Intanto che rovistava nei cassetti per mettere in ordine i soliti prodotti locali portati dal suo paese natale, Noriko fece sì con la testa. «Lo penso anch’io, ma hanno insistito tanto. Certo che già siamo stracolmi di lavoro, tra una cosa e l’altra ci dobbiamo pure sposare … Un paio di mani in più non lo riterrei proprio un male.» Maki rise, e si andò a mettere la giacca per uscire. «Hai ragione. Oggi che fai?» Silenzio. «Mh?» Si affacciò nuovamente, per rintracciare una risposta che forse gli era sfuggita tra le pareti. Noriko si voltò e gli sorrise riluttante. Due splendidi occhi nocciola si fecero sottili e solo allora si accorse che era un po’ pallida in viso. «Ho un piccolo affare da risolvere, quindi sarò in giro.»
«D’accordo.» Le rimandò il sorriso.
Maki chiuse la porta di casa alle spalle, e vi rimase appoggiato contro per pochi secondi ancora. Sospirò, strinse forte il manico della la valigetta in pelle, e pesante mosse i passi verso l’ascensore.
Fuori, il sole faceva capolino tra i grattacieli.
Ci sono giorni in cui buttarsi a capofitto nel lavoro poteva essere l’unica soluzione. Almeno, non doveva occupare la testa con altri pensieri che non fossero carte e progetti… Non si ricordava di quanti caffè avesse preso in quei giorni. Durante le pause il suo collega, Sugimoto -col quale andava sempre a pranzo-, lo veniva a ripescare dalla scrivania e insieme andavano alla saletta per farsi due chiacchiere, poi passavano le segretarie a portare altro tè e caffè, cosicché, tra una tazza e l’altra, la giornata lavorativa si concludeva. Praticamente, non dormiva quelle notti. E non era per la caffeina… «Insomma, tra un po’ dovresti darti una regolata, Maki … Che ne dici di un bel addio al celibato?» Fece il collega accanto alla finestra, il filo di fumo della sigaretta che ascendeva sinuoso contro un cielo nuvoloso. Sotto, a 30 piani di distanza, il traffico cittadino risuonava in uno spartito intermittente e scoordinato. Maki sbuffò. «No, lascia stare. Quello di Oomura mi è bastato.» E lui rise, dopodiché un vicino sopraggiunse. «Pare che sua moglie lo abbia messo alla porta dopo quel piccolo disguido a Ginza…» Altre risate ancora. Aveva riso anche lui, ma era come se non fosse lì, proiettato fuori dal proprio corpo.
Aveva la testa da tutt’altra parte …
Appena scendeva la sera, il quartiere di Shinjuku esplodeva di scenografiche illuminazioni e i palazzi riversavano sulle strade fiumi di impiegati. Il cielo che volgeva al tramonto, acceso di tenue rosa e audace arancio, la cui delicatezza nessuno pareva far caso. Si camminava, in un frastuono umano incredibile, come di milioni di motori accesi; si raggiungeva la metropolitana più vicina, oppure si prendeva la macchina, augurandosi nel caso di non trovare ingorghi.
La città era cresciuta come una foresta. Una luna pallida, svettava tra le creste delle sue cime più splendenti. Ma nulla si muoveva.
Non bisognava fermarsi. Se ci si fermava un istante, si era perduti. Perché in quel singolo attimo, si poteva correre il rischio di venire assaliti dal dubbio e dall’orrore, e sarebbe stata la fine.
Alla domanda “sei contento della tua vita”, Maki, non aveva saputo rispondere. Benché la risposta, dentro di sé, la conoscesse già da tempo. Ed era proprio lì, in un qualche punto imprecisato e inenarrabile sospeso in mezzo alla folla di Shinjuku, quando cala il sole…
Spesso, in momenti come questi, aveva pensato a Fujima.
 
 
Benché sia ora così lontano da casa, quelle forme mi permangono nitide, tuttora.
Sotto il cielo di Tokyo, in mezzo a una folla sussurrante, ogni singolo dettaglio si accendeva e ognuno di essi portava il tuo nome.
 
Quello spigolo di monti da cui il primo raggio di sole filtrava, sulla fiancata immersa nella bruma azzurra del mattino, un fascio di oro infuocava le cime degli arbusti sempreverdi. Allora, sentivo le punte della tua frangia farmi solo il solletico, poiché la pelle assopita non rimembrava ancora il significato di una carezza… Ricordo come era difficile, il risveglio accanto a te…
 
Torna da me, Fujima; solamente questo ti chiedo.
 
 

 
 

Era meglio così, alla fine. Se lasciava le cose così com’erano, col passare del tempo, tutto sarebbe nuovamente scomparso. Come sette anni fa. E lui, poteva finalmente ritornare alla sua solita vita. Già…
Noriko era di nuovo a casa, e questo, un poco lo aiutava. La sera lei gli preparava la cena, mangiavano insieme e poi il tempo passava con un po’ di lettura, oppure davanti a un bel film. I pensieri così si dileguavano, e con essi, i suoi dubbi. Era come vivere dentro a un enorme bolla di serenità, una quotidianità iridescente, irreale, e stranamente dolce. E in fin dei conti, andava bene così…
Fujima era sempre stata la scelta sbagliata nella sua vita, la meno ponderabile e la più sconsiderata. Non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di affrontare un’altra volta questa battaglia, il suo inferno personale. Se sarebbe potuto sopravvivere... Avrebbe solo voluto porre fine a questo legame. Tagliare i ponti una volta per tutte col passato e questo male intossicante. Razionalmente era certo di stare facendo la cosa giusta, eppure, per qualche ragione, non riusciva proprio a convincersene...

«E con questo abbiamo concluso! Grazie a tutti per il vostro impegno!»
Tutte le volte era come diplomarsi, e nello scroscio di applausi auto-congratulanti, forse qualcuno avrebbe osato anche lanciare in aria qualche cartella, ma nessuno se lo permise davanti alla testa pelata del dirigente. «Fiuu… Meno male, eh, Maki-san?» Lui annuì e andò a sederci un po’ spossato davanti alla propria scrivania, massaggiandosi gli occhi tra due dita e si allentò la cravatta. Mentre il resto dell’ufficio festeggiava ancora, aprì di nuovo il portatile e riprese a battere i tasti, come nulla fosse. Un collega gli si avvicinò e si appoggiò alla fiancata del tavolo. «Dai, piantala di fare lo stacanovista. Guarda che la promozione non arriva mica per somma di ore lavorative!» Lo fissò sereno in volto e gli sorrise. «No, è che voglio accumulare più ore possibili… Per le ferie di nozze, sai…» L’altro annuì. «Capisco… Dove avete scelto di andare?» Maki fece per guardare il calendario digitale. «Okinawa per cominciare, poi…» Osservando la data, si era improvvisamente bloccato; in quel momento forse gli venne un dubbio … «Kaname-san, che giorno è oggi?» «Il 23, perché?»
Maki rimase immobile sulla sedia.
Rigido lo sguardo davanti allo schermo luminoso, nel tremolio delle iridi che parvero di colpo divenire irrequiete. «Maki-san, c’è qualcosa che non va?» … No … Nulla … che non andasse. Era il 23 del mese e tutto filava come al solito… Perfettamente. «Maki-san…?» Si sentì chiedere una seconda volta. Maki alzò di scatto la testa. Ora, nei suoi occhi si distinse inequivocabile una tinta leggera di panico. «Io…» Pensò a una giustificazione, ma fu troppo veloce e i suoi pensieri non seppero seguire altrettanto rapidamente i suoi passi.
Andò a prendere il soprabito e cominciò a infilarci dentro un braccio, e mentre il collega lo guardava ancora chiaramente confuso, gli fece «Senti, io…» Si morse nervosamente il lembo inferiore delle labbra, lo sguardo un po’ sconvolto che deviò e ritornò ancora sulla sua figura. «…Coprimi, ok? Ho un impegno urgente adesso, e… Mi dispiace tanto!» E non seppe dire di meglio; spolverò un debole sorriso e come per rafforzare il messaggio gli strinse con complicità un braccio. Una pacca sulla sua spalla e fuggi via, mentre il resto del dipartimento festeggiava ancora.
Sulla scrivania, il portatile abbandonato era rimasto acceso…
 
 
Averti o meno accanto a me, in questa esistenza, forse, non ha in realtà molta importanza… La verità è che siamo tutti soli, qualunque cosa accada. Io per primo, ne sono consapevole. Ma il fatto è che non riesco a fermare i miei passi ora, e questo, non so spiegarlo a parole … “Resta con me. Resta per me. Non te ne andare” questo, era tutto ciò che avrei voluto dirti, sette anni fa.
Forse, collidendo, i pezzi di cuore finiscono per rimanere conficcati nel cuore dell’altro.
Questo egoismo, potrebbe mai meritare perdono?
 
 
 
… Forse me ne pentirò per il resto della vita.
 
 
Quando arrivò, ansimava. Quel giorno non aveva la macchina, sempre il momento meno opportuno per conoscere le scomodità della metropolitana …
Non si sentiva nemmeno un fruscio in giro, ed era più che naturale. Bussò alla porta, ma non rinvenne risposta. Allora l’aprì, lentamente… Era pomeriggio tardi, c’era ancora luce, fioca e diffusa che rischiarava i quattro angoli di quello spazio arioso e completamente vuoto. Non c’era più niente. Maki entrò nell’appartamento abbandonato, con una singola dilaniante occhiata che abbracciava l’intero quadrilatero e gli bastò per capire di essere arrivato troppo tardi. Abbassò il capo, sconfortato, ma solo allora si accorse di un’ombra accanto alla porta …
Con un sussulto si voltò.
Era lì, appoggiato contro il muro accanto all’entrata; ai suoi piedi, una borsa e una valigia... Non riusciva a vedere la sua espressione, ottenebrata dalla zona d’ombra.
«Che cosa ci fai ancora qui? Non dovevi essere già partito?» Lo chiese quasi con rabbia.
Le braccia raccolte che si cingevano a vicenda allora ricaddero lungo i fianchi, lievemente il viso deviava e le labbra di Fujima parvero dischiudersi, restie. «Io…» Non riuscì a dire altro, e nell’intento le guance si tinsero di rosso.
Allora Maki fece per andare verso di lui e gli sembrò furioso in quei brevi passi energici, eppure su quel viso non colse altro che il livido di un’incipiente esasperazione. La bocca si serrava fino a divenire esangue e le sopracciglia contratte. «Scusami…» Scuoteva il capo in quel lieve tremore mentre lo ripeteva «Scusami. Ma non posso…» 
e Fujima se lo trovò a un palmo dal naso, senza nemmeno aver compreso appieno le sue parole; sentì le sue mani calde intorno alle guance, avvolgerle, e un soffio di labbra si prese le sue, con foga e precipitazione. «...Non posso più aspettarti ancora.» 
Tempo di assestare che quanto era accaduto, irreparabilmente, nell’istante realizzò la disperazione di quel bacio. Le dita si tesero per aggrapparsi al colletto allentato della sua camicia, si alzò in punta di piedi, la coscienza tremava… Lo sentì mugolare e le sfiorò con maggior veemenza. Un bacio che non lasciava spazio agli indugi del respiro. Fujima strinse gli occhi, costringendo le lacrime di rimanervi confinate…

Fu tutto piuttosto veloce.

Forse era stato Maki a levarsi per primo la giacca, provvedendo poi anche ai suoi indumenti… Lo vide sfilarsi la cravatta con uno strattone piuttosto provocante, intanto udiva il suono metallico di una fibbia che veniva sganciata; si guardò con ansia in basso, e sorprese smaniose le proprie mani sulla cintura di Maki. L’apertura dello zip produsse un rumore secco nell’aria.
Nel tentativo confuso di raggiungere la stabilità di un giaciglio poco lontano, si erano ritrovati a inciampare sopra un intreccio di gambe e scatoloni. Maki sentì il proprio baricentro venire meno di fronte al peso di Fujima che gli si appressava contro, trascinandolo giù con sé, sul nudo pavimento di piastrelle consunte, senza mai smettere di baciarlo un solo istante. Maki estinse una smorfia di dolore misto a irritazione sulle sue labbra, il fondo schiena pulsante di rancore inespresso e un palmo abraso. Si aggrappò maldestro al bordo di un cartone per sollevarsi, ma anche questi finì per crollare sotto la pressione delle sue dita forti, accartocciandosi e strappandosi, inerte.
Non arrivarono mai fino al letto.
Fujima si morse il labbro, abbassando la fronte imperlata in un nugolo di freddo sudore, e ansimò una seconda volta. Tremante il pugno serrato veniva sbattuto con resistenza, ma lo voleva, ne voleva ancora. Non si era accorto dell'acuto gemito emesso da Fujima, nell'istante in cui lo forzava a prenderlo dentro di sé, lì sul pavimento, in quelle circostanze scabre, dopo una stentata preparazione che sapeva fin troppo ingenua, e lo sentiva stringersi intorno, ostile, l'anima corrosa di sanguigno piacere.
Una mano a cingergli la carne cedevole sul fianco, l’altra si impuntava a terra. "Kenji…” si lasciò sospirare, Maki, disconnesso. Un lungo brivido gli percorse la schiena, quando sentì quel nome risuonare nei suoi ansiti, di tale dolcezza e atrocità. Sottile, fu la goccia di piacere che si sciolse nel dolore cementato, svanendo, confuso e intermittente, per tornare ancora alla rimonta, seconda, terza, ondate su ondate, scintille elettriche condensate in tempesta, sempre più intensa, sempre più furiosa…
Lungo le pareti, sospiri scabrosi come mugolio di bestie.
Il minuto e mezzo più lungo della sua vita, ma era durato fin troppo. Avrebbero potuto cedergli le gambe e le braccia, comprese che sarebbe stata imminente, la fine. “Forse me ne pentirò per il resto della vita.” Maki venne con un gemito gutturale e lui subito dopo, affondando il viso tra due pezzi di stoffa che stringeva nelle mani.

“… Per il resto della vita.”
 
 
 


Una macchina passò sotto la finestra, a rintracciare l’esistenza di una strada asfaltata, in capo al mondo; per il resto, quiete e sigarette. Superate le inferriate, la sera si era appena tesa verso le piante dei loro piedi nudi.
La morbidezza un po’ dismessa di un materasso di fortuna abbandonato in un angolo. Un braccio che vi sporgeva languido, era sdraiato a pancia in giù e lo fissava ora con lo sguardo mitigato, interminabilmente. Fujima tese la curva giugulare del collo e fece involare lascivo uno sbuffo di fumo dalla bocca. Aveva aria soddisfatta e indifferente allo stesso tempo, perfettamente a proprio agio nella nudità disinibita; si voltò e lo fissò a sua volta, sorrise. Maki puntellò il gomito, e si stese su di un fianco, sfilandogli la sigaretta tra le dita. Lo osservò sogghignante e vagamente incuriosito, «non ricordavo che fumassi...», e gli sembrò come di avere un dejavu; sì che lo sapeva. Maki, aspirò il profumo del tabacco con una certa compiacenza. «… Ho smesso di farlo quando sono andato a vivere da Noriko. A lei non piaceva.» Ed esalò al contempo una miscela tossica d’impertinenza e nicotina, come per sottolinearsi. Fujima lo considerava in silenzio, con quel mezzo sorriso sospeso pieno di sottintesi, poi gli disse all’improvviso. «Andiamo a fare due tiri, ti và? Come una volta…»
E Maki non si fece pregare.
Giù al cortile, il cielo volgeva al tramonto, ogni canestro vi rimbombava contro fragorosamente. Aveva perso un po’ la mano, negli anni d’inattività; ora, per mirare alle traiettorie doveva tenersi pronto alla possibilità di sbagliare. Ironico, quanto fosse vero anche nella vita … Non c’erano più divise, né orgoglio o rivalità di sorta; ora, erano davvero solo due ragazzi -un po’ cresciuti- che giocavano a basket insieme. Ed erano ancora i due migliori playmaker di Kanagawa, senza il minimo dubbio …
A un certo punto, in mezzo al campo, Maki si era fermato. Il pallone sospeso tra le mani. L’espressione inchiodata a terra, lo fece rimbalzare ancora due volte e lo riprese. «Fujima … C’è una cosa che non ti ho detto. Io …» E qui, il fiato grave sembrò raccogliersi intorno alla sua reticenza ... Kenji lo fissava in attesa e aveva impressione che, in qualche modo, sapesse già. «Io … Mi sposerò tra una settimana con Noriko.» Sì, lo sapeva già, lo comprese nell’istante in cui aveva levato la fronte e incrociato il suo sguardo indefinibile puntato su di sé. Ma non lo accusava.
Perché?
Fujima aveva deviato lo sguardo di appena pochi gradi, all’ombra delle ciglia decrescenti, la sua pelle rimandava i riflessi robbia del crepuscolo. «Sei libero di fare quello che vuoi, Maki … Non esiste nulla e nessuno al mondo che possa giudicarti, ora.» Disse tra le sue labbra tese in un filo di sorriso. Gli occhi brillavano sereni. «A ogni modo se ti preoccupa che io possa dire a …» «No!» Lo intercettò subito, intuitosi del piccolo malinteso; si sentiva un verme. «Non era questo …» Abbassava nuovamente lo sguardo leso di colpevolezza e Fujima gli annuì in consonanza. «Quello che è successo è stato bello, Maki, ma non siamo obbligati a legarci per forza. Ci siamo incontrati ancora e siamo stati bene insieme; e questo è quanto, per quel che mi riguarda … Siamo ancora noi stessi, ora, come vedi, e questo non cambierà, neanche in un lontano futuro.»
Durò tanto quel tratto di oscurità sospesa che faticava a cedere il peso sul mondo … E tutta a un tratto, piombò la notte. Da qualche parte verso ponente, sulle acque ancora infuocate, un transatlantico lasciava silenziosamente il porto illuminato di Yokohama …
Tra i palmi, Maki aveva stretto quel vecchio pallone da basket per tutto il tempo, senza mai lasciarlo.
 
 
 
 
 

Le coltri di nubi ricoprivano il cielo, quando Noriko varcò le porte scorrevoli all’uscita dell’edificio ospedaliero. Il volto era traversato da un flusso di felicità, nel vento fresco del primo autunno; sospirò e si strinse nel suo trench beige, incamminandosi verso il viale trafficato dove avrebbe chiamato un taxi.
A metà discesa delle autoambulanze, appoggiato contro il parapetto, trovò un sorriso aitante e vagamente riconosciuto ad aspettarla. Le porse un cenno con la mano e le venne incontro con fare fortuito, «buongiorno.»
«Nobu-san! Che sorpresa, cosa fai da queste parti?» Il ragazzo le schioccò un’occhiata furbesca, da flirt innocente, facendo spallucce. «Passavo per caso …» La scusa più vecchia del mondo, ma lei non trovò motivi per serbarvi sospetto. Lo conosceva da un paio d’anni e ogni volta che si vedevano, nelle uscite con il suo fidanzato, lui sembrava provarci; a lei però non aveva mai dato fastidio questo, lo trovava garbato e estroverso. «Allora come vanno gli studi? Facevi Scienze Veterinarie, vero?» Lui annuì. «Mi mancano un paio di esami.» E lei aspettò altre considerazioni che però parevano non esserci. «Bé, allora…» Ci accinse a salutarlo, ma fu interrotta. «No, in realtà … Volevo chiederti un consiglio …» Nobunaga si spostò una ciocca corvina dietro l’orecchio, deviando lo sguardo. «…Non ti ruberò troppo tempo, giuro.» Stirò un ennesimo sorriso affettato e la invitò a bere un caffè in un localino dietro l’angolo.
 
Dall’altra parte della città, nel medesimo istante, Soichiro Jin mise giù la cornetta, con un sospiro. Dopo 3 chiamate a vuoto, avvertiva una leggera ansia dentro di sé e si chiese se avesse fatto bene a riferirgli quelle cose, il giorno precedente. Ci si era rigirato sopra per tutta la notte e si era convinto che forse non era proprio una preoccupazione futile … Conoscendo il soggetto e le implicazioni in gioco.
Forse quel suo fare l’occhio onnisciente andava ben oltre le sue medesime capacità di controllo… «Ti prego, non fare sciocchezze, Nobunaga.» Disse inquieto, guardando il telefono immobile sulla scrivania.
 
 
 
Quella notte Maki tornò tardi a casa, ma non c’era nessuno ad attenderlo.
Il letto vuoto e le lenzuola ordinate, come le aveva lasciate quella mattina … Noriko non era ancora rientrata.






 

let me pull the last string for the last time,
for the last time
with all your worries you're standing so still
let me come and see for the last time,
for the last time...
 
 
 
 
 


«Lo faccio solo per il bene del mio senpai, lui non sa quello che fa … Noriko-chan. Non mi odiare, ma le cose stanno così.»
 
Maki si svegliò con la luce negli occhi, era domenica. Una bella domenica mattina, inondata di sole.
Si voltò dall’altra parte del letto, ma non ci trovò nessuno; il cuscino rigonfio, sazio di un biancore abbagliante. Strisciò verso il piccolo bagno annesso alla camera da letto e si sciacquò velocemente il viso. Dopo essersi vestito pronto a uscire, andò in cucina a farsi la solita tazza di caffè, e la trovò seduta davanti al tavolo, da sola.
Lei si voltò lentamente.
«Dove sei stata, eh? Non ti ho …» Si accorse del colorito cinereo e dei lividi scuri evidenti sotto gli occhi, indice di un’intera notte insonne. Aveva pianto. «Amore, stai bene?» Maki le si accostò prendendo posto immediatamente di fronte a lei e le tese una mano. Che lei non strinse.
Ebbe un presentimento …
«Che è successo?» Lo chiese comunque, non prestandosi credito e in buona misura ancora candidamente preoccupato. E invece, la udì replicare fredda e atona. «Dimmelo tu …» Il suo viso non mostrava alcun riso d’ironia …. Con molta lentezza controllata, Maki si sedette.
Era successo.
... E altrettanto in fretta, lui ne assestava il colpo; sebbene non si capacitasse di come potesse essere accaduto, nell’arco di una sola nottata e con un tempismo tanto acuminato. Doveva trovare una giustificazione, ora? Pensò … Doveva attaccare con le prime e risolutive scuse, per potersi assicurare così la vittoria in una battaglia di parole che si annunciava dolorosa e ineluttabile? Quante volte si era ritrovato a ragionare contro tempo su simili strategie preventive, a scuola, sul campo, al lavoro, in famiglia, per non dover poi affrontare conclusioni altrimenti disastrose, per avere il tutto sotto controllo. Ma in quel momento, stranamente, non aveva sentito nessun impulso di difendersi …
Sarebbe andato incontro a morte certa, ma non si smosse di un solo passo da quella consapevolezza. E in fin dei conti, gli andava bene così … Sul volto della fidanzata, vide il chiaro segnale di una delusione. «Perché?» Lei si morse le labbra livide. «Perché non provi nemmeno a discolparti?»
«Cosa vuoi che ti dica?» Teneva lo sguardo abbassato, per puro rispetto. E questo riflesso d’indifferenza, per lei, fu la goccia. La dolcezza del suo viso venne incrinata violentemente. Le palpebre compresse mentre scuoteva il capo, e il fiato che le si spezzò sulle labbra contratte. «Non ci posso credere … Come hai potuto farlo?? … Un ragazzo! Sei stato con un …» E la voce le tremò, poiché non ebbe coraggio di concludere quella frase tanto incresciosa e pensare di poterla associare all’uomo che le stava dinanzi. Nel gemito, si portò subito una mano alla bocca. Una prima goccia cadde contro la guancia, poi ne susseguirono altre due … e fu nubifragio irreparabile sul suo volto.
«Dimmi che non è vero …» Lui non rispose. La stanza si riempì di singhiozzi soffocati e intermittenti, e lui immobile si lasciò sommergere  …
Dopo due minuti si costrinse a calmarsi; e ritrovato il controllo, finalmente, lo sentì spiccare parola. «Te l’avrei detto comunque, mi dispiace che tu l’abbia saputo così …» Non fece cenno su chi potesse essere l’informatore, ma si era già fatto un paio di idee … Benché in quel momento fosse un dettaglio irrilevante, e lui non aveva alcun diritto di rinfacciarglielo. Noriko si asciugò le ultime sbavature di pianto, dopodiché prese a parlare, a voce rotta e bassa. «Noi stiamo per sposarci, Shin’ichi… Questa è la cosa più importante, ora. Mi rendo conto che potrebbero esserci ancora delle indecisioni in te, ma questa cosa va risolta in due, non sei d’accordo?» Stava già tentando di rimarginare la lesione… Maki se ne accorse con un brivido, ma non se ne stupì: in fondo era una ragazza tenace e razionale, e lui si era innamorato proprio per questo. «Non è questo, credimi… Forse non sono esattamente la persona che pensi di aver conosciuto. Neanch’io lo credevo possibile, ma….» La vide posare con discrezione una lettera da referto medico sul tavolo; riconobbe la sigla OCH nell’intestazione -Ofuna Central Hospital-, e ne fu interdetto. «….Sono incinta, Shin’ichi.»
… Quello doveva essere il posto meno opportuno al mondo in cui trovarsi in quel momento, tutto quanto, ogni dettaglio glielo stava urlando; con un certo indicibile distacco Maki ne prendeva nota. E nulla di tutto ciò gli sembrava sensato e reale, come se si fosse proiettato nella vita di un altro individuo; solo che per tutto il primo tempo in cui la recitava, non se n’era reso conto …
Non si accorse del silenzio prolungato che aveva emesso dopo la confessione di Noriko, e quando era riaffiorato, l’aveva vista rabbuiarsi ancora una volta e le lacrime ripresero a scendere, atrocemente silenziose e delicate, sul suo viso come una dolce pioggia d’autunno. «Ti prego, non farmi questo.»
Noriko si levò e si tese sull’estensione del tavolo, intenta a raggiungerlo, ma incapace di scavalcare l’ostacolo. «Shin, dimmi che mi ami ancora.» Fu il suo ultimo disperato SOS alla piattaforma remota del suo cuore.
«Ti amo, ti amo ancora, Noriko.» Ed era così. Parole che avrebbero potuto salvarti dagli abissi e colmarti di irreparabile felicità, perché mai risuonavano tanto vuote e malinconiche? Ormai, la disperazione non era più sufficiente… «Ma questo non basta, vero?» Lo fissò dritto negli occhi e lui non abbassò lo sguardo. Comprese che in quegli occhi amati dove una volta trovava rifugio e tenerezza, ormai non aveva più alcun appiglio; e pensando alla vita che avrebbe dovuto accoglierla piena di luce, ma che era stata distrutta, fatta a pezzi proprio ora davanti a lei, ancora prima di potervi intravedere i primi raggi… Scoppiò nuovamente a piangere, e vi pianse all’infinito, su quel tavolo di cucina; finché lui, levatosi con un muto inchino, non se ne andò, chiudendo la porta di casa alle spalle.
 

 
Non esiste nulla che ci tiene legati, Maki, oltre i nostri corpi noi non ci apparteniamo più.
Un singolo pomeriggio come un’intera vita, e tuttavia nulla cambierebbe. Le nostre esistenze sono disgiunte, in ogni cellula, ogni filamento di capello e ogni nervatura di pelle: anche se ci sfioriamo ora, ci feriamo, e ci amiamo strada facendo, alla fine dei fatti non siamo mai stati in grado di toccarci davvero; e qui davanti a te, c’è solo un altro uomo.
Le similitudini ci confondono, è naturale, lo abbiamo sempre saputo. Ma questo non ci rende il medesimo individuo.
Se hai paura della solitudine è meglio se rimani vicino agli uomini … Io, non ne sono mai stato in grado.
 
 
Sapeva che per quanto ci provasse, non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo … Nello sforzo, probabilmente avrebbe accumulato solo dolore e esasperazione, e infine, lo avrebbe perduto ugualmente. Ma ora, c’era un’unica cosa che voleva fare. A costo di perdere tutto ciò che aveva, la sua carriera, l’amore di una donna, la stima dei suoi cari, e la metà dell’esistenza che gli restava ancora da vivere … Tutto quanto a puttane.
Perché tale era il prezzo.
… Il prezzo per avere accanto a sé Fujima.
 
 

 
 

Tra le file dei passeggeri in attesa al Terminal 2, un ragazzo se ne stava da solo davanti alla grande vetrata che dava sul piazzale di sbarco e osservava immobile le ali monumentali di un aeromobile nel suo trafficare silenzioso. Dietro di lui, comparve un altro ragazzo, pelle abbronzata e tracolla in spalla, e un sorriso spigoloso si riflesse contro il bagliore del vetro.
Lui si voltò di scatto con aria sorpresa, un po’ confusa.
… E in silenzio, gli sorrise a sua volta, perché stavolta non c’era più bisogno di dire altro.
“Volo JL7016 Japan Airlines diretto a Los Angeles delle ore 17:25, è ora in fase di imbarco dal gate 42, preghiamo ai signori passeggeri di esibire la carta di imbarco.”








 
Fine Terza Parte_

 
EISCAT: European Incoherent Scatter Scientific Association. Non ho idea del perché e del per come. Omaggio latente a Carl -perché era lui- Sagan. 

 
  
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