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Autore: Rei_    17/11/2015    8 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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«Che stai facendo?»
Erano le tre di mattina, e il capogruppo di Sinistra Democratica non sarebbe mai entrato a quell'ora a palazzo Montecitorio se non fosse stato sicuro di trovare dentro un certo ufficio il suo segretario di partito, sveglio e vigile come solo lui poteva essere a quell'ora.
«Niente di che» rispose Marchesi seduto sulla sua poltrona, intento a guardare fuori dalla finestra con aria assorta.
«Allora potresti anche pensare di andare a casa a dormire» ribatté Pasqui tranquillamente.
«Sto meglio qui dentro».
«Mi avevi fatto una promessa, Ric» il capogruppo si accomodò sopra la scrivania, a pochi centimetri di distanza dall’amico e collega, studiandone lo sguardo e tutti i significati che esso portava dentro,
«in tutti questi anni, non c’è stata una volta in cui l’hai rispettata. Non so cosa tu abbia nel cervello».
In quel momento l'unica cosa razionale che avrebbe potuto fare Marcello Pasqui era andare a casa e dormire, dopo quell'eterna e faticosa settimana in cui avevano raggiunto il primo grande traguardo per il loro partito: la prima discussione di una legge scritta sulla Carta Antifascista. Invece, Pasqui si alzò per versarsi con estrema calma un bicchiere di vino dalla bottiglia sulla mensola, come se ormai non avesse altra scelta che stare lì, come se fosse solo una tranquilla nottata come le altre.
Non poteva arrabbiarsi, né urlargli addosso, né andarsene sbattendo la porta. Forse, se non avessero vissuto ciò che avevano vissuto, avrebbe agito in quel modo, ma la loro vita aveva preso una piega diversa, e allora poteva solo stargli vicino.
Le parole di entrambi finirono lì, perché solo loro due sapevano capirsi anche quando non dicevano niente.
Restarono da soli in quella stanza fino al mattino dopo, aspettando in religioso silenzio la tranquillizzante normalità di un nuovo giorno che arrivava.
 
 
*
 
 
«Ma ti sembra il caso? Ma dove ce l'hai la testa?»
Il casino che Nicolò aveva fatto per entrare in casa aveva svegliato Giorgio, nonostante l'ora. Non aveva potuto evitarlo: aveva dovuto sostenere Michele con un braccio, aprire la porta e metterlo sul letto, causando un gran fracasso perché sbatteva inevitabilmente contro tutti i mobili.
«Te lo ripeto un'altra volta, così anche una testa vuota come la tua lo capisce. Ha la febbre a quaranta, l'ho provata poco fa. Sul taxi stava praticamente delirando, e al pronto soccorso hanno avuto il coraggio di darmi il codice verde. Potrò chiamare un medico solo domani mattina, dove cazzo avrei dovuto mollarlo secondo te? Per strada?» Erano le tre di notte, e avrebbe tanto voluto picchiare Giorgio in quel momento, perché quell'uomo doveva sempre dargli torto nei momenti meno opportuni.
Giorgio chiuse il frigo, sbattendo l'anta con un colpo secco.
«Arrangiati. Domani mattina io parto comunque, perché non mi perdo il compleanno di mia figlia solo perché tu ti crei sempre problemi. Ho cercato di avvisarti lunedì di evitare di lavorare su questa legge proprio questa settimana, ed ecco il risultato. Sai una cosa? Quando ti ho conosciuto sembravi quasi un uomo responsabile, e adesso ti comporti come uno stupido adolescente!»
Nicolò preferì non rispondere e lasciò cadere la questione, tornandosene in camera sua.
Era colpa sua, aveva ragione Giorgio, anche se non l'avrebbe mai ammesso. E lui, per l'ennesima volta, non sapeva come rimediare.
 
 
Michele Martino era raggomitolato sotto le coperte. Respirava regolarmente, ma in modo così calmo e silenzioso che, ad un primo sguardo, Nicolò ebbe quasi paura che non lo stesse facendo.
Gli toccò la fronte di nuovo, con l'inutile speranza che fosse meno calda di prima, ma così non fu.
«Cazzo!»
Imprecò a bassa voce per non svegliarlo, anche se era improbabile che accadesse, dato che dormiva profondamente da quando erano arrivati a casa. Appoggiò un fazzoletto bagnato sulla sua fronte. Non sarebbe servito a molto, ma non c'era tanto altro che potesse fare in quel momento.
Era stato uno stupido. Anche avendolo sotto gli occhi tutto il tempo, non si era mai curato del suo stato di salute. Probabilmente Michele non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli una pausa per il patto che si erano fatti la prima sera, impegnandosi entrambi a continuare il lavoro a ritmo serrato. Non era possibile che gli fosse salita tutta quella febbre in una sola sera, doveva averla già da qualche giorno.
Il capogruppo si svestì lentamente, mentre un nuovo senso di colpa più angosciante gli stava facendo salire una rabbia incontenibile contro se stesso. Era molto difficile ignorarlo in quel momento, con una persona sofferente, vittima anche della sua negligenza, distesa nel suo letto.
Abbandonò la camicia appallottolata su una sedia in un angolo della stanza, restando con addosso solo la canottiera, e si infilò sotto le coperte. Gli bastò fissare il soffitto per qualche minuto per capire che non sarebbe stata la notte lunga e riposante che si era prefissato solo poche ore fa. Nicolò non riuscì a fare a meno di allungare una mano verso l’altro, incontrando delle guance rosse, lisce e bollenti.
Non era necessario essere un medico per capire che quel livello di febbre era pericoloso. La speranza di addormentarsi e di svegliarsi l'indomani vedendolo il suo collega stare meglio veniva sconfitta nella sua mente dal terrore di chiudere gli occhi e di trovarsi a fianco un uomo che, al contrario, non si sarebbe alzato da quel letto così facilmente.
Forse aveva ragione Giorgio. Era rimasto un ragazzino, uno di quelli che agiscono senza preoccuparsi delle conseguenze, e questo era il risultato della sua sfida al lavoro estremo, dovuto alla scarsità di fiducia che ancora nutriva nei suoi confronti.
«Scusami».
Michele non avrebbe sentito sicuramente quella parola, addormentato com'era, ma per Nicolò era importante dirla. Era importante pronunciarla ad alta voce, per far sì che diventasse reale e che non rimanesse solo un suo pensiero evanescente.
Chiuse gli occhi, lasciando che la stanchezza piano piano vincesse sulla paura, trascinandolo dritto dentro ad un consolante oblio.
 
 
*
 
 
Il risveglio, la mattina dopo, fu veramente insolito.
Forse fu il fazzoletto che gli bagnava la fronte, forse l'odore delle lenzuola che non assomigliava per nulla a quello di casa sua, forse le finestre serrate da cui filtrava solo il sottilissimo alone della luce di un lampione, o forse fu tutto insieme, in un singolo istante, a suggerirgli che non si trovava nella sua camera.
Con la memoria tornò ai suoi ultimi ricordi. Si visualizzò mentre usciva dal palazzo, con un freddo tremendo nelle ossa, desiderando solo di andare a casa il più in fretta possibile. Era salito su un taxi… e poi il buio. Mosse un braccio alla ricerca del suo cellulare, ma non era sul comodino a fianco, e non avrebbe avuto la forza di alzarsi per andare a cercarlo altrove. Subito dopo sobbalzò, perché un'altra presenza nel letto si era mossa di scatto.
«Mmh…»
Andreani aprì lentamente gli occhi, poi li richiuse, infine li spalancò. Non appena lo vide sveglio, si mise seduto di scatto, toccandogli la fronte senza troppe cerimonie.
«Ehi! Come ti senti?»
Solo in quel momento Michele capì di trovarsi nella stanza di Andreani.
«Non molto bene… mi fa male la testa. Ma che è successo?» mormorò confusamente.
«Aspetta, prendo il termometro».
Michele si infilò l’oggetto sotto la camicia, notando alla luce
l’aspetto completamente disfatto del suo collega, con grandi borse sotto gli occhi verdi.
«Ho la febbre?» indovinò, impassibile nel tono di voce. Erano giorni che sospettava di averla.
La risposta gliela diede subito il termometro: trentanove e otto. Andreani glielo strappò praticamente di mano, fissandolo per diversi secondi in silenzio.
«Ti prendo una tachipirina. Alle sette arriverà il dottore, ho insistito che venisse il prima possibile. Mi hanno passato il contatto dei miei colleghi, è uno che segue diversi parlamentari. Non ti devi preoccupare».
Lo sentì muoversi freneticamente nel corridoio e udì il rumore di scatole che venivano spostate e rovesciate del loro contenuto con varie imprecazioni, fino a che Andreani tornò da lui con la scatola di tachipirine e un bicchiere d'acqua.
«Grazie… ma perché mi trovo qui?» chiese Michele, ancora confuso. Per un attimo gli sembrò che Nicolò non volesse rispondergli. Era strano vederlo in quel modo, seduto sul letto con aria sconfitta e inquietantemente insicura.
«Non mi sono fidato a riportarti a casa tua, stavi molto male. Ho cercato di portarti al pronto soccorso stanotte, però... Insomma, c’era molto da aspettare, e non sapevo cosa fare».
«Non c’era bisogno che ti preoccupassi tanto. Tra qualche giorno mi passerà» rispose Michele tranquillo. Era abbastanza abituato alla febbre.
«Ma che dici? Hai la febbre altissima! Mi sto prendendo le mie responsabilità, è anche mia la colpa, oltre che tua, perché avresti dovuto dirmelo invece di fare come se niente fosse».
Aveva alzato la voce, ma non sembrava arrabbiato con Michele, piuttosto con se stesso. Aveva la stessa rabbia convinta di quando sferrava un attacco politico in aula.
Andreani abbassò lo sguardo, come per cercare di ricomporsi.
«Comunque non importa, adesso devi riposare. Ti sveglierò io quando arriverà il dottore, per qualsiasi cosa basta che mi chiami». E uscì dalla stanza, lasciando la porta accostata.
 
 
*
 
 
Se infine riuscì a riaddormentarsi sul divano del salotto, dormì veramente poco.
La paura, da qualche ora, aveva deciso di diventare la sua migliore amica per quella notte. Si alzò diverse volte per girare per il corridoio, spiando di sottecchi per controllare che Martino dormisse. Quando si furono fatte le sei e mezza, si alzò definitivamente per fare il caffè. Lo avrebbe dovuto svegliare in qualche modo prima che arrivasse il dottore, e forse era il caso di dargli un pigiama.
Proprio in quel momento, Giorgio si presentò in cucina. Nicolò si avvicinò alla finestra per fumare, così da dargli completamente le spalle.
«Senti» l’amico ruppe il silenzio, «deve stare a letto e mangiare cose liquide e calde. Dagli della frutta magari, e tieni sempre aperta la finestra in camera».
Nico annuì senza voltarsi.
«Grazie».
Finì la sigaretta e tornò in camera. Il suo collega dormiva profondamente, con il respiro quasi non si sentiva. Lo scosse leggermente, sperando che bastasse per svegliarlo. Non voleva toccarlo troppo, solo avvertire il calore sulla mano lo inquietava. Martino aprì gli occhi, si girò nel letto, li richiuse, li riaprì, e infine si stiracchiò. Nel frattempo, Nicolò aveva già preso un pigiama dall'armadio.
«Mettiti questo».
Michele si tolse la camicia bianca, ormai sgualcita e umida di sudore, scoprendo il petto rosso per il calore. Nicolò gliela prese dalle mani, indugiando con lo sguardo sulla sua pelle. C'erano impresse sopra delle tracce anomale, dal colore un po' diverso dal rosso febbrile: segni neri e cicatrici violacee, sbiadite ma ancora visibili.
«Che cos’è?» chiese istintivamente, indicando uno dei segni più evidenti.
Michele chinò lo sguardo sul suo petto, come se non capisse il riferimento.
«Niente di importante» rispose frettolosamente.
Fu costretto ad arrotolare le maniche del pigiama, per quanto gli stava largo. Nicolò aspettò che si mettesse anche i pantaloni, poi gli lasciò in mano una tazza di camomilla.
«Tra poco arriverà il dottore. Come ti senti?»
«Abbastanza bene».
Nicolò sospirò, capendo bene che non era esattamente la verità. Il campanello suonò e il capogruppo del Fronte si precipitò ad aprire la porta, conducendo il dottore fino alla stanza.
Dopo un quarto d'ora, il dottore uscì dalla camera.
«Allora?» chiese Nico, impaziente di avere qualche rassicurazione.
«Dai sintomi non sembra esserci infezione, a parer mio è stress, aggiunto a qualche colpo di freddo. Le dia il paracetamolo due volte al giorno, non di più. Per il resto, basta che riposi».
«E in quanto si riprenderà?»
«Tra qualche giorno scenderà la febbre, ma è necessario che stia a riposo per almeno una settimana».
«Capisco. La ringrazio davvero» Nicolò si lasciò andare ad un sospiro di sollievo, felice che almeno la situazione non fosse grave.
«Se insorgono problemi, non esiti a chiamarmi immediatamente. Buona giornata».
Nicolò tornò nella stanza, trovando Michele già riaddormentato. Accese il PC sulla scrivania. Tanto valeva portarsi avanti con il lavoro, visto che di andare a correre o riposare non se ne sarebbe parlato per quel giorno.
 
 
*
 
Si risvegliò lentamente, mentre un ticchettio costante sui tasti faceva di sottofondo ai suoi sogni confusi. Si era ritrovato disteso in diagonale, con le gambe da una parte del letto e la testa sul cuscino opposto. Si raggomitolò istintivamente nelle coperte, più stanco di prima.
«Sei sveglio?» gli chiese Andreani.
L’uomo era seduto e vigile sulla scrivania, mentre batteva velocemente un documento al PC. Si era fermato un attimo da quell'attività solo per rivolgergli un insolito sguardo apprensivo.
«Ti ho svegliato io? Scusami, ho pensato che nel frattempo potevo finire di scrivere la legge».
«La legge? Pensavo la finissimo insieme…» rispose, ancora piuttosto intontito dalla stanchezza e dalla luce del giorno.
«Viste le tue condizioni, credo che tu abbia finito di lavorare per un po'» gli sorrise Andreani tagliando corto.
«Cosa?»
«D’accordo, d’accordo» sospirò il capogruppo, «allora, prima ti faccio qualcosa di leggero da mangiare, poi ti leggo la parte che ho scritto e se c'è qualcosa che non ti convince mi fermi e correggiamo. Va bene?»
Michele annuì. Non sentiva molta fame, ma qualcosa doveva ben buttare giù.
Andreani uscì dalla camera e ritornò poco dopo con una scodella di minestra.
«Stai lì» minacciò subito, quando notò il suo mezzo intento di alzarsi dal letto.
«D'accordo…» acconsentì il giovane, completamente imbarazzato di esser costretto a mangiare su un letto estraneo.
In due ore, Michele si sforzò il più possibile di mangiare e di ascoltare, chiedendosi come fosse possibile che Andreani continuasse a lavorare e non fosse stanco neanche un po', dopo la settimana che avevano appena trascorso. Lo bloccò solo tre volte per correggere ma, più andava avanti a leggere, meno Michele riusciva ad ascoltare, tanto che chiuse gli occhi numerose volte prima di arrendersi di nuovo al sonno.
 
 
*
 
 
Il debole sole del tramonto filtrava tra le tende. Nicolò si rialzò di scatto, realizzando solo in quel momento di essersi addormentato sulla scrivania, con la testa tra le braccia. Le immagini offuscate di un probabile sogno in cui era tornato con la fantasia al suo lavoro precedente si dissiparono lentamente, e immediatamente si girò per controllare lo stato del suo collega.
Nicolò sussultò. Non c'era, il letto era disfatto.
Confuso, uscì velocemente dalla stanza, ma bastò annusare l'aria e udire lo sfrigolio delle pentole per capire che, dal momento che Giorgio era partito, la seconda presenza in casa sua poteva essere solo quella del giovane calabrese.
«Martino? Ma che fai in piedi?»
Quando aprì la porta della cucina si trovò davanti Michele Martino, con le maniche del pigiama arrotolate davanti ai fornelli, occupato a preparare la causa del profumo, un misto di carne, verdure ed erbe aromatiche che bollivano insieme in una pentola.
«Ah, ciao» sorrise lui, come se non ci fosse nulla di strano in quella situazione, «non ti arrabbiare, mi sentivo un po' meglio e ho pensato che potevi avere fame. E beh…» abbassò gli occhi, chiaramente imbarazzo, «ho pensato di sdebitarmi per il disturbo».
Nico restò immobile sulla soglia, incerto se arrabbiarsi o tacere, intorpidito dai forti brontolii dello stomaco provocati da quei profumi deliziosi, frutto di chissà quale ricetta ignota che quell’uomo era riuscito a generare dalla sua dispensa, che di solito conteneva solo carne in scatola e sughi pronti.
«Dovresti restare a letto...» sospirò pazientemente, «non ce n’era bisogno, avrei ordinato da mangiare».
«Cucinare mi rilassa» si giustificò l’altro, mentre mescolava lentamente, «e qualunque cosa avresti ordinato non sarebbe stata così buona» sorrise.
Nicolò restò spiazzato da quel moto di orgoglio inaspettato. Non aveva mai visto Martino così a suo agio come lo era in quel momento tra i fornelli, e apparecchiò in silenzio il tavolo.
Notò che l’altro studiava di nascosto le sue espressioni mentre mangiavano, ma non ebbe bisogno di fingere di apprezzare, perché era tutto squisito, e divorò il piatto più velocemente di quanto il galateo gli imponesse. Aveva davvero fame, non mangiava un pasto abbondante da giorni a causa del lavoro.
«È davvero buono, ma non avresti dovuto farlo nelle tue condizioni» ribadì, mentre sparecchiava. Adesso era lui a sentirsi imbarazzato.
Non ricordava che qualcuno gli avesse mai preparato la cena in quel modo, nemmeno i suoi genitori, che impegnati com’erano ordinavano sempre da fuori.
«Era il minimo per il disturbo».
«Non c’è disturbo» insistette Nicolò mentre ammucchiava i piatti nel lavello, «non stai bene, è un tuo diritto riprenderti. Tanto non avrei avuto granché da fare» mentì.
«Posso chiamare un taxi e tornare a casa».
«Non pensarci nemmeno» Nicolò sentì il senso di colpa bruciargli più intensamente all’idea, «è meglio non scherzare su queste cose. Quando scende la febbre potrai andare, ti dico che non disturbi. A proposito, dopo provatela di nuovo».
Martino sospirò pesantemente, segnalando che avrebbe accettato senza ribattere.
 
 
*
 
 
Andreani aveva insistito molto per mettergli addosso la coperta sul divano del salotto, nonostante le sue continue proteste di avvertire già troppo caldo con il pigiama. Era surreale vedere che uno come lui, così libertino sulle regole in politica, in quel momento era diventato un vigile irremovibile. Se non avesse avuto fame, Michele era pronto a scommettere che si sarebbe addirittura arrabbiato per averlo visto fuori dal letto a cucinare.
«Goool!»
La televisione fece rivedere diverse volte il pallonetto preciso dell'attaccante con la maglia rossonera mentre Andreani esultava, spalancando le braccia con i pugni alzati. Michele non aveva mai apprezzato granché il calcio, ma aveva accettato di stare a guardare la partita in salotto, mentre distrattamente leggeva un articolo di giornale. Era decisamente stufo di stare a letto.
«Ma tu davvero non tifi nessuna squadra?» gli chiese Andreani ad un certo punto, senza staccare gli occhi dallo schermo.
«Non ne ho mai avvertito l'utilità» rispose lui, indifferente.
«Ma dai! Da ragazzo non tifavi?»
«Seguivo il ciclismo, nient'altro».
Il capogruppo del Fronte si arrese con uno sbuffo esasperato, come se per lui fosse inconcepibile che qualcuno potesse non seguire il calcio. Quando finì il primo tempo, Michele sentì il volume della TV abbassarsi di molto. Stava quasi per chiudere gli occhi, preso da una stanchezza intensa e improvvisa, ma Andreani gli parlò di nuovo.
«Posso chiederti una cosa?»
«Cosa?»
«Quei segni che hai sul corpo, da quanto tempo li hai?»
Michele era in uno stato a metà tra il sonno e la veglia, ma riuscì comunque a distinguere la potenziale pericolosità di quella domanda. Con gli occhi cercò un punto lontano da fissare, mentre la sua testa si arrovellava per trovare il modo più sicuro per evadere dall'argomento.
«Tanti anni. Te l'ho detto, non è niente di importante» rispose a bassa voce.
«Non te li sei fatti per un incidente, ho ragione?» Annuì. Era troppo anche per lui mentire in quei termini.
«Perché ti interessa saperlo?»
«Beh» Andreani si sistemò meglio sul divano, piegando le gambe e stendendo il busto, «non c'è un motivo particolare, ho solo notato i segni e mi sono preoccupato».
Michele era in un vicolo cieco. Non aveva più argomenti per rispondere. Irritato e rosso in viso per quella domanda, sbottò un
«perché dovresti preoccuparti?», poi però si morse subito la lingua. Stava sembrando un maledetto ingrato, ma non lo pensava davvero. Era semplicemente nervoso e stanco, e l'ultima cosa che desiderava era tirare fuori quei residui di passato che con tanta fatica stava tenendo al loro posto, confinati nei ricordi.
«Di solito si fa così quando si vede una persona avere un problema, no? Si parla, si ascolta, ci si aiuta. Ti sembra così strano?»
«Nessuno mi ha mai fatto queste domande» rispose secco Michele, biascicando le parole per la troppa stanchezza.
E quella era la verità. La crudele e inammissibile verità.
Per metà era colpa sua, che non l'aveva mai detto a nessuno. Per metà la colpa era degli altri, che non si erano mai accorti dell'inferno che stava vivendo. E, se mai ne avevano avuto il sospetto, si erano sempre girati dall’altra parte. I suoi problemi non erano mai stati i problemi di qualcun altro, ma sempre e soltanto i suoi.
«Allora le ipotesi sono due» rise Nicolò, nel chiaro intento di sdrammatizzare, «o sono strano io, oppure devi aver conosciuto solo persone di dubbia umanità, e non offenderti».
Non si offese. Non ne aveva nemmeno la forza.
Per fortuna che il sonno lo stava tirando via da quel discorso imbarazzante e irrimediabilmente triste, tornando a mostrargli il suo rassicurante buio personale.
   
 
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