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Autore: Elrais    25/11/2015    2 recensioni
In un lussuoso albergo del centro di Tokyo, il miglior detective del mondo osserva su un monitor l'immagine di Misa Amane, sospettata di essere il secondo Kira; L non sa che, dietro quegli omicidi, si cela il potere di un quaderno ceduto da un Dio della Morte.
Tuttavia, gli Shinigami non sono gli unici esseri di cui il giovane investigatore ignora l'esistenza: altre creature, all'apparenza fragili come vetro, osservano la Terra con occhi inespressivi.
Ad una di queste creature verrà affidato il compito di infiltrarsi nel mondo degli Umani, per ristabilire l'equilibrio nelle Leggi di Natura.
Ma quando si ha a che fare con L Lawliet e Light Yagami, portare a termine la propria missione può risultare più complesso del previsto.
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri personaggi, L, Light/Raito, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo III: Aggancio

 

Recuperare le cassette dal loro nascondiglio aveva richiesto più tempo del previsto.
Sahira era uscita ogni giorno dall’albergo portando con sé un grosso zaino, ma il non poter andare via e tornare troppo frequentemente l’aveva indotta a ridurre gli spostamenti a due al giorno.

Alla fine era riuscita a recuperare tutto, ma aveva la sensazione che il tempo le sfuggisse di mano.

Raggomitolata su una delle sedie della sua stanza, visionava il decimo video sgranocchiando quelli che nel mondo degli Umani vengono chiamati biscotti al cioccolato: li aveva scoperti da un paio di giorni e non riusciva più a farne a meno, senza contare che alleviavano la monotonia delle ore.
Si stropicciò gli occhi stanchi e riprese a guardare il monitor, osservando il viavai delle persone che affollavano la stazione centrale di Tokyo in quel giorno di inizio gennaio.
“Chissà dove va tutta quella gente” si chiese, mordicchiando un biscotto, “con tutti quei treni e tutto questo mondo. Potrebbero arrivare ovunque e da nessuna parte. Non è come da noi… anche volendo, anche uscendo dal Palazzo, fuori non c’è granché.”
Mandò giù il biscotto con un sorso di caffellatte.
“Forse, l’unico vantaggio dell’uscire dal Palazzo è non sentire più quei dannati echi. Almeno il vuoto non fa rumore.”

Ormai era passata una settimana da quando aveva rubato i nastri alla stazione, e aveva impiegato tre giorni a portarli tutti nella sua stanza; questo era il quarto giorno di visione delle cassette, ma ancora nulla. Sahira cominciò a chiedersi se non avesse perso qualche VHS lungo il tragitto.
Si alzò e andò alla finestra, stiracchiandosi, osservando il solito caos: un enorme edificio, alto almeno una ventina di piani, era sovrastato da un maxischermo che riportava il TG del giorno. Kira aveva ripreso ad uccidere, ormai. Sahira si chiese cosa stesse pensando L in quel momento, se avesse qualche idea a proposito della strana sequenza di eventi atta a depistarlo.
Ma no, non può neanche immaginare cosa stia succedendo. Starà brancolando nel buio, pensò il Controllore, lo sguardo fisso su un gruppo di persone che, svariati metri sotto di lei, attraversava la strada.
Il pensiero del detective la riportò con la mente al suo piano e aguzzò lo sguardo, cercando di individuare il suo pedinatore: normalmente sarebbe stato impossibile notarlo, soprattutto a quella distanza, ma i Controllori hanno una vista eccellente. Sahira lo trovò in pochi istanti, seduto in un locale di fronte all’entrata principale del suo albergo.
Per quanto ancora l’avrebbe seguita? Doveva muoversi.
Tornò a visionare le cassette con rinnovata urgenza, senza staccare gli occhi, quasi non chiudendo le palpebre. Gli unici rumori all’interno della stanza erano il rullio del videoregistratore e lo sgranocchiare di Sahira, che aveva ripreso a masticare i biscotti quasi con violenza.
E poi, dopo circa quattro ore, la vide.
Capelli scuri, lunghi fino alle spalle, frangia che arrivava a coprirle gli occhi; una giacca di pelle nera e pantaloni stretti. Sembrava straordinariamente attenta a non farsi inquadrare in viso, tanto che un occhio poco attento non l’avrebbe riconosciuta; ma era lei, senza ombra di dubbio.
Sahira la osservò avviarsi verso la biglietteria e la seguì con lo sguardo mentre si allontanava; prese mentalmente nota della direzione che la donna stava seguendo e cambiò VHS, inserendone un altro dello stesso giorno, ma proveniente da un’altra telecamera.
Ed eccola di nuovo sullo schermo: il Controllore la vide aspettare un treno sulla banchina, salire sul treno, scomparire.
Sahira sorrise, soddisfatta. Ora, finalmente, poteva dare il via alla parte successiva del suo piano.

 

§


Una ragazza bassa, con capelli castani e occhi scuri, sedeva composta all’interno dello scompartimento del treno, le mani poggiate in grembo; se un passante o una avventore l’avesse guardata, avrebbe notato solo una ragazzina dalle fattezze occidentali accompagnata da una valigia più grande di lei. Forse le avrebbe sorriso o le avrebbe rivolto un cenno di saluto, sedendolesi di fronte; ma di certo non avrebbe mai immaginato che quella fanciulla poco appariscente, in realtà, non avesse nulla di umano.

Sahira appoggiò la fronte al vetro, sentendolo freddo contro la pelle; da qualche giorno, ormai, la pianura del Kanto aveva lasciato il posto alla montagna, cambiamento che il Controllore aveva accolto con meraviglia. Le punte rocciose si stagliavano in alto, sembravano volessero pungere il cielo; qua e là, gli occhi attenti della creatura potevano scorgere dei piccoli paesi, incastonati nelle valli o sui fianchi delle montagne. Le case, gli alberi, l’erba della pianura, tutto correva ad una velocità forsennata: ormai Sahira si era abituata all’andatura del treno e al rumore del passaggio sulle rotaie, ma i primi tempi sedeva rigida, senza osare guardar fuori, trovando innaturale il movimento apparente di ciò che, invece, dovrebbe restar fermo.
Erano passati dieci giorni da quando aveva cominciato quel lungo viaggio, salendo su un treno che portava nella stessa direzione di quello preso da Naomi Misora circa cinque mesi prima, e in questo lasso di tempo era scesa in ogni singola fermata, cercando in lungo e in largo, rivoltando come un guanto i piccoli paesi in cui si era trovata a passare; aveva interrogato chiunque le capitasse a tiro, mostrando una foto, facendo domande, ma nulla.

Non che si aspettasse qualcosa di diverso, in realtà. O, almeno, non fino a quel giorno.

Scese alla stazione di un paesino identico a tutti gli altri, trascinandosi dietro una valigia colma di vestiti e videocassette: aveva intenzione di liberarsene, tenendo solo quelle che riprendevano Naomi, ma ci aveva ripensato. Avrebbe portato tutto con sé, poi sarebbero stati gli agenti a decidere cosa farne.
Si guardò intorno, notando oggetti che aveva visto in tutte le stazioni e che le erano diventati familiari: un orologio sulla banchina, il tabellone degli arrivi, una piccola biglietteria. Ma stavolta ebbe un fremito d’eccitazione.
Si voltò per assicurarsi che l’uomo fosse ancora dietro di lei e lo vide scendere dal treno qualche istante dopo.
Sahira si avviò verso la strada principale del paese, guardandosi intorno: non notava nulla di particolare, nulla di diverso, eppure era certa che lei fosse lì. Per un attimo prese in considerazione la possibilità che qualcosa andasse storto e sentì chiaramente il suo stomaco attorcigliarsi per l’ansia.
Quella ricerca stava durando più del previsto e da quasi venti giorni, ormai, non aveva notizie certe di Light e di Rem.
Basandosi su quanto aveva ascoltato durante la supervisione a distanza, poteva più o meno immaginare a che punto fossero arrivati del loro piano; il problema serio era che tale piano poteva non funzionare e la strategia d’azione di Sahira si basava sulla correttezza delle previsioni di Light.
La possibilità che entrambi i disegni crollassero al primo intoppo come un castello di carte era elevata e aumentava col passare del tempo.

Il Controllore affrettò il passo, dirigendosi verso un piccolo locale, che sembrava il ritrovo principale del paese. Si guardò intorno: era un posto ristretto, povero, ma pulito.
Un uomo era dietro il bancone circondato da una griglia, su cui stava cuocendo del cibo; maneggiava con abilità degli arnesi simili a delle piccole pale, con le quali staccava dalla griglia le pietanze che venivano cotte. L’aria era calda e satura di odori. Sahira inspirò a fondo, ma non riuscì a riconoscere gli ingredienti del cibo: non era ancora abbastanza esperta.
L’uomo le sorrise, continuando ad occuparsi della cottura delle vivande, e Sahira rispose con un cenno del capo; oltre a lui c’erano altre quattro persone e il Controllore si indirizzò decisa verso quello che le sembrava l’Umano più anziano.
“Salve, signore”, mormorò non appena fu a portata d’udito, “mi spiace disturbarla, ma sto cercando una persona. Potrei farle qualche domanda?”
L’uomo la squadrò perplesso, lanciando un’occhiata all’amico seduto accanto a lui. I nuovi arrivati non erano ben visti in quel piccolo posto sperduto in mezzo alle montagne.
Incurante dell’espressione ostile che le era appena stata rivolta, il Controllore tirò fuori la foto: l’uomo la prese in mano, riluttante, e l’avvicinò agli occhi miopi.
“Se lei l’avesse vista, mi sarebbe davvero di grande aiuto.”
L’anziano squadrò per un po’ l’immagine che aveva davanti, con le sopracciglia aggrottate. Poi la sua fronte si spianò: “Ma certo! Ecco chi è! Lì per lì non riuscivo a ricordare, anche se aveva un viso familiare.”
Porse la foto all’uomo seduto accanto a lui, battendola sul tavolo.
“La riconosci?” gli chiese, ignorando completamente Sahira, la quale attendeva impazientemente in piedi di fronte a loro, “è la figlia di Sasuke!”
“Ecco!” bofonchiò l’altro, annuendo, “sì, certo. Beh, l’ultima volta che l’abbiamo vista da queste parti era una poco più che una bambinetta, è ovvio che non riuscissi a riconoscerla. Ma sicuramente è Naomi, ora che me lo dici non ci sono dubbi.”
Sahira avvertì un fremito lungo la schiena.
“Quindi, non la vedete da anni? Non è passata da queste parti, di recente?”
“No, ragazzina, mi dispiace. Questo paese è piccolo, se fosse arrivata ce ne saremmo sicuramente accorti.” L’uomo che per primo aveva guardato la foto mandò giù un sorso di sakè. “La conosciamo solo perché suo padre è originario di questo paesino sperduto e quando era più piccola veniva spesso qui con i genitori. Sono parecchi anni però che non si vedono più, la casa di famiglia è praticamente abbandonata.”
La ragazza deglutì.
“Ah, così la famiglia possiede ancora una casa? Potrebbe dirmi dove si trova?”
L’uomo la guardò di sbieco, aggrottando le sopracciglia. “E a che ti serve saperlo? Ti ho detto che qui non è venuta, altrimenti l’avremmo vista.” Squadrò nuovamente Sahira da capo a piedi, mentre l’espressione diffidente riprendeva a dipingersi sul suo viso. “Non vorrai mica andare a rubare in casa d’altri, vero?”
Sahira sorrise gentilmente, intuendo che non era il caso di forzare troppo la mano. “Ha ragione, signore. Se non l’avete vista è assolutamente improbabile che sia da queste parti. La ringrazio infinitamente per l’aiuto.”
Prese la foto e, dopo aver salutato con un veloce inchino, si avviò verso l’uscita del locale.

Cercò di sopprimere il fastidio che provava e si concentrò sul suo piano: non avrebbe certo lasciato che venti giorni di ricerche venissero mandati all’aria dalla diffidenza di quell’uomo, ma d’altro canto non poteva neanche sembrare eccessivamente di fretta, altrimenti avrebbe aumentato i sospetti. A questo punto, inoltre, doveva sbrigarsi e trovare qualcuno che le desse le informazioni che le servivano prima che quel tizio e il suo amico uscissero dal locale: se avessero messo in giro la voce che una ragazza era interessata a conoscere l’ubicazione della casa dei Misora, ottenerne l’indirizzo sarebbe stato più difficile.
Erano parecchio diffidenti, in quel paesino.
Tornò velocemente sulla strada principale, alla ricerca di qualcuno relativamente in avanti con l’età a cui chiedere informazioni, confidando che le persone più anziane fossero anche più attaccate ai vecchi abitanti del luogo, come i Misora.
E fece centro.
La donna sulla settantina alla quale si avvicinò aveva un fare gentile e una grossa sporta della spesa al braccio, che Sahira si offrì gentilmente di portarle; dopo la morte del marito viveva da sola, in una casa piena di foto di una ragazza di circa venticinque anni, con i capelli e occhi scuri: sua nipote, come il Controllore ebbe modo di apprendere a seguito di un dettagliato resoconto sugli studi della ragazza, che al momento si trovava all’estero per lavoro. Tra un elogio e l’altro, Sahira riuscì anche ad ottenere l’indirizzo dell’abitazione dei Misora e le indicazioni per arrivarci.
Dopo aver mangiato svariati dolci, bevuto due tazze di tè e rifiutatane una terza, e soprattutto dopo essersi complimentata a più riprese per l’intelligenza della nipote della donna, il Controllore riuscì ad uscire dalla casa della sua informatrice.

La strada che portava verso casa dei Misora era sterrata e malmessa: più volte il Controllore rischiò di inciampare in sassi e in radici, e le ruote del trolley che si portava dietro continuavano ad incagliarsi. L’anziana donna con cui aveva parlato – o che, per meglio dire, aveva monologato fino a quel momento, sfruttando Sahira come pubblico – le aveva spiegato che al termine di quella via non c’erano altre costruzioni, oltre a quella della famiglia di Naomi; inoltre quella casa era disabitata da anni ormai, quindi nessuno aveva sentito l’esigenza di richiedere che la strada venisse rimessa in sesto.
L’edificio in questione era una grande villa poco fuori l’abitato, molto diversa dalle abitazioni semplici che costituivano il paese. Sahira aveva appreso che i Misora erano tra le famiglie più ricche di quella zona e questo spiegava i timori, tutto sommato fondati, riguardo la presenza di eventuali ladri interessati agli oggetti contenuti nella dimora.
Ma c’era un altro particolare che agli abitanti del villaggio era sfuggito: la casa era abbastanza lontana rispetto alle altre abitazioni, e questo, unito alla innata intelligenza di Naomi, l’avrebbe tenuta lontana da occhi indiscreti, qualora non avesse voluto farsi vedere.

Ormai era sera, un vento fresco si era alzato dai monti e Sahira rabbrividì, forse per il freddo, forse per l’eccitazione. I suoi piedi poggiavano piano sulla terra, sollevando mute nuvolette di polvere; l’unico rumore era il fruscio delle foglie. Persino i passi dietro di lei erano silenziosi, nonostante Sahira ne avvertisse distintamente la presenza.
La ragazza si avvicinò alla costruzione sentendosi il cuore in gola: la casa sembrava disabitata, proprio come avevano detto gli abitanti del villaggio. Tutt’intorno ad essa c’era un piccolo giardino in stile giapponese, con un laghetto artificiale e un piccolo fiumiciattolo. L’acqua scorreva lentamente, infondendo una sensazione di quiete che mal si sposava con l’aspetto ormai decadente dell’edificio.
Il Controllore suonò il campanello. Una volta. Due volte. Tre volte.
“Naomi, sei in casa?” La voce le uscì straordinariamente roca. “Sono Annie, Annie Sunders! Ti ricordi di me? Naomi?”
Nessuna risposta. Sahira alzò lo sguardo, scrutando l’abitazione. Non vedo antifurti, pensò la creatura, dovrei riuscire ad entrare facilmente. Altrimenti dovrò trovare un modo… non mi basta essere arrivata solo fino all’uscio.
Lasciò la valigia davanti all’entrata e cominciò a girare intorno alla dimora, spiando dalle finestre. Pensò, e quell’idea la face sorridere nonostante la situazione, che probabilmente la sua carriera come Controllore sarebbe stata intaccata da un’accusa di furto.

Si portò sul lato più nascosto dell’edificio e il sorriso le morì sulle labbra non appena alzò lo sguardo verso una finestra scardinata del primo piano: non poteva vederne l’interno, ma dal soffitto pendeva inequivocabilmente una corda.
La corda era tesa, portata verso il terreno da qualcosa di pesante.

Ci siamo.
La creatura rimase per qualche istante a fissare quella corda, soddisfatta. Le sue previsioni erano giuste, era riuscita ad arrivare fin lì. Respirò a fondo, riflettendo freneticamente: doveva riuscire ad avvicinarsi a quella corda e a ciò che vi era legato.
Si voltò di colpo, individuando uno degli alberi del giardino: era alto, anche se non molto vicino all’abitazione. Non l’avrebbe aiutata ad entrare dalla finestra, ma almeno sarebbe stato sufficiente per poter vedere dentro.
Cominciò ad arrampicarsi, il tronco umido e ruvido sotto la sua pelle; ogni sforzo per salire le mozzava il respiro. Arrivò all’altezza della finestra e chiamò di nuovo, stavolta a bassa voce. Guardò dentro, eccitata alla prospettiva che il suo piano stesse per giungere al termine, ma la verità è che non era abbastanza preparata.

Sahira non aveva mai sentito l’odore della morte; non ne aveva mai visto l’aspetto, lei, destinata all’incorruttibilità del corpo.
Non ne aveva mai sentito il rumore, ronzio incessante di migliaia di mosche ancora vive, che si cibano di ciò che resta.

Non cadde solo perché aveva iniziato a stringersi al tronco spasmodicamente, tremando da capo a piedi, attraversata da brividi di caldo e freddo.
Scese faticosamente dall’albero e si chinò verso terra, rimettendo quel poco che aveva mangiato nelle ultime due ore, mentre i singhiozzi la scuotevano ripetutamente, fuori controllo; si asciugò gli occhi con la manica della maglietta, osservando stupita il liquido umido che le colava sulle guance e che veniva assorbito dalla stoffa. Aveva appena imparato che anche i Controllori piangono.
“Aiuto!” urlò, la bocca ancora impastata, “aiuto!”
Provò ad alzarsi, ma inciampò nei suoi stessi piedi, spossata. Si accasciò contro l’albero, priva di forze, consapevole che per non mandare in fumo il suo piano, nonostante le pessime condizioni, l’unica cosa che avrebbe potuto fare era continuare ad urlare.
“Ho bisogno di aiuto! Una donna è morta…”
I suoi singhiozzi erano così rumorosi che quasi non si accorse dei passi che le si stavano avvicinando; poco dopo, la luce della luna fu oscurata dall’ombra di un uomo, chino su di lei.
“Cosa c’è? Stai bene?”
Sahira lo guardò per qualche istante senza riconoscerlo, poi mise a fuoco un volto noto. La ragazza provò a deglutire, nonostante la bocca amara e la gola in fiamme.
“Naomi… Naomi Misora è lì dentro…”
L’uomo si voltò verso la casa, seguendo lo sguardo di Sahira, che puntava verso la finestra. E vide la corda.
“Aspettami qui, torno immediatamente.”
L’uomo si avviò verso l’entrata principale e qualche minuto dopo Sahira sentì il rumore di una porta sfondata, seguito da quello di passi veloci che salivano delle scale di legno.

 Ho quasi mandato tutto all’aria, pensò il Controllore furiosamente, ancora semi sdraiata contro l’albero, mi sono fatta prendere da un attacco di panico. Fortunatamente così la scenata è stata più verosimile, ma una perdita di controllo di questo tipo mi può far saltare la copertura.

Sahira si alzò, sorreggendosi al tronco freddo, le gambe che tremavano ancora; si costrinse ad avanzare verso la porta principale, che trovò scardinata verso l’interno.
La casa era silenziosa e buia, l’odore di chiuso quasi palpabile; la ragazza si diresse verso la scala di legno che l’uomo aveva percorso poco prima e, sostenendosi al corrimano impolverato, arrivò al piano superiore.
Ad ogni gradino, un piccolo tuffo al cuore. Ma non poteva permettersi altri errori.
Si immobilizzò, in ascolto: da una porta aperta proveniva, flebile, la voce dell’uomo che l’aveva soccorsa e pedinata fino a quel giorno. Stava parlando al telefono con qualcuno, quasi mormorando.
Il Controllore si avvicinò senza far rumore, appiattendosi contro il muro.

“... sì, la ragazza è di sotto, si è sentita male quando ha visto il cadavere.”

L’uomo mugolò qualcosa in segno di assenso, ascoltando attentamente ciò che qualcuno stava gli dicendo dall’altra parte del telefono. Sahira si sporse quel tanto che bastava per permetterle di guardare dentro: il suo pedinatore si aggirava attorno al cadavere, frugandolo con le mani coperte da guanti di lattice, che evidentemente aveva portato con sé per tutto quel tempo. Teneva il telefono nell’incavo della spalla, bloccato con la testa ripiegata.

“Non ha documenti con sé” disse infine, “per il riconoscimento dovremo aspettare la scientifica.”

Ci fu un attimo di silenzio, mentre l’individuo ascoltava ciò che gli veniva ordinato. Dal telefono proveniva un indistinto brusio.

“Certo, capisco. Meglio che questa morte venga tenuta separata dal caso Kira.”

Dall’altra parte del cellulare qualcuno riprese a parlare, ma l’uomo non lo stava più ascoltando: si era immobilizzato al contatto con la sua schiena di quella che aveva riconosciuto essere una canna di pistola. Non aveva neanche provato a girarsi.

“Non riattaccare. Non chiudere la conversazione o sei morto.”

Il rumore secco della sicura che scattava sottolineò il concetto.

“Passami il telefono, lentamente e senza voltarti.”

L’uomo esitò, poi ruotò il braccio destro in modo da passare il cellulare alla persona dietro di lui; Sahira si sporse per afferrarlo, premendogli ancora più a fondo la pistola nella schiena. Ora che era abbastanza vicina, poteva sentire distintamente la voce dall’altra parte dell’apparecchio chiedere se andasse tutto bene.
Un sorriso tirato le si dipinse sul viso, mentre, con un movimento che le sembrò durare anni, si portava il telefono all’orecchio. Quando parlò, la voce non le parve neanche la sua.

“Ciao, L.”



Angolo autrice

Eccomi di nuovo!! Ebbene sì, dopo tre capitoli il contatto è avvenuto... scommetto che ormai avevate perso le speranze XD Un grazie enorme a chiunque sia arrivato fin qui :)
Elrais
   
 
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