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Autore: heysassenach    19/11/2015    1 recensioni
[Robert Fitzhamon/Guglielmo II d'Inghilterra]
Anno del Signore 1062.
Robert ha 7 anni, e sogna di essere un cavaliere come suo padre.
Un padre che non lo ha mai considerato degno, a causa della sua costituzione fragile.
Il suo sogno di diventare un cavaliere è messo a dura prova, ma Robert non si arrende, e il destino lo porterà ad incontrare un principe, Guglielmo, il figlio del grande Conquistatore. Da questo momento in poi, le loro vite saranno indissolubilmente legate...
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Il viaggio a cavallo era stato massacrante. Più di una volta Ulrik aveva tentato di farlo parlare, ma lui non avrebbe ubbidito. Non avrebbe detto niente al suo aguzzino. Forse prima o poi si sarebbe stancato e lo avrebbe lasciato andare: come poteva pretendere che un bambino  che ostentava il silenzio potesse imparare qualcosa? E infatti, dopo mezza giornata di viaggio, con solo una brevissima pausa per soddisfare i propri bisogni fisiologici, Ulrik si era arreso. 
"Va bene, ragazzo, fai come ti pare. Ma ricordati che a sua maestà non farà piacere: ti farà tagliare la lingua, immagino. Tanto, a quanto vedo, non ne hai bisogno". Si sistemò il pesante mantello sulle spalle, i lunghi capelli castani che danzavano tutto intorno con una grazia innaturale. Robert si morse la lingua, per tenere fede al patto interiore che aveva fatto con sé stesso: non parlare mai, per nessuna ragione al mondo. 
Ma la curiosità era troppo forte. "Sua Maestà?" gli fece eco, inghiottendo a fatica il groppo di sbigottimento che gli si era formato in gola. Il cuore gli batteva così forte, che se non si fosse calmato in fretta, sarebbe sicuramente esploso. Ser Ulrik fissò gli occhi azzurri nei suoi, divertito. "Che c'è, hai ritrovato la tua lingua?", fece ridacchiando. Poiché il suo sguardo appariva nuovamente distante, Robert si affrettò a ripetere: "Cosa vuol dire che sua Maestà mi farà tagliare la lingua?"
"Esattamente quello che hai capito: ti avrebbe fatto tagliare la lingua, temo, ma pare che tu abbia appena scongiurato questo pericolo". E diede nuovamente di speroni, portandosi avanti di qualche passo: Robert si ritrovò costretto a scalciare con sommo nervosismo sui fianchi del suo pony per riuscire ad affiancarsi a lui.
"E' lì che stiamo andando? Dal re?", incalzò nuovamente il bambino, che davanti ai suoi occhi vide ricomparire, dopo ore di angoscia, la speranza di poter diventare un cavaliere. Ulrik annuì, e il sorriso sulle sue labbra ben disegnate si allargò. "In persona", soggiunse semplicemente. 
"E perché?". Il volto illuminato dalla rossa luce di un sole prossimo al tramonto, ser Ulrik arrestò bruscamente il suo purosangue, costringendo Robert a fare altrettanto. 
"Vedo che tuo padre non ti ha detto proprio niente", osservò il giovane, la voce velata di disappunto. Robert scosse la testa, ancora scosso da quanto accaduto. Fino a ieri giocava nei prati accanto al castello, noncurante del mondo esterno. Oggi era lontano da casa, lontano da Isabel e dalla sua sorellina, lontano da Ailis e dal vecchio servo che, tutte le mattine, si divertiva a scocciare. Ed era lontano da suo padre, che non solo l'aveva allontanato, venduto come un animale da macello, ma si era anche preso il lusso di non dargli spiegazioni. Ed ora questo strano compagno di viaggio, il suo aguzzino, tirava fuori addirittura il nome di sua Maestà. Robert non capiva più niente. Se quello era un sogno, voleva svegliarsi, e anche in fretta. Un faccia a faccia con il gigante dei temporali sarebbe stato più piacevole, e anche più verosimile di tutta quella assurda situazione. 
"Buon Dio", fu l'angosciato commento di ser Ulrik. "Ora stammi a sentire. Tuo padre, ser Rollon, non è un uomo sconsiderato. Ha scelto per te la migliore delle strade possibili: verrai educato come ci si aspetta da uno del tuo rango, e vivrai alla corte di sua Maestà Re Edoardo. Intesi?"
Ma Robert si ritrovò ancora una volta a mettere il broncio. "Io non voglio essere educato. Io voglio essere un cavaliere".
Ser Ulrik roteò gli occhi. Persino la sua pazienza cominciava a vacillare, di fronte alla testardaggine di un bambino. "Cristo santo, ragazzo, quanti anni hai? Sette, otto? Ficcati bene in testa che per diventare un nobiluomo che si rispetti, devi ricevere un'educazione. Come pretendi di essere investito cavaliere, se le tue conoscenze si limitano al cortile del tuo piccolo castello?". Non gli lasciò il tempo di replicare. Ser Ulrik diede di speroni prima ancora che Robert potesse formulare un pensiero di senso compiuto. Ma in cuor suo, sapeva di dover dare ragione a quel giovane tanto strano, avvolto in un mantello blu come la notte. Inghiottì tutto il suo disappunto, e spronò il vecchio pony a star dietro il destriero di Ulrik.

Robert aveva sempre visto il castello in cui era cresciuto come il più grande e il più bello di tutti. Le sue torrette fortificate, i lunghi corridoi in cui giocare a nascondino, le sue immense stalle: tutto sembrò dissolversi come vapore, non appena vide quella che intuì essere la sua nuova sistemazione. Che magnificenza, che salto di qualità! Quell'edificio era talmente grande che nemmeno se avesse sgranato gli occhi fino a farsi male, sarebbe riuscito a vederlo per intero. Si domandò quanto tempo gli ci sarebbe voluto per esplorarlo tutto. E quante guardie avrebbe incontrato? Quante sale piene di armi ci sarebbero state? La sua giovane mente ricominciò in un baleno a popolarsi di sogni ad occhi aperti, man mano che il castello diventava sempre più grande, sempre più imponente. 
Ser Ulrik smontò da cavallo con una grazia che Robert trovò quasi innaturale. Poi, ancora senza il minimo sforzo, lo sollevò come fosse un fantoccio, e lo fece scendere a sua volta. L'alba colorava il cielo di una tenue sfumatura rosa, e il castello si stagliava imponente, scuro, contro la volta celeste. Robert deglutì sonoramente: non si era mai sentito tanto insignificante. 
Prima ancora che potesse riprendersi dallo stupore che gli impediva di parlare, un movimento nella penombra dell'immenso cortile, attirò la sua attenzione. Un ragazzetto poco più grande di lui, gli occhi acquosi ancora impastati per il sonno, gli si fece incontro. Si muoveva quasi furtivamente, come se stesse compiendo una malefatta degna di una terribile punizione. Ser Ulrik, che stava frugando in un borsello di cuoio contenentre chissà che cosa, non sembrò fare caso alla sua presenza. 
"E' questo il moccioso?", esordì il ragazzetto, scoprendo una fila di denti irregolari e giallognoli. Indossava abiti lerci ed emanava un odore pungente ed indefinito, per cui Robert pensò subito dormisse con i cani. Si augurò di non condividere la stessa sorte. A quelle parole, Ulrik si era voltato di scatto, ma prima che potesse salutare il nuovo arrivato, Robert aveva già risposto, con tutta la sfacciataggine che aveva in corpo: "io, signore, non sono un moccioso. Voi, piuttosto, chi vi credete di essere?". 
Il ragazzetto lo fissò intontito per un attimo, strabuzzando gli occhi come se al posto di Robert avesse sentito parlare il suo pony. Poi scoppiò in una risata così fragorosa, che le guance di Robert arsero, così come la rabbia repressa che aveva in petto. Nonostante quell'antipatico sconosciuto fosse più alto di lui di tutta la testa, gli avrebbe dato volentieri un pugno. Ma ser Ulrik interruppe il diverbio sul nascere. "Oleg, basta così". 
La risata di Oleg si interruppe, cedendo il posto a un'espressione risentita nei confronti di chi l'aveva rimproverato. "Non prendo ordini da un bastardo", ringhiò il ragazzetto, prima di essere colpito in pieno volto da un pugno di Ulrik. Come se nulla fosse accaduto, come se il ragazzo che si contorceva ai loro piedi per il dolore non fosse nemmeno lì, ser Ulrik si rivolse a Robert, il volto rischiarato da un sorriso incoraggiante. "Vogliamo andare?"
Ma prima che Robert potesse chiedere "dove", si ritrovò a trotterellare alle sue spalle, il pony che lo seguiva senza opporre resistenza. 

"Cosa vuol dire bastardo?". La domanda ruppe il silenzio dell'alba, e rimbombò nell'immensa anticamera in penombra in cui erano entrati. Ulrik gli rivolse uno sguardo, forse per capire se la sua domanda fosse sincera. "Un bastardo è un figlio nato fuori dal vincolo  matrimoniale", spiegò semplicemente, come se la cosa non lo disturbasse affatto. "Ed è...vero?" domandò ancora, esistante. Ulrik annuì, e sul suo viso si fece strada, per la prima volta, un sorriso che di allegro aveva ben poco. "Mia madre era una..." esitò, rivolgendogli un'altra occhiata indagatrice, "...serva". Robert scrollò le spalle. Non capiva cosa ci fosse di così strano: anche la mamma di Isabel era una serva, ma lei non trovava la cosa così imbarazzante. "E con questo?"
Ser Ulric si ravviò i lunghi capelli castani, e sorrise di nuovo alle sue domande ingenue. "Mio padre era un nobil'uomo. Ma io, essendo nato al di fuori del vincolo matrimoniale, non posso ambire a niente". 
"Quindi non sei un cavaliere?", incalzò Robert, pur consapevole di quanto quella domanda suonasse scontata e banale. "Direi proprio di no. Ma ora basta domande, non trarresti nessun godimento dalle mie risposte. La mia vita è meno interessante di quello che credi, giovanotto. Ora vieni, ti porto alle cucine". Robert avrebbe voluto scoprire di più sulla vita di quel suo bizzarro compagno di viaggio, ma il brontolio incessante del suo stomaco lo convinse a tacere una volta per tutte. 

Pensò di aver vissuto tutta la sua vita in una sorta di catapecchia, non appena fece il suo ingresso nell'enorme stanzone in cui si affaccendavano decine e decine di donne, tanto assorte nel loro lavoro che quasi non fecero caso a loro. Il soffitto della stanza era curiosamente basso, tanto che Ulrik lo toccava con la testa. Robert osservò il suo 'rapitore' avvicinarsi a una giovane con il viso tutto sporco di farina. "Cécile, vita mia", la salutò. Tentò di baciarla, ma lei si ritrasse. Robert gliene fu grato: trovava rivoltante quando gli adulti si scambiavano effusioni. Sperò di non doverlo fare mai. "Ulrik, ma come ti viene in mente?" disse lei a denti stretti, sincerandosi, con un'occhiata tutto intorno, che tutti fossero troppo immersi nel loro lavoro per averli notati. 
Ser Ulrik si grattò la nuca, in evidente imbarazzo. "Scusami", borbottò controvoglia. Robert trovò la scena tanto assurda, che avrebbe volentieri fatto a meno di assistervi, se il bisogno di riempirsi lo stomaco non fosse stato tanto impellente. Anche Ulrik sembrò della stessa idea, dato che, ricordatosi del motivo principale per cui aveva fatto il suo ingresso nelle cucine, spiegò: "Siamo reduci da due giorni di viaggio, io e il piccoletto qua presente". Fece un cenno verso Robert, e Cécile si affacciò oltre la spalla dell'amante per riuscire ad individuarlo. Il suo tono di voce, e i suoi bei lineamenti, si rilassarono all'istante. "Ciao piccolo", cinguettò abbassandosi per poterlo guardare bene in faccia, "hai fame?"
Robert annuì energicamente, senza proferire parola. Voleva tastare un po' il territorio, prima di dare confidenza a una sconosciuta. "Vieni con me, allora", gli disse tutta sorridente. Sebbene non gli fosse stato detto esplicitamente, anche ser Ulrik si unì a loro: anche lui, del resto, stava comprensibilmente morendo di fame. 
La stanza limitrofa era meno chiassosa, e l'arredamento era decisamente più spartano di quello che Robert si sarebbe mai aspettato di trovare in un castello di quella portata. Ma forse quell'ala era frequentata solo dalla servitù, si disse Robert, osservando con l'acquolina in bocca una bella fetta di pane e miele che si era materializzata, come per magia, sulla tavola poveramente imbandita. 
"E' un tipo timido, il giovanotto", disse ser Ulrik alla fanciulla, che nel frattempo si muoveva avanti e indietro per la stanza, intenta a recuperare mille pietanze diverse. "Pensa che si è deciso a tirar fuori la lingua solo quando ha scoperto che avrebbe incontrato sua Maestà!"
Cécile si bloccò per un momento, lo sguardo confuso fisso su Robert, il quale, dal canto suo, era molto più concentrato sulla sua colazione che sulla conversazione in corso. "Scoperto?" , gli fece eco debolmente, andando a posizionare un enorme boccale stracolmo di vino proprio davanti a Ulrik. 
"Proprio così. Ser Rollon non gli aveva detto niente, Dio solo sa il perché", spiegò ser Ulrik, portandosi il boccale alle labbra e tracannando un lungo sorso di vino. "Ma almeno ci parli con tuo padre?", chiese, tornando a rivolgersi al bambino. Robert scosse la testa. "Poco", biascicò, con la bocca ancora piena. "Oh beh, è comprensibile, allora". Cécile si accomodò accanto a lui, arruffandogli i capelli. Robert non era tanto sicuro che quella confidenza gli piacesse: del resto, di amore materno, ne aveva ricevuto ben poco e non poteva dirsi abituato a simili manifestazioni d'affetto. "Vedrai che qui ti troverai bene", lo incoraggiò ancora la ragazza, sporgendosi per afferrare una mela rossa, "e mangia pure quanto vuoi: c'è cibo in abbondanza".

Robert non sapeva quanto tempo fosse passato dal suo arrivo nell'immenso castello: da quel che era riuscito ad intuire, al re piaceva svegliarsi all'ora che voleva, e di certo non si sarebbe alzato all'alba solo per ricevere il gracile figlio di un signorotto di provincia.  Era quasi sul punto di addormentarsi, dopo l'immensa abbuffata della mattina, quando Ulrik ricomparve improvvisamente- Robert non era certo di voler sapere dove fosse finito- per mandarlo a chiamare. Prima di tutto, come c'era da aspettarsi, gli venne fatto il bagno. La tinozza dell'acqua era troppo calda, e a stento Robert era riuscito a non urlare. In secondo luogo, il fatto di dover essere per forza aiutato da tutti quei servi, che peraltro non conosceva, lo mise un po' a disagio. Nella sua ormai vecchia casa, Robert era abituato a fare il bagno in un laghetto: quello era il suo bagno, e nessuno aveva mai avuto niente da ridire. Ma qui di laghetti non ce n'erano, e sembrava proprio che per incontrare il sovrano- ancora doveva scoprirne la ragione- Robert dovesse profumare come un fiore di campo. Poiché anche i vestiti migliori che possedeva non furono giudicati consoni a una tale, sfarzosissima occasione- e Robert lo capì da come una delle serve arricciò il naso vedendoglieli addosso- gliene furono fatti indossare degli altri, che naturalmente, nonostante fossero approssimativamente della sua taglia, gli andavano larghi. 
Quando vide la propria immagine riflessa nello specchio, dopo questo rituale di preparazione, quasi non si riconobbe. Il viso era magro come al solito, ma al posto del consueto pallore, le sue guance erano ora di un rosa acceso. I capelli, neri come la notte, gli erano stati sistemati in modo che non gli andassero sugli occhi, anche se Robert nutriva qualche dubbio in merito alla riuscita di tale esperimento. Indossava una tunica di un blu acceso, che recava, sul petto, quello che doveva essere lo stemma regale: una croce greca, di un giallo acceso, circondata da cinque uccellini. Che stemma stupido, pensò Robert, rigirandosi più volte per osservare il risultato finale. Dopo qualche minuto e tante giravolte, decise finalmente che tutto sommato poteva andare. E poi, si disse, quand'è che avrebbe indossato degli stivali di cuoio tanto pregiati?
Quando la porta si spalancò, e il viso ormai familiare di Ulrik fece capolino nella stanza, Robert capì che era giunta l'ora. Balzò in piedi, e seguì quel giovanotto, che in fondo in fondo cominciava a stargli simpatico. E mentre varcava le immense porte di bronzo della sala del trono, si sentì più importante del bambino stremato che quella mattina era approdato al castello in sella ad un pony. 
   
 
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