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Autore: MaraschinoCherry    26/11/2015    0 recensioni
Questa storia parte da una domanda: E se Voldemort non fosse stato potente come nei libri? Infanzia difficile, odio per babbani e mezzosangue, ambizioni di totale controllo, indole manipolativa e crudele, a Tom Riddle non manca niente per diventare il cattivo perfetto. Questo se non fosse un mago terribilmente mediocre, ecco. Come se questo non bastasse, ci si mette di mezzo una profezia ad intralciare il cammino verso il potere di Tom. A quanto pare, per poter proseguire per la sua strada, Voldemort dovrà uccidere un bambino di poco più di un anno o, altrimenti, quello ucciderà lui. Peccato che l'attacco del 31 ottobre 1981 ai danni di Harry sia stato un flop colossale. Da allora i Potter vivono fra i babbani, in una casa sotto l'effetto dell'incantesimo Fidelius, questa volta con un custode segreto più affidabile. Ma che effetti avrà avuto questo battito d'ali di farfalla nel mondo magico? E la profezia è davvero quello che sembra?
Genere: Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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“Registro degli alunni del primo anno di Hogwarts per il ciclo scolastico 1991/1992, lettere inviate da Caramell al Ministero di Glasgow e un documento a proposito di certi esperimenti segreti che vengono svolti nei sotterranei del Ministero a Londra.”

Amycus Carrow, seduto ad un tavolo nel retro del pub 'Vlad the Impaler', alla periferia di Glasgow, stava freneticamente sfogliando le carte che aveva davanti.

“Sì, mi sembra che ci sia tutto.” constatò, sistemando i fogli in una pila ordinata ed infilandoli in una busta di carta marrone, di quelle che di solito si usano per spedire la posta, per poi sigillarla con della ceralacca.

La sorella Alecto, seduta davanti a lui, lo osservò silenziosa durante tutto il processo, con un broncio che riusciva ad indurire anche i suoi delicati tratti somatici.

“L'unica cosa che ci rimane da fare adesso è portarli al Signore Oscuro.” disse Amycus in tono soddisfatto. L'uomo afferrò il boccale di birra appoggiato sul tavolo e ne bevve un lungo sorso. Alecto, dal canto suo, non sembrava troppo entusiasta del risultato positivo della missione; ma d'altronde una costante, ingiustificata rabbia ed un odio per la vita in generale potevano essere considerati come i suoi due unici stati mentali. Non importa in che situazione, se a un matrimonio, a un battesimo o a un funerale: gli angoli della bocca di Alecto erano incessantemente piegati all'ingiù, vittime di una sovrumana forza di gravità.

Amycus posò la birra e si fregò via la schiuma bianca dal labbro superiore con la manica della giacca. Si fermò per qualche momento ad osservare la sorella, che se ne stava a braccia conserte a studiare i ghirigori nel legno del tavolo.

“Che hai adesso?”

Alecto continuò ad osservare con perseveranza i segni di coltello che intaccavano la superficie davanti a lei.

“Forse un solo babbano morto non è stato abbastanza per te? E' questo che ti disturba, non è vero?” le domandò Amycus “Be', devo ammettere che anch'io sono rimasto piuttosto insoddisfatto. Ci sono così tanti barboni a giro e a nessuno importa di loro, non sarebbe successo niente se ne avessimo accoppato un altro. Ma gli ordini sono ordini.”

L'uomo bevve dell'altra birra prima di continuare.

“Alla fine quello lì, quel George, ce l'ha fatto ammazzare e spezzettare solo per fare quella battuta squallida. 'E' a pezzi, poverino!'” Amycus scoppiò in una risata sarcastica. “Esilarante, non trovi?”

Alecto alzò la testa verso il fratello, penetrandolo con i suoi occhi color del ghiaccio, e altrettanto freddi.

“Dovremmo sbrigarci a portare quei documenti al Signore Oscuro.”

Amycus roteò gli occhi, infastidito dall'inflessibile senso del dovere della sorella.

“Finisco questa birra e andiamo.” Ma non fece in tempo a far arrivare il boccale alle labbra che un dolore lancinante gli assalì l'avambraccio sinistro. Si afferrò la parte dolente con la mano destra, lasciando cadere a terra il bicchiere. Il boccale si frantumò contro il pavimento in tante piccole schegge di vetro, che brillavano annegate dal liquido dorato che avevano contenuto fino a un attimo prima.

“Cazzo!” esclamò l'uomo.

“Ci sta chiamando.” precisò inutilmente Alecto, sfregandosi anche lei il punto dove si trovava il tatuaggio in un tentativo di scacciare via il dolore più rapidamente. Si alzò in piedi dalla sedia e si rivolse al fratello: “Ti ricordi la procedura, vero? Prima ci smaterializziamo a Birmingham, poi tu a Londra ed io di nuovo a Glasgow, e solo alla fine a Little Hangleton.”

“Sì, sì. Non c'è bisogno di ricordarmi le cose ogni dieci minuti, non ho più due anni.”

Alecto alzò un sopracciglio alle parole scocciate del fratello. Il fantasma di un'espressione divertita le attraversò il viso per un secondo, prima che quello tornasse al suo naturale stato di apatia. La ragazza decise di non fargli notare che, quando lui aveva due anni, lei non era neanche stata concepita e quindi le sarebbe risultato un po' difficile rimproverargli la sua cattiva memoria.

Amycus si alzò da dove era a sedere, stando attento a non pestare il vetro frantumato sul pavimento, e si voltò verso la sorella.

“Pronta?”

Quella scosse il capo in segno di assenso e, tempo un battito di ciglia, entrambi scomparirono dalla stanza con un rumoroso ed assordante 'POP!'.

Il proprietario del pub, attirato dal fracasso, si precipitò nel retro del locale. Spalancò la porta, trovandosi davanti una stanza completamente vuota e priva di movimento, se non per il leggero ondeggiare delle tende a causa dell'improvviso e violento spostamento d'aria provocato dalle smaterializzazioni. I due clienti, che poco prima lo avevano abilmente persuaso – se puntare una bacchetta magica contro la gola del malcapitato di turno e descrivergli con inaudita delizia i modi in cui potrebbe venire ucciso si può descrivere come 'abile persuasione' – a procurare loro un posto più appartato dove mantenere la loro privacy, erano svaniti.

Lo sguardo dell'uomo cadde infine sui resti di vetro del boccale che giacevano a terra, annegati nella birra. In un impeto di rabbia sbattè il pugno contro lo stipite della porta, facendo tremare il legno, ed esclamò: “Quei bastardi! Non mi hanno neanche pagato!”

 

 

**********

 

 

Harry era ancora frastornato dai festeggiamenti per l'inizio dell'anno scolastico e dalla cerimonia di smistamento quando varcò la soglia del dormitorio che gli era stato assegnato, assieme agli altri studenti del primo anno. Aveva bevuto più succo di zucca poco prima a cena di quanto ne avesse consumato in tutta la sua vita, e il sapore non gli era mai parso così dolce come quella sera. Sembrava che i sensi si amplificassero all'interno della Sala Grande: la crosta del pollo arrosto era più croccante, la frutta più profumata, i colori più vividi, le risate più rumorose. Harry - essendo soltanto un ragazzino di undici anni - non si era mai ubriacato prima ma, se qualcuno in quel momento gli avesse chiesto di immaginare come ci si senta da ubriachi, lui avrebbe risposto che la sensazione più simile ad un'inebriatura da alcol che si potesse provare senza berne neanche una goccia era starsene nella Sala Grande di Hogwarts il giorno dell'apertura della scuola.

Adesso, dopo avere infilato il pigiama ed essersi buttato a peso morto sul letto, Harry era sdraiato supino, con lo sguardo appannato dall'assenza degli occhiali, immerso nell'oscurità. Il buio e il silenzio del dormitorio erano manna mandata dal cielo per i suoi sensi sfiniti.

Il ragazzino pensò che sarebbe stato meglio mettersi a dormire, visto che l'indomani mattina sarebbero cominciate le lezioni, ma una strana, incessante euforia e i rimasugli dell'adrenalina che era entrata in circolo durante il dibattito mentale fra sé stesso e il Cappello Parlante alla cerimonia di smistamento impedivano alla sua mente di riposare.

Aveva bisogno di qualcosa che lo tenesse occupato, almeno fino a quando non gli fosse venuto un po' di sonno. Stese un braccio verso il comodino di fianco al letto, accese la piccola lampada ad olio che vi era sopra, inforcò gli occhiali ed aprì il secondo cassetto, dove aveva riposto penna, boccetta d'inchiostro e pergamena. Li tirò fuori, insieme a un libro dalla copertina dura, per usarlo come una superficie rigida dove appoggiare la carta mentre scriveva. Svitò il tappo della boccetta d'inchiostro, facendo molta attenzione a non rovesciare il contenuto sulle lenzuola intonse, e la mise sul comodino.

Prese in mano la penna bianca - che aveva comprato solo qualche giorno prima in un negozio di Diagon Alley - e la intinse nel liquido scuro, dall'odore pungente. Poggiò con mano incerta la punta carica di inchiostro sulla carta.

Ci sarebbe voluto un po' di tempo prima che si fosse abituato a scrivere senza l'aiuto di biro e penne a sfera, babbane ma infinitamente più pratiche.

 

 

17 Tumbleweed Crescent, Richmond-upon-Thames, Londra

 

Cari mamma e papà,

lo smistamento è andato molto bene e io sono stato assegnato a Grifondoro! Quando il Cappello Parlante lo ha urlato di fronte a tutta la scuola non ci potevo credere, perché è la stessa casa dove siete stati smistati anche voi e non pensavo che sarei finito lì. Ma il Cappello Parlante ha deciso così ed io non potrei essere più felice!

Insieme a me sono stati smistati anche due bambini che mi hanno fatto compagnia durante il viaggio in treno, Hermione e Neville. Sono finiti in Grifondoro anche loro e Neville è in stanza con me mentre scrivo, insieme a Ron, Dean e Shamus (Non sono sicuro di come si scriva), ma stanno tutti già dormendo penso.

Neville ha un rospo di nome Trevor che ha già perso due volte. La prima volta in treno, la seconda mentre stavamo per essere smistati. Trevor è l'unico ancora sveglio a parte me e non la vuole finire di gracchiare.

Domani cominceranno le lezioni e alla prima ora ci sarà trasfigurazione con la professoressa McGranitt. La conoscete? E' stata lei a mettermi il Cappello Parlante in testa.

 

Harry si fermò a rileggere ciò che aveva appena scritto. Gli sembrava di non aver lasciato fuori nessuna informazione vitale dalla lettera. C'era solo una cosa che aveva volutamente omesso, e riguardava il suo smistamento.

Nell'istante in cui la McGranitt aveva posato il Cappello Parlante sul capo di Harry un pensiero irrefrenabile aveva attraversato la mente del bambino, una richiesta disperata dettata dalla paura di poter deludere suo padre.

“Non Serpeverde. Tutto, ma non Serpeverde.”

“Oh?” Il Cappello sembrò sorpreso dall'immediata reazione del ragazzino. “Perchè non Serpeverde?”

Harry non rispose. Forse non lo sapeva neanche lui il perché. Nonostante questo, il bambino continuò a ripetere ostinatamente il suo mantra, nella speranza di bloccare ogni altro pensiero che potesse spingere il Cappello a fare la decisione sbagliata.

“Guarda che potresti diventare un grande mago, sai? Serpeverde è la casa che ha forgiato le menti più fini di tutta la Gran Bretagna. In te vedo intelligenza, astuzia, fegato da vendere. Se venissi smistato in Serpeverde, tutto questo potenziale non andrebbe sprecato.”

Ma Harry era irremovibile.

“Incredibilmente testardo, vedo. Va bene, se è proprio questo che vuoi...” Il Cappello si concesse un attimo di pausa, prima di raddrizzare il suo corpo di stoffa lacera e urlare, in modo che la Sala intera lo potesse sentire: “GRIFONDORO!”

La voce potente del Cappello – così profonda da sembrare antica quanto il tempo stesso - si abbattè come un tuono sul silenzio quasi religioso che regnava in Sala, seguita da uno scroscio di applausi e grida di gioia provenienti dal tavolo dei Grifondoro. La McGranitt tirò via il cappello dalla testa di Harry afferrandolo per la punta, per poi mettersi ad applaudire anche lei, con un malcelato sorriso compiaciuto ad illuminarle il viso raggrinzito. Harrry si precipitò in direzione del tavolo dei Grifondoro. Il nodo alla bocca dello stomaco, che lo aveva disturbato sin dal momento in cui aveva varcato la soglia del castello, si era sciolto nell'udire il Cappello Parlante gridare quelle dieci lettere all'intera Sala Grande. C'era stato un momento - quando il Cappello aveva cominciato a parlargli di che ottimo Serpeverde sarebbe potuto diventare - in cui grosse, calde, salate lacrime avevano minacciato di uscire dagli occhi di Harry. Il Cappello, intuendo il disagio che avrebbe scatenato nel cuore del ragazzino quella decisione, aveva deciso di optare per un verdetto che lo rendesse felice nell'immediato, ed Harry non avrebbe potuto essergli più grato.

Sì, in fondo non c'era bisogno che suo padre sapesse della sua conversazione con il Cappello Parlante. Come diceva il proverbio; occhio non vede, cuore non duole. Quindi, soddisfatto della lettera che aveva scritto, Harry intinse la punta della penna nell'inchiostro per un'ultima volta prima di firmarsi. Scrisse il suo nome nella miglior calligrafia che gli riuscisse, posò la penna sul bordo della boccetta e sventolò la pergamena per farla asciugare più velocemente.

La mattina seguente, prima dell'inizio delle lezioni, si sarebbe recato su in Guferia ed avrebbe consegnato la lettera ad uno dei tanti gufi e civette che popolavano la torre.

Il bambino, adesso decisamente assonnato, girò la manopola della lampada ad olio per spegnerla, si tolse gli occhiali e li ripose con cura sul comodino, e si infilò sotto le coperte di raso rosso, sperando vivamente che l'incantesimo Fidelius non avesse effetto sui gufi.

 

 

***********

 

 

Era mattina e Lily Evans era a letto, i sensi annebbiati dal dormiveglia. La linea fra il mondo reale ed il reame dei sogni era ancora piuttosto confusa nella sua mente, sbavata come il tratto di pennarello di un bambino pasticcione. Per questo non si alzò subito quando vide un buffo e sgraziato uccello marrone sbattere contro il vetro della finestra per una, due, tre volte. Ma, alla quarta testata data dall'animale, la donna cominciò ad allarmarsi. Era troppo insistente per trattarsi soltanto di un'allucinazione audio-visiva mattutina. Lily si sfregò gli occhi, ancora appannati da una notte di sonno più o meno irregolare, e posò lo sguardo sulla finestra.

Dall'altra parte del vetro si trovava un uccello, un gufo per la precisione, che la osservava con i suoi due grandi occhi gialli. Legato ad una zampa aveva un foglio ripiegato alla meno peggio, che era stato attaccato all'arto dell'animale con l'aiuto di un pezzo di spago.

Era da un bel po' di tempo che non riceveva posta via gufo.

La donna si alzò dal letto, barcollando in direzione della finestra. Lily constatò, con uno sguardo rapido al cielo, che non potevano essere più delle nove. Girò la maniglia e spalancò il vetro, facendo sì che sia l'aria pungente del mattino che il gufo entrassero nella stanza. L'animale si andò a posare sulla ringhiera posteriore del letto emettendo un verso acuto, che Lily interpretò come un grido di disappunto per essere stato ignorato per più tempo di quanto ritenesse accettabile. La donna richiuse la finestra e si avvicinò all'uccello, accarezzandogli la testa piumata e slegando lo spago che gli teneva la lettera legata alla zampa. Era un foglio di pergamena, come quelli che aveva usato anche lei anni prima, durante la sua permanenza ad Hogwarts.

Una lettera dalla scuola?

Lily si sentì la testa improvvisamente leggera, una paura strisciante che si stava facendo strada risalendo dalle sue viscere fino alla gola.

Il giorno prima loro erano a Glasgow, a pochissimi chilometri da Hogwarts, ad un passo da Harry. Poteva essere successo di tutto, diamine!

No.

No, doveva essere razionale, doveva calmarsi. Se si fosse trattato di qualcosa di serio avrebbero trovato un modo più formale di comunicarglielo. Non c'era nessun sigillo di ceralacca, niente ghirigori articolati, nessun timbro ufficiale. Infatti, quella lettera non aveva nessuna caratteristica che potesse far pensare ad un comunicato importante. Lily ingoiò il groppo che le si era formato in gola e si decise a spiegare il foglio.

Non appena posò gli occhi sulle prime parole della lettera si lasciò scappare un sospiro di sollievo, mentre un piacevole calore le si espandeva nella pancia, prendendo il posto del puro e viscerale terrore che l'aveva assalita poco prima.

La scrittura di Harry riempiva metà del foglio, raccontando di rospi, dubbi di ortografia, e della sua incolumità fisica e mentale – anche se l'ultima parte era soltanto sottintesa. Lily sorrise involontariamente leggendo la lettera spedita dal figlio, e quando ebbe finito si mise alla ricerca di carta e penna. Una volta trovato tutto il materiale necessario, la donna non perse tempo e si mise subito a scrivere una lettera di risposta.

 

 

Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, Scozia

Caro Harry,

grazie per avermi fatto sapere così prontamente della tua cerimonia di smistamento! Come ti avevo già detto ieri mattina, la tua casa di appartenenza non è importante per me, non quanto lo sia il fatto che tu ti senta felice e realizzato.

Sì, Harry, conosco la professoressa McGranitt. Era insegnante di trasfigurazione anche quando frequentavo io Hogwarts, molti anni fa. All'inizio potrà sembrarti severa ed eccessivamente rigida, ma vedrai che con il passare del tempo si rivelerà essere un'ottima professoressa.

Sono felice di sentire che ti sei già fatto degli amici! E il nome del ragazzino che tu chiami 'Shamus' dovrebbe essere scritto così: 'Seamus'. Anche se, effettivamente, si pronuncia come 'Shamus' essendo un nome irlandese. Piuttosto, cosa ci facevi tu sveglio mentre tutti gli altri erano a dormire? Non fraintendermi, mi fa piacere che pensi a me e a tuo padre anche mentre ci sei lontano ed hai di meglio da fare, ma forse non dovresti sottovalutare in questa maniera i benefici di una buona notte di sonno. La prossima volta vedi di trovare un orario più appropriato per decidere di scriverci. Va bene, tesoro?

Con affetto,

mamma.

 

Lily, una volta finito di comporre la lettera, piegò il foglio fino a ridurlo a niente più che un piccolo quadratino di carta e recuperò il pezzo di spago che era stato legato alla zampa del gufo. Si avvicinò all'animale – che nel frattempo si era appisolato sulla ringhiera del letto – e cercò di attaccare la nuova lettera alla sua zampa. Non fece in tempo a toccarlo, che quello sbarrò gli occhi e si mise a gracchiare in segno di protesta.

Oh, be'. Qualche minuto in più di attesa non avrebbe fatto crollare il mondo.

 

***********

 

“Quindi, prima che tu vada al lavoro, hai intenzione di spiegarmi perché ieri ti sei precipitato per l'ennesima volta in casa mia come se stesse per crollare il mondo?”

La voce di Sirius Black era rauca, le sue corde vocali avrebbero avuto bisogno di qualche altro giro di prova prima di riprendersi da una notte di disuso. Se ne stava appoggiato allo stipite della porta d'ingresso della cucina, con lo sguardo assonnato posato su un uomo seduto all'estremità di un lungo tavolo di legno scuro che occupava buona parte dello spazio disponibile nella stanza. L'uomo sembrò non averlo sentito e continuò imperterrito a fissare il fondo della sua tazza di caffè.

“Penso che i rimasugli del caffè stiano cercando di dirmi qualcosa.”

Non era sicuramente la risposta che Sirius avrebbe voluto sentire. Infilò la mano destra nella tasca dei pantaloni del pigiama – Tasche nei pantaloni del pigiama? Che cosa diavolo si dovrebbe portare una persona a letto che avesse bisogno di essere messo in tasca? -, raddrizzò la schiena, e sollevò un sopracciglio.

“E cosa pensi che vogliano dirti di così importante gli avanzi della colazione, James?”

L'uomo – James - sollevò la tazza vuota dal tavolo, portandosela più vicina al viso. Corrugò la fronte in un'espressione di finta concentrazione e, dopo aver osservato a fondo la forma presa dal liquido scuro sulla ceramica, alzò lo sguardo verso Sirius.

“Mi dicono che una certa persona, che è qui con me in questo momento, avrebbe bisogno di tenere la bocca chiusa e il suo naso invadente fuori dagli affari degli altri.”

“Per quella cosa del naso non posso farci niente. Istinto animale, credo.”

James non sembrò aver apprezzato la battuta. Si alzò bruscamente da dove era a sedere e si diresse verso il bancone della cucina, posando la tazza sporca nel lavello con poca cura, facendola cadere di lato. Il rumore della ceramica che sbatteva contro la porcellana rimbalzò sulle pareti dell'ampia stanza, amplificandosi, come una crepa nel silenzio. James rimase a guardare la tazza girare su sé stessa sulla superficie fredda ed umida del lavello, come se si aspettasse di ricevere delle scuse per il gran fracasso che aveva provocato. Ma la tazza – essendo niente più che un oggetto inanimato e privo di volontà propria – non pronunciò parola, limitandosi a rallentare la sua corsa inconcludente fino a fermarsi.

Sirius staccò la spalla che teneva appoggiata allo stipite della porta e si diresse verso James a grandi passi.

“Gli affari degli altri smettono di essere tali quando ci si ritrova a dover ospitare senza preavviso una persona in casa almeno una volta a settimana, e senza una ragione apparente né spiegazioni di alcun tipo.”

Gli occhi grigi dell'uomo avevano perso ogni traccia di sonnolenza e stavano puntando la schiena di James - ancora rivolto verso il lavello - con lo sguardo di un lupo affamato davanti alla preda. James si voltò, evitando accuratamente di incrociare gli occhi di Sirius, e borbottò: “E' tardi. Scusa, ma devo andare.”

“E che cazzo, no!”

James fu colto di sorpresa dalla spinta – neanche tanto forte - che gli dette Sirius, mandandolo a sbattere contro il bancone della cucina. Nell'impatto con il mobile l'uomo si sbilanciò, facendo sì che gli occhiali in precario equilibrio sulla punta del suo naso cadessero sul pavimento. Si affrettò a chinarsi e a raccoglierli da terra, ispezionandoli nel miglior modo che la sua vista appannata gli permettesse.

“Prega per te che non si siano rotti!”

Sirius ignorò la minaccia rivoltagli.

“Ti sto solo chiedendo una spiegazione, James! Negli ultimi mesi hai passato più notti qui che a casa tua, ed io vorrei sapere perché. Hai una famiglia, cazzo!”

“Ah! Sirius Black che si mette a moralizzare! Adesso le ho viste proprio tutte!”

“Non sto moralizzando, sono realista.”

James fissò la silhouette umanoide davanti a lui, nient'altro che una sagoma priva di tratti distintivi. Se Sirius non si fosse trattato dell'unica altra persona in stanza con lui, avrebbe avuto difficoltà a distinguerlo senza l'aiuto delle lenti.

“Non ne voglio parlare.”

Dopo aver constatato che gli occhiali - nonostante l'incontro ravvicinato con le mattonelle - erano ancora integri, se li infilò. Adesso riusciva a vedere Sirius, perfettamente definito fino al suo più piccolo, esasperato dettaglio: dalle sopracciglia sollevate alle braccia conserte davanti al petto, passando per la bocca aperta in un'espressione di leggero stupore.

“Non ne vuoi parlare?”

“Non ne voglio parlare.” ripetè per la seconda volta James.

“E perché, di grazia?”

Sirius Black aveva tant i difetti, ma fra questi non rientrava la condiscendenza: una volta addentata la preda, non l'avrebbe lasciata andare fino a che non ne fossero rimaste che le ossa e, in quel momento, il desiderio di scoprire quale scheletro nascondesse James nell'armadio lo stava ardendo vivo. Che gli piacesse o no, James avrebbe dovuto vuotare il sacco.

“Sono- sono fatti privati, va bene?” James si fermò per un attimo a ponderare se dire o no quello che gli era venuto in mente, se fosse stato troppo cinico, troppo crudele a rinfacciare fatti avvenuti anni prima. Ma, come un vomito verbale, le parole uscirono dalla bocca dell'uomo, irrefrenabili.

“E poi se prima di ospitarti ti avessi dovuto sottoporre ad un interrogatorio del genere quando ti sei presentato davanti a casa mia quindici anni fa, a quest'ora sarei sempre lì ad ascoltarti lamentare.” sbraitò l'uomo con gli occhiali.

La faccia di Sirius sbiancò con una velocità impressionante nell'udire quelle parole.

“Sono due-” Sirius ingoiò lo spesso grumo di saliva che gli bloccava la gola e gli rendeva difficile parlare “-due cose diverse, due situazioni diverse. Non le puoi comparare in questa maniera.”

“Perchè no? Anche tu non volevi mai parlare delle ragioni per cui eri scappato di casa nello specifico. La stessa casa dove adesso passi la maggior parte del tuo tempo a bere whisky girandoti i pollici, mi permetto di aggiungere.”

Forse adesso aveva oltrepassato il limite. Sirius aveva gli occhi sbarrati e guardava James come se volesse azzannargli il collo e strappargli la testa a morsi; ogni terminazione nervosa all'erta, ogni muscolo del corpo teso fino al punto di tremare.

“Almeno tu sapevi qualcosa! A grandi linee magari, ma sapevi qualcosa! E poi avevo solo sedici anni, e quella non era la mia famiglia!” urlò Sirius.

James alzò un sopracciglio.

“Non lo era?”

“Non come lo sono Harry e Lily per te! Cazzo, James, ma che ti passa per la testa?”

Sirius, sentendosi la testa leggera per l'arrabbiatura, si mise a sedere. Ci mancava soltanto che svenisse. Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, cercando di calmarsi.

James lo guardò mentre si sorreggeva il capo con le mani, scuotendolo in segno di diniego e borbottando qualcosa di indecifrabile sottovoce. Quanto sapeva essere drammatico. L'uomo con gli occhiali sospirò.

“Va bene. Vuoi una spiegazione?”

James si sedette di fronte a Sirius, prendendo posto sul lato opposto della tavola. Sirius sollevò la testa piena di capelli neri che, mentre teneva il capo rivolto verso il basso, gli erano ricaduti davanti al viso.

“Le cose fra me e Lily non sono- non vanno a gonfie vele, ecco.”

Sirius ci mise un po' prima di rispondere, come se stesse facendo fatica a digerire ciò che gli era stato appena detto. Non che fosse eccessivamente sorpreso dalla notizia, si era già immaginato che ci fosse qualcosa di simile dietro alle frequenti visite di James, ma sentirglielo dire ad alta voce gli provocò un'improvvisa pesantezza alla bocca dello stomaco.

“Da quando?”

“Da un bel po' di tempo.”

“Quanto tempo?” Sirius sbattè lievemente la mano contro il tavolo in segno di stizza. “Mesi? Anni?”

James alzò gli occhi al cielo di fronte allo spirito inquisitivo di Sirius.

“Qualche anno. Ma le cose sono peggiorate ultimamente.”

“Da quando hai cominciato a venire a dormire da me, suppongo.”

James annuì, mordendosi il labbro inferiore nervosamente e guardando ovunque tranne che in direzione dell'uomo che gli stava di fronte. Era a disagio e non vedeva l'ora di porre definitivamente fine a quella spiacevole conversazione. Fece per alzarsi ma Sirius lo afferrò per l'avambraccio, impedendoglielo.

“E, se mi è permesso chiederlo, quali sono le ragioni dietro a questo-” si fermò, in cerca di un termine adatto alla situazione “-disinnamoramento?”

“E che ne so, Sirius. Sono cose che succedono.” Sirius lo penetrò con lo sguardo, gli occhi ridotti a due piccole fessure. Non se la sarebbe bevuta così facilmente.

“Forse mi sbaglio, ma penso che cose così non saltino fuori all'improvviso” Sirius si leccò le labbra, in anticipazione della rivelazione che – ne era sicuro – avrebbe ottenuto da James di lì a poco. In quanto ad estorcere informazioni, non vi era persona in tutta la Gran Bretagna più abile di Sirius Black. Certo, c'era il vecchio Alastor Moody che avrebbe fatto confessare anche un sasso se i sassi avessero avuto qualcosa da nascondere, ma Sirius, al contrario di Moody, alla forza bruta preferiva il gusto del subdolo. Suo fratello Regulus non perdeva mai occasione per fargli notare quanto questo suo talento lo rendesse un Serpeverde mancato, con grande irritazione di Sirius. “Allora? Vuota il sacco.”

“Lily ed io abbiamo opinioni diverse su come gestire questa storia della Profezia.”

Sirius sollevò un sopracciglio. “La Profezia?” Ecco che il fulcro della questione veniva alla luce, la carne marcia che cadeva a pezzi e si decomponeva scoprendo lo scheletro.

“Sì, la Profezia. Giuro su tutto ciò che è sacro che 'sta Profezia mi ha rovinato la vita. Il fatto è che Lily si preoccupa troppo, secondo me. Insomma, alla fine la questione è piuttosto semplice: Harry, quando sarà abbastanza grande e potente per farlo, sconfiggerà Voldemort. Ma Lily non fa altro che preoccuparsi, e alla fine ha reso la cosa più difficile per tutti.”

“Be', devi ammettere che c'è una parte della Profezia che è piuttosto preoccupante.”

“Lo so, lo so, lo so!” James si mise le mani fra i capelli dall'esasperazione “E' di mio figlio che parla quella dannata Profezia, l'ho letta talmente tante volte che ormai la conosco a memoria!” L'uomo smise di parlare per riprendere fiato.

“Siamo scampati a Voldemort già una volta quando Harry era piccolo,” riprese con voce più bassa e calma James “e l'esperienza ci ha insegnato ad essere più cauti nello scegliere le nostre amicizie e di chi fidarci.” E qui Sirius neanche si sforzò a nascondere il sorriso presuntuoso che gli increspava gli angoli della bocca. “Negli ultimi anni abbiamo adottato tutte le precauzioni possibili per proteggere Harry: abbiamo vissuto in mezzo ai babbani, abbiamo applicato l'incantesimo Fidelius anche alla nostra nuova casa. Cazzo, ci siamo addirittura cambiati il cognome per evitare che ci trovassero più facilmente! Il periodo peggiore ce lo siamo lasciato alle spalle adesso che Harry è cresciuto. Ieri è andato per la prima volta ad Hogwarts, e lì c'è Silente ad accertarsi che sia al sicur-”

“Aspetta, aspetta un attimo.” lo interruppe Sirius, facendogli segno con la mano di smettere di parlare “Harry è partito per Hogwarts?”

James lo guardò strano. “Sì. Ieri era il primo settembre e, se ti ricordi bene, il primo settembre è il giorno in cui parte l'espresso per Hogwarts.” disse, scandendo chiaramente e lentamente ogni parola come se si stesse rivolgendo ad un bambino un po' tardo di comprendonio. “Harry ha compiuto undici anni appena un mese fa. Pensavo che avessi già fatto due più due e non ho sentito il bisogno di dirtelo.”

“Sì, mi ricordo, è solo che- cavolo, è già così grande?” mormorò Sirius, genuinamente sorpreso. Tenere conto del passare del tempo non era mai stato un suo punto forte e, se da una parte era una caratteristica che poteva portare dei vantaggi, dall'altra lo alienava dal resto del mondo. Vivere nella propria testa e con le proprie regole è in egual maniera un beneficio e una maledizione, in fondo.

James si schiarì rumorosamente la voce per richiamare l'attenzione dell'uomo davanti a lui e riportarlo alla realtà. Sirius puntò i suoi occhi grigi su James facendogli cenno di riprendere il discorso da dove si era interrotto.

“Stavo dicendo. Adesso che Harry è cresciuto ed è protetto sotto l'ala di Silente non sento ci sia più niente di cui preoccuparsi. Per sette anni frequenterà Hogwarts e tornerà a casa solo per Natale e le vacanze estive. Nel frattempo imparerà a difendersi e a far esplodere cose e, quando sarà il momento, – BAM! - farà secco Voldemort. Punto. Ma Lily non fa altro che aggiungere problemi a quelli che già ci sono.” James alzò le mani in rassegnazione. “Io ho provato a spiegarglielo, ma lei non si vuole mettere in testa che questa situazione, alla fine, è piuttosto semplice.”

“Forse sei tu che sottovaluti troppo la cosa, James.” replicò Sirius.

“Non ti ci mettere anche tu adesso!” sbraitò James, esasperato “Ti ho già detto come stanno le cose, la Profezia parla chiaro e, che tu ci voglia credere o no, non nasconde nessun messaggio subliminale. Harry, quando sarà il momento, sconfiggerà Voldemort. Fine.” Sbattè entrambe le mani a palmi aperti sul tavolo per segnalare che non aveva intenzione di protrarre il discorso.

“E vissero tutti felici e contenti.” concluse per lui Sirius, con un velo di sarcasmo.

“Esattamente.” James si tolse gli occhiali e strofinò le lenti con l'orlo della maglia, cercando di pulire le impronte lasciate dalle dita sul vetro come meglio poteva. Il risultato si rivelò, come sempre, insoddisfacente. “Senti, si sta facendo veramente tardi adesso, è meglio che io vada.” Si alzò da dove si era messo a sedere.

“Allora ci vediamo uno di questi giorni, ok?”

“Mh-hm.” mugugnò Sirius, senza neanche alzarsi per accompagnare James alla porta. Dopo neanche un minuto da quando James era sparito su per la scala a chiocciola il rumore attutito del portone di Grimmauld Place che si apriva e richiudeva giunse alle orecchie di Sirius. L'uomo si fregò gli occhi e sbadigliò. Si concesse ancora un po' di tempo prima di alzarsi e cominciare a far bollire l'acqua per il tè. Mentre apriva ogni scaffale e sportello della cucina in cerca del barattolo di latta contenente le foglie di tè i suoi pensieri tornarono a soffermarsi sulla discussione avuta con James. Il suo amico era convinto fino al limite del possibile che Harry - suo figlio Harry, il prescelto dalla profezia, il beniamino della comunità magica, il bambino di undici anni - sarebbe riuscito senza ombra di dubbio a disintegrare Riddle e con lui tutta la sua organizzazione terroristica. Lily probabilmente non era d'accordo con la conclusione a cui era giunto il marito e, in tutta onestà, Sirius non poteva biasimarla.

Il contenuto della profezia era preoccupante, l'unica certezza che prometteva è che Harry, prima o poi, sarebbe stato coinvolto in un omicidio e non c'era nessuna garanzia che il nome inciso sulla lapide sarebbe stato quello di Tom Riddle. La sua risoluzione non poteva altro che portare dolore con sé, anche nella migliore delle ipotesi. Sirius conosceva James da quando entrambi non erano ancora alti abbastanza per salire sulle montagne russe e sapeva che per lui ignorare che ci fosse anche un altro lato della medaglia – un lato più oscuro, più terrificante - significava eliminare tutte le 'vibrazioni negative', come era solito chiamarle, e a dover essere sinceri parecchie volte il suo metodo aveva funzionato. Ma, ad essere ancora più sinceri, quando il metodo di James falliva lo faceva clamorosamente, come quella finale di quidditch del '76.

Grifondoro contro Tassorosso, 50 a 315; due mesi passati ad irritare ogni residente della torre di Grifondoro con i suoi discorsi motivazionali su come la squadra avesse la vittoria in pugno per poi perdere la partita in maniera colossale. Probabilmente ad Hogwarts ne parlano ancora.

Sirius trovò il tè dentro allo sportello nell'angolo a sinistra, dietro ad un barattolo di marmellata. L'acqua era ormai giunta a bollitura e Sirius la versò in una tazza, per poi riempire il filtro in metallo di foglie di tè e calarcelo dentro. L'acqua cominciò a tingersi di scuro e Sirius la guardava, perso nei suoi flutti ambrati. Non sapeva che cosa pensare di tutta questa brutta faccenda. Sperava soltanto che non si rivelasse essere un altro 1976.

 

 

 

 

*******

 

 

 

Un rumore improvviso disturbò la quiete del villaggio di Little Hangleton, come di un vecchio motore a scoppio, il che sarebbe strano visto che da quelle parti non si vedeva passare una macchina dal 1962. Il vecchio Bernie, che se lo ricordava bene, sollevò la testa dal giornale sorpreso e scrutò l'orizzonte corrugando la fronte già rugosa in cerca di un veicolo, o di qualsiasi altra cosa che avesse potuto provocare un suono del genere. Niente che incontrò gli occhi dell'anziano signore avrebbe potuto far pensare ad un'automobile, un motorino, o anche solo una bicicletta. C'erano soltanto due persone, un uomo e una donna che Bernie non aveva mai visto prima, e stavano risalendo la strada verso la villa abbandonata dei Gaunt. Probabilmente erano sempre gli inviati di quello stupido programma televisivo sulle case infestate dai fantasmi della BBC, che erano tornati nella speranza di riprendere con la telecamera qualcosa in più dei mobili polverosi e dei muri scrostati della volta prima. Bernie concluse che l'udito gli aveva giocato un brutto scherzo, sbuffò rumorosamente e tornò a leggere il giornale, sicuro che anche quel giorno i due se ne sarebbero tornati a Londra a mani vuote. I forestieri non ne avevano idea ma tutti, tutti in città lo sapevano: Neanche i fantasmi si sentivano al sicuro nel maniero dei Gaunt.

 

 

 

*********

 

 

Un uomo dai capelli grigi e il viso scavato se ne stava seduto in una poltrona di cuoio marrone dall'aspetto usurato, guardando distrattamente fuori dalla finestra. Little Hangleton si stendeva ai piedi della collinetta, inghiottita dal grigiore di quella mattina. Era in attesa di documenti importanti, e li stava aspettando da più tempo di quanto avrebbe voluto. Con il cielo coperto era impossibile poter dire che ora fosse e in tutta la casa non c'era un orologio funzionante ma, a questo punto, era chiaro che le persone incaricate della missione fossero in ritardo.

L'uomo tamburellò le lunga dita pallide contro la scrivania quando sentì dei passi al piano di sotto della casa e delle voci concitate che parlavano tra di loro. Non riusciva a capire quello che si stessero dicendo ma poteva ben immaginarlo. Si alzò in piedi ergendosi in tutta la sua statura e si rivolse verso la porta che dava sul corridoio. I passi si facevano sempre più vicini e le voci più forti e più chiare, per quanto i proprietari cercassero di tenere a bada il tono.

“E' colpa tua, Amycus,” sibilò la voce di una donna “sei tu che mi hai distratto e fatto sbagliare!”

“Colpa mia? Ti sei smaterializzata a Birmingham in Alabama. E' dall'altra parte dell'oceano, cazzo!”

“Poco prima che mi smaterializzassi ho pestato un pezzo di vetro rotto con lo stivale, mi sono sbilanciata e ho perso la concentrazione. Vetro rotto da te!”

“Che scusa del cavolo.”

Ci furono pochi attimi di silenzio, interrotto solo dal pestare delle scarpe sul vecchio parquet, prima che una non tanto decisa mano si mise a bussare ritmicamente contro la porta.

“Hai sbagliato il codice. Erano due colpi, pausa, tre colpi; non cinque colpi di fila.”

“Sta zitta.”

L'uomo all'interno della stanza alzò gli occhi al cielo, usando tutto il suo autocontrollo per non mettersi a urlare contro i due disgraziati dall'altra parte del muro. Invece si schiarì la gola e, con una voce piuttosto sicura e senza inflessioni per un uomo della sua età, disse: “Entrate pure.”

La testa bionda di Alecto Carrow fece capolino da dietro il portone di legno, seguita dal resto del suo corpo e dal fratello Amycus. Una volta entrati, entrambi si piegarono leggermente in avanti in un mezzo inchino; Alecto chinando la testa con una reverenza quasi religiosa, Amycus senza staccare mai lo sguardo preoccupato dall'uomo di fronte a lui.

“Sono le undici e quindici.” constatò l'uomo in piedi lanciando un'occhiata fugace all'orologio nell'angolo della stanza. In realtà le lancette segnavano le cinque e mezza, e così era stato per una decina d'anni ormai. L'orario che aveva appena annunciato se l'era inventato sul momento. Era probabile che non fossero neanche passate le undici ma non si aspettava certo che le persone davanti a lui mettessero in dubbio ciò che diceva.

I due fratelli si raddrizzarono senza proferire parola, evitando di incrociare gli occhi con lui. Due bambini terrorizzati, ecco cos'erano. Il solo pensiero di essere capace di scatenare un disagio talmente intenso da risultare quasi palpabile faceva tremare le viscere dell'uomo di un piacere perverso e rinvigorente. La ragazza fu la prima a rompere il silenzio dopo qualche attimo di taciturno terrore, la voce abrasiva di qualche minuto prima ridotta ad un pigolio:

“Siamo consapevoli del ritardo, mio Signore. Purtroppo siamo stati trattenuti da un imprevisto che ha provocato diversi minuti di confusione. Spero che possa perdonarci questo terribile errore.”

“Terribile, ma umano.” si affrettò ad aggiungere Amycus.

L'uomo alzò entrambe le sopracciglia, senza neanche preoccuparsi di nascondere il sorriso maligno che gli contorceva la bocca.

“Umano, dici?”

Amycus serrò gli occhi, abbassò la testa e irrigidì ogni muscolo del proprio corpo, preparandosi alla molto probabile eventualità che gli venisse scagliata contro una dolorosa maledizione nel giro di qualche secondo, ma l'unica cosa che il suo corpo sentì fu la risata dell'altro uomo che risuonò all'improvviso nella stanza. Alzò lo sguardo con lentezza, giusto in tempo per vederlo sedersi dietro la scrivania, i rimasugli della risata che gli scuotevano le spalle come un singhiozzo. Si voltò verso Alecto soltanto per accorgersi che lei lo stava già guardando con occhi accusatori, la bocca stretta in una linea sottile.

L'uomo seduto alla scrivania, una volta cessato l'improvviso attacco di risa, si schiarì la gola e parlò:

“Ho poco interesse a sentire le vostre ragioni per essere arrivati in così terribile ritardo. Io vi volevo qui non appena fossero suonate le dieci e qualunque scusa mi forniate non sarà abbastanza per giustificare questa vostra mancanza di rispetto verso di me.” L'uomo fece scorrere una mano contro il bordo di legno logoro del tavolo, fingendo disinteresse per la questione.

“Fosse stato un altro giorno avrei trovato la cosa inaccettabile, tuttavia stamattina mi sono svegliato di buon umore e non ho voglia di farmi rovinare questa rara occasione da due ragazzini con la testa fra le nuvole.”

“Lei non immagina cosa questo perdono da parte sua significhi per no-”

Un gemito strozzato interruppe il tentativo di arruffianamento di Amycus, piegato in avanti dall'improvvisa scossa di dolore che gli aveva percorso tutto il corpo. Anche Alecto, dal canto suo, non se la stava passando troppo bene. Ogni traccia di colore era scomparsa dal suo viso, i suoi denti avevano involontariamente sbattuto tra di loro in un tentativo di trattenersi dal gridare e le sue ginocchia minacciavano di cedere da un momento all'altro. Chiuse gli occhi di fronte al dolore bruciante che stava via a via consumando ogni parvenza di autocontrollo che le era rimasta. Sotto la scrivania la bacchetta dell'uomo, stretta nella sua mano, stava emettendo una debole nebbia bianca.

“Considerate questo un assaggio di quello a cui andrete incontro in caso mi faceste perdere una simile quantità di tempo per una seconda volta.”

La nebbia cessò di fuoriuscire dalla punta della bacchetta così come cessò il dolore di Amycus ed Alecto, lasciandosi dietro respiri affannati e nervi stremati.

L'uomo concesse loro qualche secondo per riprendere il respiro, poi chiese bruscamente:

“Allora? I documenti?”

Amycus si affrettò a frugare nelle tasche della giacca, tirandone fuori un pacco marrone sigillato. Si avvicinò con cautela al vecchio uomo e glielo posò davanti sulla scrivania. Quello allungò il braccio verso di esso e lo aprì senza fare troppa attenzione, tirando fuori il contenuto. Amycus approfittò del fatto che si fosse momentaneamente concentrato sui documenti per indietreggiare e tornarsene accanto ad Alecto. L'uomo diede un'occhiata veloce ad ogni foglio che aveva in mano annuendo con la testa, per poi posare tutto di nuovo sul tavolo.

“Non manca niente.”

Entrambi i fratelli tirarono un sospiro di sollievo di fronte all'apparente soddisfazione del proprietario di casa. L'uomo dietro la scrivania alzò lo sguardo verso di loro, sopracciglia alzate e fronte corrugata, e disse, con un po' di insofferenza:

“Be'? Che ci fate ancora qui? Avete finito, potete andarvene.”

“Sì Signore.” rispose prontamente Alecto “Grazie Signore.”

“Le siamo grati per tutto quello che fa per la causa.” aggiunse Amycus in un sussurro appena sopra il limite dell'inudibile.

L'uomo seduto roteò gli occhi e fece un gesto con la mano per indicare loro di sbrigarsi e finirla con le loro vuote formalità. I due non persero ulteriore tempo e, dopo un inchino accennato e un affrettato arrivederci, girarono i tacchi per dirigersi verso l'uscita, Amycus un po' più entusiasticamente della sorella. Arrivarono fino al portone al piano di sotto senza pronunciare una sola parola, l'unico suono che produssero fu lo sbattere delle ante di legno contro la vecchia struttura cigolante e decrepita del maniero. Ormai si poteva davvero dire che stava in piedi per miracolo. O, più accuratamente, per incantesimo.

L'uomo dietro alla scrivania si rilassò ed affondò il suo corpo nel cuoio usurato della poltrona. Si passò una mano sul viso segnato dal tempo e la tenne lì per un po', a riparargli gli occhi dalla luce grigia del Sole che tentava di farsi notare da dietro il suo sipario di nubi, una luce malata, una luce morente inadatta a quell'ora del giorno. Non la sopportava. A che serviva il Sole se non scaldava neanche? Erano i suoi due soli compiti – riscaldare e illuminare – e nel nord dell'Inghilterra non sapeva fare bene nessuno dei due. Tom Riddle si tolse la mano da davanti agli occhi, pensando a come il Sole fosse una stella così fastidiosamente ineffciente.


NdA: Non è mica passato tanto tempo dall'ultima volta che ho aggiornato, vero?

 

   
 
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