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Autore: aniasolary    28/11/2015    3 recensioni
A ventotto anni, Arthur Benkinson ha fatto molti errori che non si perdonerà mai. Si è innamorato, due volte: forse tre, non sa ben spiegare. E' stato un disastro. Il cassetto in cui ha conservato i suoi sogni è tutto impolverato, ricorda di averne buttato la chiave.
E' imprigionato da delle catene che si è fabbricato lui stesso.
Ma forse non è troppo tardi per lasciare la sua prigione.
Forse ha solo bisogno che qualcuno ascolti la sua storia. Una storia di dolore. Una storia d'amicizia. Una storia d'amore. Una storia di crescita. Una storia per qualcuno.
Qualcuno di importante.
"Mio padre e mia madre mi hanno insegnato ad essere il migliore in tutto, ma tu mi hai insegnato ad essere un brav’uomo. A cogliere le margherite alla fine dello stelo, per non farle soffrire, perché tutti a questo mondo soffrono anche se non piangono. A prendere le coccinelle con la paletta della polvere e a lanciarle dalla finestra, in modo che si librino in volo. A rifare il letto al mattino appena sveglio, perché verrà un giorno in cui non ci sarò, e sarai solo, e imparerai quanto sono facili le grandi cose, capendo quanto è difficile curarsi delle piccole cose. "
(
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Secondo capitolo

 
Jade, a scuola, andava nella classe accanto alla mia. In cortile, a pranzo, spesso mi perdevo a guardarla tra un panino al formaggio e una mela verde. Non sapevo perché guardavo Jade; nemmeno perché mi voltavo quando ne sentivo, anche in lontananza, la voce – squillante, candida, piena di vigore che gridava ciao! Ehi! Vuoi giocare con me?
Nessuno le diceva mai di no.
Accanto a lei c’era una bambina magrissima con i capelli rosso rame, quel giorno.
Jade stava aprendo la confezione del suo yogurt, ed io mi ricordai di quello che facevi tu, Eirene, a casa nostra. Il tuo yogurt greco e amaro, che addolcivi con delle gocce di cioccolato perché io lo mangiassi. Potevo andare da Jade e dirle ehi, la mia Eirene fa uno yogurt diecimila volte più buono di quello che hai tu. Quando vieni a fare merenda con me?
Ma un rumore costante attirò la mia attenzione, come una pioggia di sassi.
Era una pioggia di sassi.
Un passerotto saltellava, tenendosi in equilibrio su una sola zampa, mentre un gruppo di bambini gli lanciava contro delle pietre.
Un senso di disagio mi invase. Se avessi agito, mi sarei fatto dei nemici, e allora io sarei stato proprio come quello che intendevo salvare: l’obbiettivo di tante sassate.
Ma c’era qualcuno, al mondo, che era molto più deciso di me. Questo qualcuno a grandi falcate si diresse verso il gruppetto, si fece spazio a colpi di gomiti e si chinò a proteggere il piccolo passerotto.
«Ma che fai, scemo?» gli gridò un membro del gruppo.
Il bambino, adesso in ginocchio e col passerotto tenuto in due mani, voltò la testa di scatto. I suoi occhi taglienti trafissero tutti i presenti.
«Se volete prendere a sassate qualcuno, ci sono io,» disse, e chiuse la mano a coppa, in modo che l’uccellino non potesse vedere all’esterno. Suonò la campanella della fine dell’ora di pranzo e il gruppo si sciolse tra sbuffi e vaghi insulti. Il bambino scuro continuava ad accarezzare il passerotto, a parlargli a bassa voce, a lasciargli piccoli baci sulle ali.
Provai per lui un’ondata di ammirazione che mi fece gonfiare il cuore.
«Ciao,» gli dissi. «Tu sì che sei un tipo forte.»
Il bambino parve non aver sentito. Si mise in piedi, constatò con rassegnazione di essersi sporcato i pantaloni sulle ginocchia e tornò a guardarmi.
Aveva due occhi oblunghi nerissimi, intensi. Doveva venire da un paese molto, molto lontano.
«Mi ha cacato in mano,» disse, con una freddezza che mi fece diventare le orecchie rosse. «Mi accompagni in infermeria?»
Mi girai un attimo: tutti i bambini erano entrati, adesso rimanevamo solo io e questo bambino sconosciuto. La maestra si sarebbe sicuramente arrabbiata. Anche mamma si sarebbe arrabbiata.
Anche papà.
Oh, insomma, Batman non si farebbe così tanti problemi!
«Sì, ti accompagno,» decisi, mi incamminai con lui. Avrei dovuto imparare a disubbidire prima o poi, no? «Io mi chiamo Arthur, come il padre di mia madre, che è andato in cielo quando io ero nella sua pancia. E come il re della leggenda. E tu come ti chiami?»
«Bradley, perché mamma è inglese e i nomi thailandesi per lei sono tutti brutti,» fece lui, con una voce allarmata. «Mamma mia, continua a fare la cacca!»
***
Avevo il fiatone.
C’era odore di fiori ed erba fresca; mamma aveva portato il cestino con i panini che avevi fatto tu, che eri la governante migliore del mondo per la famiglia migliore del mondo. E la famiglia migliore del mondo eravamo noi. Sulla tribuna, le teste bionde di mamma e papà attiravano i raggi del sole, perché la luce accoglie solo la bellezza. Ed io ero lì perché c’erano loro, e mi chiedevo come poteva esser venuto fuori un risultato più piccolo dalla loro somma, quando la somma è sempre un più e non accetta mai meno.
Mi ero allenato tutto l’anno, per quella gara, e tu lo sapevi. Dopo la scuola e i compiti, tornavo stanco e ansimante, pronto solo per una doccia veloce, una cena imbandita ed un sonno riposante e profondo. Ed ora correvo come fanno le gazzelle quando scappano dei leoni, leggere e impaurite. La paura le uccide ancora prima che il leone riesca a prenderle.
Ecco perché non ce l’ho fatta.
Papà mi fissava dalla tribuna, allo stesso modo di come guarda chi non rispetta le scadenze di pagamento in banca. Come se guardarmi lo ferisse.
Come se avesse perso lui al mio posto.
Papà fece per scendere, mentre mamma accanto a lui lo seguiva ed io non respiravo più.
Ma continuai a correre.
«Arthur!» mi chiamò mamma.
Ma l’unico motivo per cui volevo ancora correre non era vincere: era scappare, scappare per sempre.
Finii nel boschetto proprio davanti al campo.
Inciampai. La radice di una vecchia quercia mi aveva bloccato il passaggio ed il vetro di una bottiglia mi ha aperto uno squarcio sul ginocchio.
Bruciava.
«Non ti arrendi mai, tu, eh?»
No… no, questo no.
«Lasciami da solo.»
Uno sbuffo. «No.»
«Ti ho detto di lasciarmi in pace.»
«Io obbedisco solo alla mia mamma e al mio papà.» Mi fece voltare il viso, aveva le mani bianche, era la neve che ghiacciava il dolore, lo trasformava in freddo e così pungeva meno.
«Vattene via, Jade…» Anche la famiglia Truman era venuta ad assistere alla gara; erano arrivati quando era già iniziata, perché quando il fischio si è propagato nell’aria per la partenza, i miei genitori erano soli, circondati da persone di cui oggi ho dimenticato volti e nomi.
Un fazzoletto contro il mio naso. «Soffia, stupido.»
Obbedii, mi venne fuori lo stesso rumore di una pernacchia, c’era il muco.
«La mia sorellina sbava meno di te,» ridacchiò. «Ti sta uscendo il sangue.»
Strinsi forte le palpebre.
«Ho perso.» La mia voce era tutta compressa.
«Veramente sei arrivato quarto.» Mi mise una mano sotto il braccio per farmi sollevare. «Quindi hai perso bene.»
«Scusa,» grugnii.
«Per essere un maleducato? Lo sei, Arthur Benkinson, non mi hai nemmeno detto grazie. Ad Halloween potrai anche vestirti da principe, ma un cavaliere non lo sei per niente.»
«Ti ho detto grazie per farmi appoggiare alla tua spalla.» Sospirai. «E tu potrai anche vestirti da Jasmine di Aladdin e trasferirti in Africa, tanto non ti abbronzerai mai.»
Assottigliò gli occhi. «Quasi quasi ti faccio cadere.»
Chinai la testa. «Scusa.»
«Litigare con te è una noia, chiedi sempre scusa.»
«Scusa.»
«Scusa per cosa?»
«Per averti chiesto scusa.»
«I maschi sono tutti scemi.»
«E le femmine sono tutte antipatiche, tranne la mia mamma e la mia governante.»
«Pff.»
«Pfffft.»
Scuotemmo la testa nello stesso momento. Arrivammo all’inizio del boschetto e lei si fermò.
«Adesso vai da solo.»
Sgranai gli occhi. «Ma zoppico…»
«Tutti gli altri ti insulteranno se vedono che ti aiuto.»
Annuii, affranto. «Lo so.»
«Non ti insulteranno. Non mi vedranno. Andrai da solo.»
Scossi la testa, i capelli mi finirono davanti agli occhi. «E se cado? E se mi faccio di nuovo male? Non sono sicuro…»
«Impara a crederci,» disse, piano. «Se impari a crederci potrai arrivare tanto lontano, anche zoppicando.»
Guardai dritto davanti a me.
«Anche se fa male?»
«Anche se fa male
Un attimo di silenzio.
Un sospiro.
Feci il primo passo.
***
Papà si rigirava tra le mani la chiave del circolo di golf. L’avevano eletto vicepresidente, e poteva andarci tutte le volte che voleva. Mi ci poteva portare tutte le volte che voleva.
«Ecco.» Lasciò cadere una sacca di lino piena di palline ed una mazza. «Comincia a giocare.»
«Non posso andare a nuotare un po’ in piscina? »
«No,» rispose secco. «Devi esercitarti. O vuoi deludermi, come hai fatto con la gara di corsa? »
Chinai la testa, ed il pomeriggio soleggiato divenne improvvisamente nero di nuvole piene di pioggia. «Non ti voglio deludere,» mormorai.
«Questo è il mio ragazzo.» Mio padre mi diede una pacca sulla spalla, sorrise a quel suo modo composto e al tempo stesso caloroso, tentai d’imitarlo. Mi mise in mano la mazza da golf. «Comincia. »
«Per quanto tempo devo esercitarmi?»
«Fino a quando non diventi il migliore.»
«E come faccio a sapere di essere il migliore?»
«Continua a fare quello che bisogna fare.» Mi scostò i capelli dal viso. Diceva sempre che voleva portarmi dal barbiere per farli tagliare. «Fino a quando non muori.»
Mi aspettai un altro sorriso, una risata, un qualcosa che rivelasse il trucco. Ma non ci fu niente di tutto questo, solo una serietà inaudita, una severità inaspettata, un gelo improvviso. Richard Benkinson si era svegliato, quella mattina, ed aveva deciso di educarmi per farmi a sua immagine e somiglianza. Ma io avevo già nove anni: una creta già indurita, non fango malleabile con cui Dio creò, nella Bibbia in cui tu credevi, Adamo ed Eva. Con sforzo doveva stringermi attorno le dita, usare coltelli, parole dure, mentre io mi impegnavo di compiacerlo.
Ma avevo già la forma dell’uomo che sarei diventato e tu, Eirene, sei stata la mano decisiva che mi ha modellato.
***
Quante volte mi hai fatto il solletico, dopo le cene che i Truman passavano a casa nostra, ridendo forte come un branco di gabbiani che stormisce in coro lungo il cielo, mi chiedevi “ti piace Jade, eh? Ti piace?”, ed erano le uniche volte in cui ti gridavo “e lasciami in pace, Eirene, e mollami, e dai!” Così ce l’avevo con te per tutto il giorno, e tu ridevi, Eirene. Mi mostravi la foto di tua figlia Clio – l’avevi chiamata come tua madre –  che aveva diciassette anni ed aveva rubato il cuore a tanti bambini, proprio come Jade aveva fatto con me, e ne eri orgogliosa ed io ancora di più, nel profondo dello stomaco – perché lì mi sono sempre finiti tutti i dispiaceri – ce l’avevo con te. E mentre mi rifugiavo nel mio armadio, la tua voce aspra mi arrivava alle orecchie sulle note di una canzone in una lingua sconosciuta. Tante volte mi hai spiegato che il tuo Greco non è lo stesso di quello che parlavano Solone e Clistene, Pericle e Aspasia e tu, dopo aver finito la tua canzone, mi venivi a trovare, mi abbracciavi forte e mi sussurravi, all’orecchio, la parola più importante in tutte le lingue del mondo.
Ti voglio bene.
Ricordi quando mi aspettavi con il mio accappatoio con sopra i disegnini degli squali? E tenevi gli occhi chiusi sotto mia costrizione, perché mi era nato il pudore per la mia nudità stramba; mi avvolgevi nel tessuto strofinando dappertutto e mi chiamavi piccolo re; mi asciugavi i capelli, mi facevi infilare i jeans, mi spruzzavi l’acqua di colonia di mio padre e poi, dalla finestra, mi salutavi fino a quando l’auto di papà non svoltava l’angolo per raggiungere la casa dei signori Truman.
Ecco proprio in quelle cene infinite, in quei pomeriggi col tè ai frutti di bosco e i biscotti al burro, in quelle domeniche di sole e sonno, io osservavo. Il signor Truman seduto a leggere un libro sulla poltrona del salotto, Jade che gli si avvicinava piano piano, credendo che la montatura degli occhiali del padre riuscisse a nascondere i suoi passi felpati; il salto da leone con cui lei saliva sulle gambe di suo padre ed il libro che gli scivolava tra le gambe insieme alle caviglie sottili di Jade. Lei si lasciava abbracciare e baciare a morsi senza denti da quell’uomo che in tribunale scannava con le parole, ma lì era innocuo, lì era un padre innamorato. Gattonando, una piccola Natalie si avvicinava a quelle risa di festa, e allora il signor Truman lasciava Jade seduta su una coscia e si sistemava Natalie sull’altra, che sorrideva vittoriosa e faceva ciao con la mano. Natalie era una bambina che sorrideva a tutti e salutava tutti, a casa con chi vedeva ogni giorno e al supermercato con gli estranei, per questo Jade, quando facevamo delle passeggiate a Crosbey Beach, accanto al passeggino spinto dalla signora Truman, prendeva il ruolo di cane da guardia, da caccia, e da pascolo per proteggerla, attaccare e assicurarsi che tutto andasse bene.
Così passò la mia infanzia. Con te che mi aspettavi all’ingresso e mi leggevi negli occhi quanto cresceva il sentimento straordinario che sarebbe stato la causa della mia distruzione. Mi carezzavi il viso e mi stringevi forte al tuo petto dal profumo di latte e farina.
Sapevi che nemmeno tu saresti riuscita a salvarmi.
***
«Adesso che è finita la cena,» cominciava una Natalie di sei anni, lisciando il tovagliolo con le sue mani piccole. «Possiamo andare in salotto così Jade può suonare?»
«Magari i signori Benkinson sono stanchi,» le diceva sua madre mentre aiutava Wanda, la loro cameriera, a sparecchiare.
«Non sono stanchi!» insisteva Natalie. Con quel vestito rosa di tulle e i capelli che crescevano e le si raccoglievano ad onde, sulla schiena, come dopo non hanno fatto mai più, era una bambina meravigliosa. «Jade, ti preeeeego.»
«Non suonerò Chopin, stavolta,» precisava Jade, che si schermiva facendo passare il dito sul bicchiere di cristallo.
Jade cresceva con una naturalezza disumana. Il viso era rimasto tondo e luminoso come quando era piccola, le forme del corpo erano definite nel loro essere ancora acerbe. Cercavo di guardarla negli occhi il meno possibile, perché quel colore a metà tra il mare e il prato bagnato di rugiada mi ipnotizzava, e non accennava a cambiare. «Beethoven,» decise. «Solo per chi è più paziente.» Mi lanciò un’occhiata, si alzò da tavola e si incamminò verso il salotto.
Natalie, saltellante, si avvicinò al mio posto. «Si alzi, signora! Si alzi, signore!» fece ai miei genitori, e Buford Truman scoppiò in una risata fragorosa che Natalie parve non notare. Si rivolse a me con la dolcezza nei occhi allungati.
«Arthur, vieni?»
Mia madre si mise a gambe accavallate seduta su di una poltrona, mentre Jade si sedeva al piano. «Allora vuoi fare la musicista, Jade? » le chiese.
«Voglio fare l’avvocato,» rispose lei, pigiò qualche tasto qua e là. «Voglio mandare in prigione i delinquenti, come papà. Il pianoforte è una cosa in più,» continuò. «Se non suonassi, Natalie sarebbe triste.»
«Lo saremmo tutti noi,» aggiunse la signora Truman. «Ma ora suona, tesoro. Facci sentire un po’.»
Jade suonava il pianoforte da quando aveva nove anni. Il modo in cui diventava padrone dei nostri fiati, dei battiti dei nostri cuori, dei nostri sguardi nel momento in cui le sue dita toccavano i tasti era la prova del suo talento. Era una sirena che cantava attraverso la voce di corde che le appartenevano più di qualsiasi altra cosa. In quegli attimi di pura concentrazione potevo perdermi a guardarla senza vergogna, e così arrivai ad impararla a memoria – la ruga in mezzo alla fronte, sette lentiggini sul naso, un neo sotto lo zigomo – a impararla così bene che la riconoscevo di lontano a miglia e la notte, nei miei sogni, sembrava vera, sembrava lei.
«Che cos’era, questa?» chiese mio padre, con un fallito tentativo di risultare indifferente, ma la sua voce ne tradì l’emozione.
Richard Benkinson era lontano da molte cose che contenevano l’amore.
«Sonata al chiaro di luna,» rispose Natalie, piano. Corse ad abbracciare Jade. «È la mia preferita.»
Oh, erano belle quelle sere, così tanto che ho la paura tremenda di averle solo immaginate, sognate, e che Jade sia stata tutta un’immaginazione, un sogno. Ma non lo era: lei suonava al suo pianoforte, in salotto, ed io avrei potuto guardarla per ore, ascoltarla per ore, guardarla e ascoltarla ancora un attimo, ti prego, per sempre. La signora Truman voleva che Natalie aspettasse qualche altro anno per seguire anche lei delle lezioni, ma la bambina si sedeva al piano e, con le mani aperte, faceva sui tasti TAN TAN TAN. Natalie mi lanciava un’occhiata furba, orgogliosa d’avermi fatto sorridere. Lei, così piccola, in quegli anni mi ha dato tutto l’affetto e l’interesse che io agognavo dalla splendida freddezza di Jade. Col tempo imparai a rassegnarmene, a sapere che con Jade avrei sempre commesso degli sbagli – romperle una barbie da collezione per sbaglio, mettere troppo cibo nella boccia del suo pesce rosso, avere un attacco di tosse mentre lei recitava la poesia per la festa della mamma –, che lei era troppo di più ed io ero troppo di meno ed insieme eravamo due linee che non sarebbero mai state convergenti tra loro, anche se io mi incurvavo ostinato verso di lei. Tanti amici di mamma e papà sono venuti a cena a casa nostra, ed io sono andato a cena da tanti altri amici di mamma e papà che tu hai conosciuto, eppure il riguardo che avevi per Jade e Natalie Truman, che dimostravi da prima di capire che la loro presenza mi scatenasse vergogne ed ansie titaniche, mi faceva gioire. Perché ti piacevano, Eirene? Perché Theresa è italiana e la Grecia è vicina all’Italia, lo era soprattutto quando i tuoi avi erano al loro massimo splendore? Volevi bene ai signori Truman, alla loro allegria pacata – che in Natalie esplodeva – alla loro gentilezza di cuore, ai loro sorrisi.
Così mi hai visto diventare un ragazzo. Iscrivermi alle gare d’atletica e piangere, perché non ci volevo andare; finire a vincere i campionati di golf, proprio come mio padre; diventare il migliore in Matematica e mediocre in Lettere – hai curato con un bacio, una volta, uno schiaffo di mia madre; scappare a casa di Bradley tutte le volte in cui non ne potevo più e ritornare, per prendermi il doppio delle botte sul sedere che mi avresti dato se fossi rimasto.
I veri uomini restano, hai capito, piccolo re? Mi dicevi. La prossima volta non scappare più.
Hai conosciuto anche Bradley, che mi chiamava  per giocare a calcio, salvava gli animali e faceva sempre l’occhiolino a tutti, come il personaggio di un musical. Ci ho fatto insieme la prima sbronza, la prima sigaretta, la prima canna – Dio, non credevo che avrei mai avuto il coraggio anche solo di pensare di rivelarti simili sciocchezze. Per un po’ fare certe cose mi ha fatto sentire grande come volevo essere, perché anche se crescevo mi sentivo sempre troppo di meno mentre Jade diventava ancora troppo di più. Ero un gran stupido, me ne rendo conto, ma la tristezza mi annebbiava il cervello, mi faceva fare quello che facevano tutti, mi aiutava a pensare che ero contento come lo sembravano anche gli altri. E Jade guardava tutto questo dall’alto, intoccabile. Il tempo che passava la levigava, la illuminava: divenne il perfetto inizio di splendida donna che tante volte mi ha fatto restare sveglio, tra le coperte, fino all’alba. 
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Ringrazio infinitamente le splendide persone che mi hanno lasciato il loro pensiero su efp e wattpad. Vi sono davvero grata e spero che la storia continui a piacervi. Arthur sta crescendo e nel prossimo capitolo lo vedremo nel pieno della sua adolescenza. 
Per chiunque volesse sognare un altro po', qui trovate la Sonata al Chiaro di luna <3 
Qui il gruppo in cui parlo di scrittura e della storia, se avete piacere di farne parte :3

Grazie ancora di cuore,
Ania <3

 
   
 
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